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LA GENERAZIONE DEI NEET: TUTTA COLPA DELLA SCUOLA?

PREMESSA
Avevo inviato questo post oltre un mese fa alla redazione del Blog “Scuola di Vita” del Corriere.it con cui da più di due anni collaboro. Non avendo ricevuto risposta, ho deciso di pubblicarlo qui. In passato avevo trattato questo argomento in due post, uno sul blog principale e uno su queste pagine. Questo articolo è un sunto dei due precedenti con i doverosi aggiornamenti.
Buona lettura!

neetgen
In Italia si chiamano “né né”, proprio perché non hanno un impiego né seguono alcun percorso di studio. Oggi si predilige la denominazione «Neet» (acronimo inglese di «Not [engaged] in Education, Employment or Training»), importando come spesso capita un’etichetta anglosassone. Se nel 2009 i giovani “né né” nel nostro Paese erano 270 mila, esclusivamente nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 19 anni, nel 2013, sempre secondo l’ISTAT, la percentuale degli under 35 in questa condizione sfiorava i 4 milioni.

A distanza di tre anni, come ci informa Dario Di Vico sul Corriere, è apparentemente migliorata, ma la fascia d’età è ristretta agli under 29: ora i giovani Neet sono 2 milioni e 300mila, ma i dati sono riferiti alla fascia di età tra i 15 e i 29 anni. Secondo l’indagine “Ghost”, 1 milione di Neet è disoccupato, ovvero in attesa di un’occupazione a breve termine, mentre gli «inattivi totali» raggiungono quota 600 mila.

Ma cosa fa questo esercito di “inoccupati”? Alcuni svolgono attività di volontariato, altri si dedicano allo sport, altri ancora sono impegnati in lavoretti come ripetizioni, baby sitting o comunque lavori a intermittenza con i quali i giovani non riescono a raggiungere una professionalità da spendere in futuro.

Insomma, pare che non tutti facciano parte della generazione degli “sdraiati”, come li definisce Michele Serra nell’omonimo libro. Anzi, i più frustrati sono i laureati (1 su 10) che davvero non avrebbero voglia di stare con le mani in mano, dato che si sono impegnati e hanno speso del tempo frequentando l’università. In questa classifica sconfortante, se vogliamo dir così, seguono i diplomati (5 su 10) che, tuttavia, non ritengono utile continuare gli studi, e quelli che non sono nemmeno arrivati al diploma di scuola media superiore (4 su 10).

Poiché questo è un blog che tratta di scuola ed è rivolto anche alle famiglie, vorrei soffermarmi a riflettere proprio su questo 40% di giovani che sono in possesso del solo diploma di terza media.

Sarebbe semplice dire che questi giovani sono degli indolenti, che non sanno attribuire il giusto valore all’istruzione o, più in generale, alla cultura. Facile puntare il dito sulle famiglie che non sono in grado di trasmettere loro questo tipo di valore e che accettano, la maggior parte delle volte loro malgrado, una situazione degna di essere chiamata parassitismo. Sarebbe scontato e banale affermare che se non hanno voglia di studiare, non li si può costringere; quante volte di fronte ai figli che non s’impegnano a scuola, i genitori tuonano con la solita frase trita e ritrita “allora vai a lavorare”. Magari trovassero lavoro, questi “inetti”!

Quando si parla di insuccesso negli studi dobbiamo tenere presente l’influenza di vari fattori: l’ambiente scolastico che il ragazzo non trova confacente, la famiglia che non ha gli strumenti per aiutarlo, le amicizie che rappresentano sempre più l’unico modello da seguire, soprattutto perché più comodo, essendo libero da obblighi che condizionano il comportamento. Mi spiego meglio: frequentando gli amici, un giovane innanzitutto non è giudicato, non ha regole da rispettare se non quelle condivise all’interno del gruppo, quasi mai impegnative a livello culturale e formativo, poi è libero di esprimere il suo disagio senza incorrere in rimproveri che addossino la responsabilità a lui solo, infine non ha bisogno di comportarsi in modo non spontaneo con il timore di essere censurato.
Il ruolo della famiglia è fondamentale, è vero, ma non è l’unica forza in ambito educativo. Spesso il “gruppo” funge da punto di riferimento e, guarda caso, non sono mai i modelli positivi ad essere trainanti.

Al di là degli stimoli che possono arrivare dalla famiglia, e talvolta anche dalla scuola, non si può escludere che il ragazzo che si trova in difficoltà alla fine segua istintivamente quelli come lui, arrendendosi alla conclusione semplicistica, ma assai condivisa tra “simili”, «la scuola non fa per me».

Per superare l’impasse è indispensabile la collaborazione scuola-famiglia, ma come sappiamo il rapporto tra le due parti è spesso tutt’altro che idilliaco. Da una parte la famiglia addossa alla scuola la responsabilità dell’insuccesso negli studi del proprio figlio, dall’altra gli insegnanti sostengono che la famiglia non si occupi del figlio e che se il ragazzo è un testone, non si applica, non segue i consigli, non c’è nulla da fare: somaro è, somaro rimarrà.

Naturalmente non si può evitare di fare i conti con l’autostima del ragazzo.
Al di là di un atteggiamento strafottente (così efficacemente descritto da Michele Serra nel libro citato), tipico di chi sfida gli adulti facendo credere che «lui sa quello che fa e non ha bisogno che qualcun altro glielo dica», spesso dietro questa ostentata sicurezza si cela una scarsissima autostima. Ovvero, facendo credere che l’insuccesso scolastico nemmeno lo sfiori, lo studente nasconde la mancanza di fiducia che ha dentro di sé.
Compito della scuola sarebbe comprendere questo tipo di situazione e trovare, assieme alla famiglia, un modo per guidare il ragazzo in un percorso di crescita che lo porti a superare la sfiducia in sé. Certo, per un adolescente è più facile gettare la spugna, rinunciare a modificare una situazione è più comodo; tuttavia, se gli adulti lo aiutassero a comprendere la causa del suo insuccesso e lo guidassero ad un miglioramento personale, quindi non solo relativo allo studio ma soprattutto relativo al suo rapporto con se stesso, ci potrebbe essere una speranza.

Non dimentichiamo, però, che molti ragazzi così fragili rifiutano di farsi consigliare dagli adulti, siano essi genitori o insegnanti.

La convinzione che il mondo del lavoro possa essere affrontato con minore impegno –solo perché non ci sono interrogazioni e compiti in classe-, per giunta con un tornaconto economico, è la molla che porta, poi, a lasciare la scuola per cercare un impiego. Ma anche quando trovano un posto, ben presto questi ragazzi comprendono che in qualsiasi mestiere sono richieste delle competenze che, se non ci sono, bisogna apprendere. L’impegno e la volontà sono imprescindibili così come il rispetto delle regole, pur diverse da quelle imposte dall’istituzione scolastica, è assolutamente dovuto. In breve, di fronte a questi ulteriori ostacoli, i ragazzi che appartengono alla “generazione dei né né” pensano di poter mollare il lavoro come hanno fatto con la scuola e di cercare altro. Peccato, però, che non ci sia questa grande offerta ed ecco che ragazzi come questi hanno un’unica possibilità: ingrossare le fila della già ben nutrita schiera dei loro simili.

Secondo Eurydice, in Italia dal 2009 al 2014 la percentuale dei cosiddetti early leavers è scesa dal 19% al 15%. Forse si potrebbero accorciare le distanze tra il nostro e gli altri Paesi europei se ci fosse una maggiore collaborazione tra scuola e famiglia, una sinergia in grado di rimuovere gli ostacoli e ridare fiducia ai giovanissimi, evitando un precoce abbandono scolastico.

[immagine da questo sito]

DA PRECARIE A DIRIGENTI SCOLASTICI: E’ GIUSTO?

dirigente scolasticoDue docenti precarie, ammesse con riserva alle prove del concorso per Dirigenti Scolastici, possono aspirare al ruolo dirigenziale. L’ha stabilito il TAR del Lazio che ha sciolto la riserva d’accesso al concorso ritenendo erronea la norma che prevede un servizio minimo di ruolo di cinque anni per presentare domanda.

Le due insegnanti hanno superato la prova pre-selettiva e tutte le prove d’esame. Possono, quindi, essere inserite nella graduatoria per Dirigenti Scolastici ed essere nominate in ruolo.

I giudici del TAR hanno agito allineandosi alle direttive europee che non prevedono limiti d’accesso ai pubblici esami, proprio per non discriminare i precari. Come osserva Marcello Pacifico, presidente dell’Anief, è arrivato il momento di prendere atto della giurisprudenza comunitaria e dell’esistenza di un’Europa dei diritti che i più conoscono, ma per la cui applicazione bisogna ancora lottare al fine di riuscire a far rispettare la dignità dell’uomo e del suo lavoro.

Fin qui la notizia. Personalmente ho delle perplessità.

Non voglio togliere alcun merito alle due colleghe né ho alcun tipo di riserva nei confronti dei precari. Il concorso non era facile, a partire dalla prova pre-selettiva. In media un candidato su quindici ha superato tutte le prove. Le due colleghe erano senz’altro ben preparate e saranno probabilmente delle ottime dirigenti. La questione è un’altra.

In Italia, si sa, il precariato è una piaga sociale. Nella scuola, in particolare, è molto difficile che un docente precario, anche se in possesso di abilitazione, ottenga un posto a tempo indeterminato. La politica dei tagli iniziata nel 2008, la riforma delle scuole secondarie di II grado, l’aumento del numero minimo di studenti per classe … sono tutti fattori che hanno determinato una stagnazione nell’ambito degli organici.

Quando parlavamo di supplenti, fino a una ventina di anni fa, eravamo soliti riferirci a gente giovane con poca esperienza. Ora la situazione è completamente diversa: ci sono precari che insegnano da 15-20 anni e non hanno alcuna certezza di essere assunti. L’Europa ha già bacchettato l’Italia e i nostri politici perché il “giochetto” delle nomine fino al 30 giugno e la riassunzione a settembre, spesso nelle stesse scuole, dei supplenti annuali fa risparmiare lo Stato ma determina una discriminazione grave dei precari che, pur lavorando effettivamente come i docenti di ruolo, o quasi, si vedono decurtare lo stipendio di due mensilità, con tutto quel che consegue a livello di 13^ mensilità, ferie e Tfr.

Ora la maggior parte dei supplenti che insegnano regolarmente tutti gli anni sono ben preparati. Tuttavia, considerato che la figura dell’attuale Dirigente Scolastico è ben lontana da quella del vecchio “Preside”, una buona preparazione in ambito didattico serve a poco o nulla.
Allora, direte voi, a maggior ragione un precario può aspirare al posto di Dirigente, visto che l’esperienza in cattedra ha scarso valore. Il ragionamento non fa una piega ma c’è un ma.

Chi sceglie di fare l’insegnante non ha alcuna possibilità di carriera. Nasce insegnante e muore insegnante (visto come si allungano i tempi per il pensionamento, forse questo modo di dire può sembrare più realistico di un tempo, almeno per quel che riguarda la fine). L’unica prospettiva di carriera è quella di fare il concorso per Dirigente Scolastico oppure quello per Dirigente Tecnico (ex ispettore scolastico). Per quest’ultimo ruolo, i concorsi sono rarissimi. L’ultimo in ordine di tempo, almeno secondo la fonte che ho consultato), è stato bandito nel 2008 dopo un ventennio (la dicitura non è casuale …) di nomine politiche, aggirando il concorso pubblico, previsto per legge quando si deve assumere personale di ruolo nella Pubblica Amministrazione.

A questo punto, ritorno alla questione dei precari ammessi al ruolo dei Dirigenti Scolastici. Non trovo giusto, proprio in virtù dei ragionamenti sopraesposti, che venga tolto il vincolo dei cinque anni di ruolo come docente per partecipare al concorso per D.S. Sarebbe comodo, infatti, per un supplente fare qualche anno di precariato e aspirare ad un’occupazione meglio retribuita (ma con molte responsabilità), “portando via il posto” (lo virgoletto perché si tratta, in definitiva, di aumentare il numero dei concorrenti) a chi ha anni di ruolo alle spalle e vorrebbe migliorare la propria posizione economica.

Prendiamo ad esempio il privato: sarebbe normale se una segretaria, dopo qualche anno di lavoro in ufficio, diventasse capoufficio, togliendo a persone con più esperienza la possibilità di aspirare a quel posto?

E adesso non ditemi che dipende dalla segretaria e dagli “straordinari” che è disposta a fare.

[LINK della fonte]

PRECARI DELLA SCUOLA: PENDOLARI PER PASSIONE

Tutti i docenti, chi più chi meno, agli inizi della carriera hanno fatto i pendolari. Qui in Friuli, ad esempio, praticamente nessuno ha potuto evitare la montagna, con distanze da coprire che possono arrivare anche a un centinaio di km, solo andata. Molte volte, la nomina in città come Tarvisio (per chi non conosce i luoghi, praticamente l’ultimo grosso centro abitato prima del confine austriaco) costringe al soggiorno obbligato e a spese non indifferenti di vitto e alloggio. Ma lo si fa, anche se ciò che resta dello stipendio mensile è ben poca cosa, per poter ottenere un punteggio che permetta una migliore posizione nelle graduatorie.

Non capita di rado che i pendolari siano un po’ speciali. Non di quelli che si fanno 100 o 200 km al dì. Capita che se ne facciano anche più di 1000 alla settimana. Sono i giovani che, pur di ottenere il punteggio, accettano le supplenze nelle regioni del nord, provenendo dal sud. Spesso si tratta di “precari storici”, quelli che insegnano da decenni e che non hanno speranza non solo di ottenere una nomina in ruolo, ma anche di poter lavorare come supplenti vicino a casa.

La storia di due docenti del sud che lavorano in Friuli è, però, singolare.

Giusy, all’anagrafe Giuseppina Attianese, ha 28 anni ed è salernitana. Laureata in Comunicazione e marketing, ha accettato una supplenza di sei mesi come insegnante di informatica. Fin qui, nulla di speciale. Ma la supplenza è di sole due ore alla settimana nella sede sangiorgina dell’Isis Malignani. Tutti i lunedì prende il treno da Castel San Giorgio, in provincia di Salerno, e arriva a San Giorgio di Nogaro (ironia della sorte: due città che portano il nome del santo che sconfisse il drago!): circa 1600 chilometri la settimana, andata e ritorno. Lo stipendio mensile è di 174 euro a fronte di una spesa di 547 euro al mese per i viaggi. Tutto per accumulare punteggio e scalare le graduatorie.

Poi c’è Rosario Calogero che arriva da Mazara del Vallo, in Sicilia, e ogni settimana si fa 3300 chilometri, sempre andata e ritorno, per fare un’ora di lezione di chimica all’Iti di Cervignano. Lo scopo è sempre quello: accumulare punteggio e sperare di ottenere un posto più comodo.

Poi c’è chi dice che gli insegnanti scelgono questo mestiere perché è comodo e ben remunerato, rispetto all’impegno che richiede. Io a costoro dico: la storia di Giusy e Rosario insegna che questa professione si fa per passione, anche a costo di rimetterci economicamente. Altro che comodo lavoro ben retribuito! Se non ci fosse la passione, questi due ragazzi potrebbero benissimo trovare un lavoro sottopagato, magari nei campi, più vicino a casa. E se, a questo punto, qualcuno osserva che nella scuola pubblica molte sono le braccia rubate all’agricoltura, rispondo: vadano loro a lavorare i campi, dando speranza a questi giovani che, in un momento di crisi profonda come quello attuale, non si rassegnano e sperano di realizzare il loro sogno.

[fonte: Messaggero Veneto]

SCUOLA PUBBLICA, ORARIO DOCENTI, DDL STABILITÀ: IL GRANDE INGANNO

Non condivido in toto ma in buona parte sì. Articolo decisamente interessante.

CRITICA IMPURA

Di ALERINO PALMA

Il cosiddetto “effetto 24 ore”, a un mese o più dall’annuncio che l’orario dei docenti della scuola secondaria sarebbe stato aumentato senza colpo ferire (senza aumento di stipendio) e senza tener conto del contratto, consiste sostanzialmente nel fatto che tutto, nel lavoro a scuola come nel lavoro a casa, i colloqui con i genitori, le incombenze quotidiane legate agli incarichi, le riunioni, insomma tutto è diventato più faticoso, percorso come mai prima d’ora dal dubbio sul senso, sulle finalità del lavoro culturale scolastico.

Ho l’impressione, vengo subito al punto, che la mancanza di senso non sia dovuta a una proposta sciagurata, quella delle 24 ore, ma al fatto che siamo sempre più pericolosamente su un argine, quello tra la scuola intesa come luogo di apprendimento di una cultura disinteressata e qualcos’altro. Che finora abbiamo vivacchiato vicino al confine, spostando di qualche settimana, di qualche mese il momento…

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DDL STABILITA’ E CATTEDRE DI 24 ORE: ANCORA DUBBI E BUGIE. ORA LO CHIAMANO “BISOGNO PROFONDO DI INNOVAZIONE”

Non c’è vergogna né pudore: dopo aver inserito nel ddl Stabilità l’art. 3, comma 42 che prevede l’innalzamento dell’orario di insegnamento per i docenti delle scuole secondarie di I e II grado dalle attuali 18 ore a 24, invocando la necessità di “equiparare l’impegno dei docenti italiani a quello dei colleghi dell’Europa occidentale” (che, guarda caso lavorano in media di meno delle attuali 18 ore), celando in modo alquanto maldestro la volontà di far cassa attraverso i famigerati tagli, ora il ministero dichiara che si tratta di un “profondo bisogno di innovazione nell’ambito dell’istruzione e della formazione“.

Onestamente non so di cosa si stia parlando. So che di ora in ora si rincorrono conferme e smentite. Tant’è che i timori a volte sembrano esagerati altre più che fondati. Nel frattempo il malumore serpeggia nei corridoi, nelle sale insegnanti, nelle alule scolastiche. Si sta pensando a come reagire, cosa fare, cosa proporre, indire assemblee, coinvolgere chi … non si sa. C’è tanta confusione e un’apprensione che mai, almeno per chi come me sta in cattedra da tanti anni, si era provata.

Ad ogni proposta precedente, da qualsiasi ministro provenisse, si assumeva una posizione di diffidenza, visto che l’abilità che, negli ultimi vent’anni almeno, tutti hanno palesemente manifestato è stata quella di cambiare le carte in tavola. Detta una cosa, subito se ne diceva un’altra per poi farne una terza. Arrivavano le smentite delle smentite e, di fronte a un atteggiamento del genere, si prendevano le distanze. Si diceva: tanto non fanno sul serio. Poi, quando davvero ci si rendeva conto che non scherzavano, si incassava il tutto con quella rassegnazione che è tipica di chi si sente una marionetta i cui fili possono essere tirati a piacere senza poter fare assolutamente nulla, senza poter opporre alcuna resistenza.

Mai, però, si era arrivati a sentirsi meno di una marionetta, meno di un burattino, piuttosto un sacco delle immondizie pronto ad essere gettato nella discarica dei senza dignità. Di quelli che contano meno di zero che, però, hanno in mano il futuro di chi un giorno farà parte del mondo del lavoro, della politica, della magistratura, della sanità … Andando avanti di questo passo, il nostro Paese sarà davvero in buone mani.

La scuola e il sistema di formazione dovrebbero essere una priorità assoluta per chi ci governa. Eppure non è mai stato così. L’Italia è fra i tre Paesi europei che spende meno per l’istruzione, solo lo 0,8 del PIL (vedi Rapporto EURYDICE 2012). Sulla scuola si risparmia, si taglia, si “ottimizzano le risorse”. La formazione degli insegnanti è sempre stata un problema di coscienza del singolo, mai sentita come necessità per migliorare il sistema scolastico. Il lavoro dei docenti è sempre stato basato sulla buona volontà di chi dà il giusto valore alla professione che svolge e sull’assoluta noncuranza di quelli che, invece, pensano di risparmiare energie lavorando il meno possibile. Tanto per quel che si guadagna …

Lo stipendio degli insegnanti italiani è agli ultimi posti in Europa (per fare un esempio, i finlandesi, l’eccellenza europea secondo i dati OCSE, guadagnano sino a 61mila euro annui lordi dopo 16 anni di servizio, mentre, in Italia, si arriva a 48mila euro lordi dopo 35 anni di servizio), ma questo non lo si dice. Ci sbandierano, invece, delle falsità sull’impegno didattico (ovvero, le ore di insegnamento frontale, a scanso di equivoci) dei colleghi europei che in media lavorano 16,3 ore. Altro che le 18 attuali e le 24 che il ddl vorrebbe affibbiarci!

Le prospettive sono tutt’altro che rosee. Eravamo abituati a essere considerati l’ultima ruota del carro, anzi, del carrozzone sgangherato come ormai è considerata la scuola pubblica, ma fino a questo punto … Profumo, dopo aver annunciato l’aumento delle ore, pensa di darci il contentino con 15 giorni di ferie in più. Sapete qual è il commento di gran parte dell’opinione pubblica? Ancora ferie? Ma se hanno già tre mesi … Nessuno considera che quei 15 gg in più sarebbero da fruire sempre nel periodo estivo, quando comunque non si è in servizio attivo a scuola, essendo sospese le attività didattiche. Quello che poi la gente non capisce è che questo contentino equivarrebbe a uno specchio per le allodole qualora lo fossimo. Ma non lo siamo e comprendiamo fin troppo bene che pochi potrebbero davvero usufruire delle ferie supplementari. Vediamo perché.

Chi insegna alle superiori ed è impegnato negli esami di Stato di fatto è in servizio attivo fino a metà luglio, più o meno. Sempre nello stesso ordine e grado di scuola da qualche anno c’è l’onere dei Debiti Formativi che gli studenti devono superare per essere ammessi alla classe successiva. Da anni i dirigenti tentano di far svolgere le prove per il superamento dei DF entro la fine di agosto, e in molti casi ci riescono pure. La tendenza generale è di rimandare il tutto a settembre, concludendo le operazioni (scrutini compresi) entro la prima settimana del mese, anche se in qualche caso si arriva a un compromesso e si iniziano gli “esami” l’ultimo lunedì di agosto. Ne consegue che, visto che il ddl specifica che tale periodo supplementare di ferie debba essere goduto nei giorni di sospensione delle lezioni definiti dai calendari scolastici regionali ad esclusione di quelli destinati agli scrutini, agli esami di Stato e alle attività valutative, velato riferimento agli “esami di settembre”, sarebbe comunque difficile per molti poter davvero farsi tutti e 51 giorni di ferie (suddivisi in: 32 di ferie vere e proprie + 4 gg di recupero delle festività soppresse + 15 gg supplementari proposti). Senza contare che i 6 gg cui avremmo diritto nel periodo delle lezioni, di fatto non li possiamo chiedere perché spesso i dirigenti pongono un limite al numero delle richieste, esigono che si trovino dei docenti disponibili per la sostituzione (il che implica che poi quelle ore le si debba restituire … ma allora di che ferie stiamo parlando?!) e che venga rispettata la norma che prevede la concessione delle ferie a patto che non ci siano oneri aggiuntivi per l’amministrazione.

Ma veniamo, dunque, agli effetti che avrebbe l’aumento delle ore di lezione sull’occupazione. Le ultime notizie parlano di chiarimenti sulla base della relazione tecnica che accompagna il ddl, in particolare il comma 42 dell’art. 3. “la norma in questione non comporta modifiche e in particolare riduzioni di organico … mantiene immutato l’orario di cattedra”, si legge a pagina 68. Ma allora perché finora si è parlato di un aumento delle ore di insegnamento? Pare che le ore aggiuntive debbano essere usate per la copertura degli spezzoni orario disponibili nella istituzione scolastica di titolarità, per spezzoni di sostegno e per le supplenze brevi e saltuarie. La corretta interpretazione va, però, in un’altra direzione rispetto alle voci della prima ora: la nuova norma prevede che il personale in questione sarà d’ora in poi obbligato alla copertura dello spezzone senza ricevere più una remunerazione aggiuntiva per questo.

Fin qui c’eravamo arrivati. Ma, fatti due conti, ci era parso di capire che a seguito dell’applicazione delle nuove disposizioni, il 30% delle cattedre venisse coperto dal personale superstite, dopo l’innalzamento delle ore di cattedra da 18 a 24. Sembra che le cose non stiano proprio così. Sarà il dirigente scolastico ad assegnare le ore in più ai docenti, con quale criterio non è dato sapere, coprendo più della metà degli spezzoni disponibili (9.269) mentre i rimanenti (11.483) saranno assegnati a personale precario, con supplenze fino al termine delle attività.
Agendo in questo modo, si arriverebbe a un risparmio di 265.705.154 euro, risparmio che deve essere garantito, come ha detto il ministro Profumo a Bersani che ha criticato questa parte del ddl, qualora si trovassero delle soluzioni alternative.

Così commenta la proposta di Profumo il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda: «L’ispirazione della proposta muove dal dibattito culturale nel Paese sulla centralità della scuola. È infatti evidente ed emerge da tutta la letteratura pedagogica e organizzativa nonché dai confronti con le scuole europee che il nostro sistema di istruzione e formazione ha un bisogno profondo di innovazione». «Sarebbe importante riflettere sulla possibilità di considerare l’orario di lavoro dei docenti in modo nuovo, flessibile, capace di rispondere alle esigenze formative di tutti e di ciascuno, di programmare e autovalutare azioni innovative molteplici, di progettare percorsi di recupero e di valorizzazione delle inclinazione e dei talenti di ciascuno. Si tratta di una prospettiva culturale e politica seria sulla quale il ministro dell’Istruzione auspica che, a prescindere dalle soluzioni, anche diverse, che si troveranno per rispondere alle esigenze di bilancio, si possano confrontare le diverse opzioni miranti a costruire una scuola più equa, più solidale e più moderna».

Le osservazioni di Giarda sono certamente condivisibili. Quel che stona, in questo frangente, è l’invocare innovazione e flessibilità calando dall’alto un aumento dell’orario di cattedra, non si sa se per tutti o per qualcuno, né si capisce con quali criteri avverrà l’assegnazione delle ore in più per coprire spezzoni e supplenze brevi, per una questione dichiaratamente economica. Sono ancora necessari dei tagli? Ditelo senza tirar fuori scuse e soprattutto senza parlare di innovazione perché la scuola è già stata penalizzata negli ultimi anni dai tagli imposti dalla Gelmini e da Tremonti e per migliorarne la qualità o anche solo l’organizzazione non si può continuare a tagliare indiscriminatamente senza considerare che l’orario di lavoro – per tutti i dipendenti, pubblici e privati – è stabilito da un regolare contratto. Il nostro è scaduto da anni e, invece di rinnovarlo per poter offrire ai docenti uno stipendio più decoroso e finanziare la scuola investendo in qualità e formazione degli insegnanti (altro che digitalizzazione… ), si porta all’esasperazione anche i docenti che hanno sempre lavorato con impegno e coscienza ma che hanno evidentemente raggiunto il limite della sopportazione, e fisica e morale.

Tante belle parole non bastano per chiedere un sacrificio. Gli insegnanti hanno già fatto molti sacrifici. Ora è il turno dei politici. Che incomincino a tagliare stipendi e numero di parlamentari, perlopiù assenteisti. Poi, caso mai, potranno chiedere anche a noi qualche sacrificio in più.

[fonti: ilSole24ore e Tuttoscuola.com]

DOCENTI: USCITO IL BANDO PER I CONCORSI A CATTEDRA. IL TESTO

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il bando del «concorsone» per assumere 11.542 docenti nel biennio 2013-2014.

I reclutamenti serviranno a coprire il 50% del fabbisogno, mentre l’altra metà sarà soddisfatto attraverso le graduatorie a esaurimento dei precari.

Al concorso possono partecipare i docenti che hanno conseguito almeno un’abilitazione all’insegnamento entro quest’anno. Oppure che abbiano conseguito la laurea alla data del 22 giugno 1999.

L’iscrizione avverrà online, a partire dal 6 ottobre 2012 e fino alle ore 14.00 del 7 novembre 2012. I candidati possono concorrere per uno o più posti, purché nella stessa regione, ovvero per una o più classi di concorso in base alle abilitazioni ottenute in passato.

La prima prova sarà effettuata con i pc, e sarà su base regionale: si tratta di un test con 50 quesiti, di logica, comprensione, lingua straniera e informatica. La seconda prova «scritto-pratica» sarà invece su base nazionale.

PER LEGGERE IL BANDO CLICCARE QUI.

[fonti: MIUR e Corriere]

QUALE FUTURO PER I GIOVANI INSEGNANTI?


Alla fine dell’anno, in prossimità dell’esame di Stato, ho chiesto a qualche mio allievo di quinta che cosa volesse fare in futuro. Trattandosi di un liceo scientifico, è normale che molti abbiano in mente facoltà come ingegneria, fisica, medicina oppure economia … Sono rimasta decisamente spiazzata da due allieve, brave nelle materie umanistiche, che hanno esternato l’intenzione di frequentare la facoltà di Lettere, con la prospettiva di diventare insegnanti.

Sono casi limite, è vero. Una delle due ragazze avrebbe addirittura intenzione di iscriversi a Lettere Classiche senza aver mai studiato il Greco antico. E’ evidente che stiamo parlando di persone che hanno sbagliato scuola, non per colpa loro. Per onestà devo anche dire che nella mia città l’unico liceo classico ha fama di essere una scuola molto dura, chiusa, dove gli insegnanti sono poco propensi a dare una mano, a cercar di capire che il mondo dei giovani non può ruotare esclusivamente attorno allo studio, ai libri, a Cicerone o Platone. Una scuola vecchia, dei docenti (non tutti, è ovvio, ma la maggior parte) arretrati. Pochi iscritti e molte fughe ogni anno. Abbastanza per scoraggiare chi magari non ha una grande autostima.
Io stessa ho frequentato il classico, in ben altri tempi, tempi in cui se studiavi bene, altrimenti venivi bocciato senza tanti complimenti, tempi in cui a nessun docente interessava cosa facessi al di fuori della scuola. Ma si trattava certamente di un liceo più moderno dell’attuale classico della città in cui vivo.

Insomma, queste ragazze vogliono diventare insegnanti. Io ho provato, almeno con una di loro, a fare il quadro della situazione, un quadro tutt’altro confortante. Ha replicato: “Piuttosto che fare qualcosa che non mi va ma mi offre più opportunità, meglio rincorrere un sogno“. Come si fa ad obiettare che i sogni non danno da vivere, a volte? Come si può, di fronte agli occhi che brillano di gioia, distruggere i sogni?

Ma la situazione è grave, non si può far finta di nulla. Se lo dico è perché lo so, non parlo in astratto, non mi riferisco ai “sentito dire”. Basta dare un’occhiata alla graduatoria interna d’istituto dove io occupo la sesta posizione e ho di fronte ancora quindici anni di servizio prima della pensione. Basta pensare che, con la riforma Gelmini, le cattedre di Lettere sono decurtate ogni anno (solo quest’anno le colleghe ultime in graduatoria si salvano perché ci sono stati due pensionamenti, ma l’attuale prima in graduatoria andrà in pensione forse tra otto anni) e per i giovani insegnanti le speranze sono ben poche.

D’accordo, il mio orizzonte è piuttosto ristretto. Non conosco la situazione nel resto d’Italia, negli altri tipi di scuole, nelle diverse discipline. Ma posso immaginare che sia molto simile e non abbia grosse prospettive di miglioramento, se mai è destinata a peggiorare. Ciononostante, qualche baldo giovane dalle belle speranze vuole ancora fare l’insegnante.

La dimostrazione che la docenza è ancora piuttosto ambita sta nel numero di giovani, più o meno freschi di laurea, che si sono iscritti alle prove selettive per l’ammissione al TFA presso gli atenei italiani che attiveranno i corsi per i futuri insegnanti. Molti già insegnano, hanno più lauree o hanno frequentato dei master. Un mini esercito e per di più poco preparato, a quanto pare.

Visto che la selezione, almeno in certe realtà italiane e per certe discipline, è durissima, lasciando a casa anche il 60 % degli aspiranti, si è levato un coro di proteste perché in molti casi le domande erano scorrette, o non ben formulate, così come alcune risposte (alcune fonti riportano sei prove contenenti errori su dieci). A questo punto, se ciò fosse vero, mi chiedo a chi spetti il compito di preparare i test e quanto venga pagata questa gente … a proposito di Spending Review. Va da sé che varie associazioni sindacali stanno preparando ricorsi di gruppo – o civil action, per i filomaericani – e quindi è immaginabile che anche l’attivazione dei corsi slitterà.

Nel frattempo, considerando anche che il TFA ha dei costi di tutto rispetto (circa 2.500 euro), cosa faranno questi aspiranti docenti? Dovranno comunque fare delle supplenze, o inventarsi altri lavori provvisori, e molti sacrifici. Ma il gioco vale la candela?

Secondo Silvia Avallone, venticinque anni, già scrittrice di successo, no. Ma lei ce l’ha già un’alternativa e un reddito di tutto rispetto, certamente più alto rispetto allo stipendio di un insegnante. Perché mai dovrebbe anche solo pensare di insegnare? Eppure quello era il suo sogno. Fin dai tempi delle elementari, quando, assieme a delle compagne “dissidenti”, si è ribellata alla recita imposta dalle maestre e ha scritto un copione nuovo di zecca. E ha capito che quelle maestre erano speciali: non ammazzavano i sogni.

In un articolo pubblicato sul Corriere, Silvia Avallone descrive il suo sogno. E di certo, se potesse realizzarlo questo sogno, sarebbe un’insegnante speciale perché ha fatto tesoro degli insegnamenti ricevuti.

Questo era il suo sogno, emulare le sue maestre:

Il mestiere d’insegnare, come si fa a farlo stare dentro una definizione? Perché la prima cosa che fa, un insegnante, è imprimere una direzione, una matrice, alla tua vita. […]
Il punto non è tanto la materia che insegni. Non è il complemento oggetto, ma il verbo. Diventare il segugio che scova in ciascun ragazzino quel talento potenziale, a volte inaspettato, che è nascosto in tutti. La guida che porta i suoi studenti a immaginare quante possibilità abbiano in futuro. La scuola è stata questo per me: imparare sul campo il significato e il perimetro della parola libertà.

Ma poi è arrivato il colpo di spugna:

A questo io ho rinunciato. Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l’università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo Paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato, in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia, quale vicolo cieco. Ho cominciato a registrare la frequenza di certe massime come: «La laurea non serve a niente». A una scuola pubblica peggiore può corrispondere solo un Paese peggiore.

Di insegnanti come quelli che ho avuto – fiduciosi, realizzati – in giro ormai ne vedo ben pochi. Un giorno sì e uno no incontro un ragazzo della mia età che scuote la testa avvilito e ripete sempre la stessa frase: «Sono in graduatoria, sto aspettando». Incontro anche cinquantenni che stanno aspettando. Conosco pressoché solo supplenti. […]
Ostaggi del tempo e dei punti, dei master online a pagamento che devi collezionare per scalare una o due posizioni. Sfruttati, ricattati, in balia di un ingranaggio perverso che ti richiede esami su esami, tasse su tasse, precarietà su precarietà.

E anche quando Silvia ha tentato di realizzarlo, il suo sogno, è rimasta vittima del sistema, di quel tritatutto che ormai è diventata la precarietà nella scuola italiana:

Quattro supplenze l’anno in tre scuole diverse. Che senso ha? Non fai neppure in tempo a conoscerli, i tuoi studenti. Non ci sarà nessun percorso insieme, nessuna crescita. Ho visto troppi aspiranti professori con i volti segnati dalla disillusione mollare tutto all’ultimo momento perché «così, a questo prezzo, non ne vale la pena». Non sei nessuno. Non hai più nemmeno un centesimo di quell’autorevolezza che avevano i tuoi insegnanti dieci, vent’anni fa. Sei in graduatoria, sei un supplente. Uno che supplisce a un vuoto pazzesco.

E per finire, il rimpianto:

Continuo a credere che la scuola sia la sola opportunità uguale per tutti di diventare cittadini liberi e intraprendenti. Ma lo è solo a patto che lo siano anche gli insegnanti: liberi di diventarlo. Anziché arrivare come me, a portarsi dietro un rimpianto.

Una riflessione tanto triste quanto vera.
Un tempo, forse, l’insegnamento, era una comoda occupazione per madri di famiglia che avevano tanto tempo da dedicare ai figli, ritagliandosi anche quello per le passioni da coltivare.
Oggi la scuola chiede sempre di più, in termini di prestazione, e dà sempre meno, in termini economici.

Ragazzi, pensateci. Non lasciate che vi ammazzino i sogni. Rinunciate per primi a rincorrere un futuro che non ha alcuna certezza. Tanto, ci sono i quarantenni e cinquantenni ancora precari che aspettano. Ormai per loro qualsiasi ripensamento sarebbe tardivo. Voi siete ancora in tempo per inventarvi qualcosa.

FORMAZIONE DEI FUTURI DOCENTI: I NUMERI DEL TFA IN ATTESA DI BANDI E CONCORSI RISERVATI

E’ stato pubblicato sul sito del MIUR il Decreto Ministeriale 14 marzo 2012 n. 31, per la Definizione dei posti disponibili a livello nazionale per le immatricolazioni ai corsi di Tirocinio Formativo Attivo per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria di primo e di secondo grado, per l’a.a. 2011-12.

Il Decreto è costituito da un solo articolo e due commi:

1. Per l’anno accademico 2011/2012, i posti disponibili a livello nazionale per le immatricolazioni al Tirocinio Formativo Attivo per l’insegnamento nella scuola secondaria di I grado sono pari a complessivi 4.275 posti, definiti in ambito regionale per ciascun Ateneo e nel numero indicato per singola classe di concorso di cui alla Tabella A allegata, che costituisce parte integrante del presente decreto.

2. Per l’anno accademico 2011/2012, i posti disponibili a livello nazionale per le immatricolazioni al Tirocinio Formativo Attivo per l’insegnamento nella scuola secondaria di II grado sono pari a complessivi 15.792, definiti in ambito regionale per ciascun Ateneo e nel numero indicato per singola classe di concorso di cui alla Tabella B allegata, che costituisce parte integrante del presente decreto.

In un’intervista, pubblicata su Il Sussidiario.net, il sottosegretario Elena Ugolini precisa che varato il Tfa, la priorità è portare a compimento il decreto sulle nuove classi di concorso della secondaria superiore ed emanare in tempi brevi il dpcm per avviare le nuove lauree magistrali per la scuola secondaria di primo e secondo grado. Due passi essenziali per poter uscire dall’incertezza.

Quanto ai concorsi annunciati dal ministro Profumo, la Ugolini osserva che il concorso è tra le priorità del ministro e sarà il successivo step di lavoro: dopo l’abilitazione, l’individuazione di nuove modalità di reclutamento dei docenti. In base alla Delega Fioroni emanata contemporaneamente alla chiusura delle graduatorie «permanenti» è già possibile predisporre il regolamento per un nuovo concorso riservato a chi è in possesso dell’abilitazione. Ancora non è possibile dire tempi e modalità. I precari inseriti nelle Gae, invece, avranno un percorso privilegiato per quanto attiene al 50 per cento dei posti disponibili e potranno comunque candidarsi seguendo le nuove modalità di reclutamento.

Secondo il sottosegretario è giusto preoccuparsi anche della figura professionale degli insegnanti, non solo quelli che verranno ma anche chi è già in servizio. Ce lo chiede l’Europa, ma ce lo chiedono le persone senza di cui la scuola sarebbe una parola vuota: gli studenti, che sanno bene quanto siano importanti i loro prof, gli insegnanti che si spendono senza riserve e i dirigenti, osserva Ugolini.

Speriamo che queste parole portino a fatti concreti. Arrivati a questo punto, le parole non bastano più.

VISCO: INVESTIRE NELLA CONOSCENZA, UNA VARIABILE DI CRESCITA

Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, intervenendo al XX congresso dell’Aimmf, mette in luce una situazione di grave ritardo del nostro Paese, rispetto alla media OCSE, per quanto riguarda l’investimento nella conoscenza che considera un’importante variabile di crescita.

I dati sono preoccupanti: non solo l’Italia è, fra i paesi dell’OCSE, quello che investe meno nell’istruzione (il 2,4% del Pil, contro una media Ocse del 4,9%), ma anche la qualità dell’istruzione lascia molto a desiderare. Ad esempio, secondo quanto rilevato da un’indagine sulle competenze funzionali e alfabetiche condotta nel 2003, l’80% degli italiani, di età compresa tra i 16 e i 65 anni, non sarebbe in grado “di compiere ragionamenti lineari e fare inferenze di media complessità estraendo e combinando le informazioni fornite in testi poco più che elementari. Sono, “in pratica”, osserva Visco, “analfabeti funzionali”.

Non più confortanti sono i dati relativi ai laureati: sono il 15%, la metà rispetto la media OCSE. Anche se si tende a pensare che tutti i giovani ormai si laureino, la realtà è completamente diversa. E nonostante la percentuale di chi conclude gli studi universitari sia così esigua, sono moltissimi i giovani senza un lavoro o che, pur avendo studiato molti anni, si adattano a svolgere delle mansioni per le quali basterebbe un diploma, anche di scuola media.

Laureati o meno, in Italia più della metà dei giovani ha un lavoro precario. Il tasso di disoccupazione giovanile è al 27,9%, molto superiore alla media dell’area Ocse (16,7%), ed è più alto tra le donne, 29,4%, che tra gli uomini, 26,8%.

Tornando al valore della cultura, appena poco più della metà dei giovani italiani considera vantaggioso conseguire un’istruzione avanzata, la quota più bassa tra tutti i Paesi dell’Unione europea. Secondo Visco ciò “aggrava il peso degli ostacoli, spesso finanziari all’investimento in istruzione”. E “la forte corrispondenza tra le origini familiari e le scelte scolastiche che ne discende comprime la mobilità sociale”.

Non solo, investire in conoscenza è importante non soltanto sotto
il profilo dell’economia; difatti, grazie ai “benefici di una maggiore istruzione”, sempre secondo il governatore, assumono “particolare rilevanza gli effetti positivi sulla diffusione dell’illegalità”.

Chissà che ne pensa il nuovo ministro del MIUR, Francesco Profumo. Anche condividendo il pensiero di Visco, non credo sia disposto ad investire nell’istruzione, vista la priorità che il governo sta dando al risparmio. In nome di un sacrificio che, putroppo, colpirà le famiglie, alimentando forse il fenomeno della dispersione e dell’abbandono degli studi, nell’illusione di trovare un lavoro che non c’è e di contribuire al bilancio familiare, almeno contenendo le spese.

[fonte: Tuttoscuola.com]

DOCENTE PRECARIA IMMESSA IN RUOLO A 63 ANNI: MEGLIO TARDI CHE MAI

Vincenza D’Amico, 63enne docente di educazione artistica di Caltanissetta, dopo un precariato durato ben 37 anni, è stata assunta a tempo indeterminato. Convocata presso l’Ufficio Scolastico Provinciale di Caltanissetta, accompagnata dal marito, ha finalmente ottenuto il tanto sospirato posto di ruolo.

Non è difficile credere alla gioia della docente siciliana che ha dichiarato: Meglio tardi che mai, ma sono contenta così. La vita va presa con filosofia e in questo modo ho potuto lavorare dedicandomi alla famiglia.

L’anno scorso aveva insegnato alla Scuola Media “Pietro Leone” di Caltanissetta, prima ancora negli istituti di Marianopoli, Santa Caterina, Mussomeli, Villalba, Acquaviva e Sutera. Il motivo di questo lunghissimo periodo da precaria? A detta dell’interessata delle strane norme della burocrazia scolastica. Mi piacerebbe sapere quali siano queste strane norme perché il fatto appare incredibile.

Così, a due anni dalla pensione, Vincenza ha conquistato il suo posto di ruolo. In un periodo che lei stessa definisce di grave crisi e ciò aumenta la sua soddisfazione. Poi, si definisce fortunata, pensando a quelli che questo traguardo rischiano di non raggiungerlo mai.

Più che fortunata a me sembra che questa signora sia stata molto determinata. Altre, al posto suo, forse avrebbero cercato di cambiar lavoro.

[fonte: Tuttoscuola.com]