L’Epistola a Cangrande della Scala (XIII)

PREMESSA: L’Epistola XIII a Cangrande della Scala è scritta in latino (QUI potete leggere il testo originale e QUI la traduzione italiana a cura di Maria Adele Garavaglia). Quella che segue è una sintesi in italiano.
Se sei interessato, leggi anche L’autenticità dell’Epistola XIII a Cangrande della Scala

§ 1. INTITOLATIO: è propriamente l’indirizzo. Dante, fiorentino di nascita, non di costumi, si rivolge a Cangrande della Scala, vicario imperiale di Verona e Vicenza.

CAPP. 1 – 4 (§§ 2 – 13): PARS NUNCUPATORIA.
CAP. 1: Dante spiega che aveva sentito parlare bene di lui (Cangrande) ma, come la regina del Mezzodì si recò a Gerusalemme, come Pallade si recò sull’Elicona, egli si recò a Verona per sperimentare di persona la sua magnificenza. Così il sentimento di soggezione che prima aveva nel sentire parlar di lui, si tramutò in sentimento di devozione e amicizia.
CAP. 2: dicendogli di essergli amico non pensa di peccare di presunzione poiché il sacro vincolo dell’amicizia lega persone sia di diverso sia di uguale stato. Basti pensare all’amicizia di Dio con gli uomini. Come auctoritas cita lo Spirito Santo che testimonia che alcuni hanno parte alla Sua amicizia e il Libro della Sapienza. Ma l’ignoranza del volgo, come ritiene che il sole sia della grandezza di un piede (–> Cicerone), così anche sui costumi è tratta in inganno dalla credulità. Ma poiché non si devono seguire le orme del gregge ma anzi correggere i suoi errori, se abbiamo il dono dell’intelletto non dobbiamo seguire nessuna consuetudine. Con questo ha dimostrato che essergli amico non è peccato di presunzione.
CAP. 3: poiché nei dommi dell’Etica si insegna che il concetto di analogia stabilisce l’uguaglianza tra amici, per corrispondere ai benefici ricevuti da Cangrande, Dante cerca fra le sue piccole cose (munuscula) qualcosa da donargli e alla fine trova adatta alla sua altezza la sublime cantica che s’intitola il Paradiso. Questa, con l’epistola che funge da epigramma di dedica, gli offre e gli affida.
CAP. 4: si difende da chi potrebbe accusarlo di cercare onore e fama con il dono fatto a Cangrande. Anzi, dice Dante, è il dono stesso con il titolo che porta, a presagire un accrescimento della fama di Cangrande. Tuttavia il desiderio che più brama è che Cangrande lo inciti a procedere più speditamente verso la meta prefissata in partenza. Ora, esaurita la formula della lettera (pars nuncupatoria) si accingerà in veste di lector ad esporre alcune cose che facevano da introduzione (accessus) all’opera offerta.

CAPP. 5 – 16: PARTE DOTTRINALE (§§ 17 – 41).
CAP: 5:qui si rifà ad Aristotele (II Metafisica) che dice “nel modo in cui ogni cosa sta nei confronti dell’essere, così sta nei confronti della verità”. Ne consegue che anche la verità di una cosa sta nella perfetta somiglianza con le cose in quanto è. Ma poiché solo alcune cose hanno in sé l’essere assoluto e altre dipendono da un altro per relazione (padre, figlio …), ne consegue che anche la loro verità dipenda da quell’altro. Se si ignora il concetto di ‘metà’ non si potrebbe conoscere quello di ‘doppio’ ecc.
CAP. 6: volendo fare un accessus alla parte offerta, bisognerà parlare del ‘tutto’ di cui essa fa parte. Affinché sia più chiaro l’accessus al Paradiso, Dante dovrà dire qualcosa a mo’ di accessus a tutta la Commedia. Sei sono le cose che bisogna esaminare prima di affrontare un’opera dottrinale e cioè: SOGGETTO, AGENTE, FORMA, FINE, TITOLO del LIBRO, GENERE di FILOSOFIA. Di questi, tre si diversificano dal Paradiso alla Commedia: soggetto, forma e titolo; gli altri tre sono comuni al tutto e alla parte. Prima discuterà dei tre elementi che si diversificano, poi gli altri tre in relazione alla parte e in relazione alla Commedia (9 in tutto).
CAP. 7: Dante premette che il SIGNIFICATO di quest’opera è POLISEMO: il primo significato è quello che si ha dalla LETTERA del testo; il secondo è quello che si vuole significare con la LETTERA del testo. Il primo si dice LETTERALE, il secondo ALLEGORICO, o MORALE o ANAGOGICO. Quindi fa l’esempio dell’ In exitu Istrael de Egypto al tempo di Mosè –> S. ALLEGORICO: noi siamo stati redenti da Cristo; S. MORALE: l’anima passa dalle tenebre e dall’infelicità del peccato allo stato di Grazia; S. ANAGOGICO: l’anima santificata esce dalla schiavitù della corruzione alla libertà dell’eterna Gloria. I tre significati possono dirsi ALLEGORICI poiché differiscono da quello storico: il termine allegoria deriva dal greco ALLEON che si traduce con alienum ossia diverso.
CAP. 8: anche il SOGGETTO sarà DUPLICE: se si prende alla lettera esso, per tutta l’opera, è lo stato delle anime dopo la morte; se si prende il significato allegorico, esso è l’uomo che per meriti o demeriti acquisiti per libero arbitrio ha conseguito premi o punizioni da parte della Giustizia Divina.
CAP. 9: anche la FORMA è DUPLICE: FORMA TRACTATUS e FORMA TRACTANDI. La prima è triplice secondo tre divisioni: I divisione per cui tutta l’opera si divide in cantiche, seconda per cui ciascuna cantica si divide in canti, terza per cui ciascun canto si divide in ritmi. La FORMA TRACTANDI è: POETICA, FITTIVA, DESCRITTIVA, DIGRESSIVA, TRANSUNTIVA e insieme DEFINITIVA, DIVISIVA, PROBATIVA, IMPROBATIVA e ESEMPLIFICATIVA.
CAP. 10: il TITOLO è “Incomincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi”. Qui Dante parla della derivazione del termine COMEDIA (da comos = villaggio e oda = canto), che è un genere che si differisce dalla TRAGEDIA per la sua MATERIA, poiché la tragedia ha un principio meraviglioso e placido, ma una fine fetida e paurosa (tragedia deriva da tragos = capro e oda = canto ed è fetida come un caprone) come si può vedere dalle tragedie di Seneca. Invece la Commedia inizia male ma finisce bene, come si può vedere dalle commedie di Terenzio. Per quanto riguarda il linguaggio, nella tragedia è alto e sublime, nella commedia è dimesso e umile. Inoltre, come dice Orazio nell’Ars Poetica, è permesso agli scrittori di commedie esprimersi come quelli di tragedie e viceversa. Poi spiega perché la sua opera si chiama Commedia: perché ha un inizio fetido e pauroso in quanto parla dell’Inferno, ma ha una fine meravigliosa e desiderabile poiché tratta del Paradiso. Per quanto riguarda il linguaggio, nella sua opera esso è dimesso e umile in quanto usa la locutio vulgaris con la quale si esprimono anche le donnette. Oltre a questi due tipi di narrazione poetica, ce ne sono altri: bucolico, elegiaco, satira, sentenza votiva (–> Ars Poetica di Orazio), ma di questi non è il caso di parlare ora.
CAP. 11: finito di elencare i tre punti in cui il Paradiso si differenzia dalla Commedia, e avendoli spiegati in relazione a tale opera, è chiaro che adesso si appresti ad elencare i 3 ARGOMENTI, adattandoli alla parte: SOGGETTO del Paradiso preso alla LETTERA è lo stato delle anime beate dopo la morte (contractus); soggetto in senso ALLEGORICO è l’uomo che per i meriti ha conseguito il premio della Giustizia Divina.
CAP. 12: la FORMA del trattato è duplice, per quel che riguarda il Paradiso, e cioè è diviso in CANTI e RITMI. È chiaro che non può essere adattata al Paradiso la divisione vista per l’opera, in quanto questa è la parte di tale divisione.
CAP. 13: Il TITOLO della parte è “Inizia la III cantica della Commedia di Dante …” .
CAP. 14: elencati i tre punti per cui la parte si differenzia dal tutto, restano da vedere i tre elementi comuni. Il primo è l’AGENTE che è colui che è nominato nel titolo, ed è l’agente della parte e del tutto e lo è totalmente.
CAP. 15: Il FINE del tutto e della parte può essere molteplice, vicino e lontano; tuttavia brevemente si può dire che si tratta di allontanare i viventi dallo stato di miseria e condurli a quello di felicità
CAP. 16: il GENERE FILOSOFICO nel cui ambito si procede nella parte e nel tutto, è l’attività morale, cioè l’ETICA, poiché il tutto e la parte sono state concepite non per la speculazione ma per l’OPERARE, anche se qualche volta la materia è svolta sotto la forma dell’attività speculativa –> em>auctoritas; Aristotele nel II della Metafisica che dice: “qualche volta i filosofi pratici sono indotti a speculare”.

CAPP. 17 – 31: PARTE ESPOSITIVA O ESECUTIVA (§§ 42 – 87)
CAP. 17: inizia qui l’esposizione della LETTERA che non è altro che il chiarimento della FORMA dell’opera. Questa parte si divide in due: il PROLOGO e la PARTE ESECUTIVA che comincia al v. 37 con surge ai mortali per diverse foci.
CAP. 18: a questo punto Dante spiega come mai usa il termine prologo e non esordio come comunemente si usava e si rifà all’auctoritas di Aristotele che nel III della Retorica distingue: PROEMIO = introduzione ad un testo poetico; PRELUDIO = introduzione ad un componimento musicale. L’ESORDIO dei retori, inoltre, si distingue da quello dei poeti in quanto i primi accennano a quello che diranno, per accattivarsi l’attenzione dei lettori, mentre i poeti oltre a dire ciò di cui tratteranno hanno bisogno di una lunga invocazione perché richiedano alle Sostanze Superiori un dono divino. Quindi anche questo prologo si divide in due parti: 1) vv. 1 – 12 in cui si premette ciò che si dirà; 2) invocazione la quale comincia con O buon Apollo all’ultimo lavoro (v. 13).
CAP. 19: Per ottenere un buon esordio sono necessarie tre cose, come sostiene Cicerone nella Rethorica Nova, e cioè che l’auditore sia reso BENEVOLO, ATTENTO e DOCILE, e questo specialmente nel genere mirabile delle cose; poiché la Commedia appartiene a questo genere, quando il poeta dice ciò che ha visto nel I cielo e che la memoria potrà ricordare, accenna a tutte e tre le cose. Dichiarando l’UTILITÀ di quel che si dirà, se ne conquista la benevolenza, dichiarandone la mirabilità conquista l’attenzione, dichiarandone la possibilità se ne conquista la docilità. L’utilità sta nel fatto che narrerà le gioie del Paradiso, la mirabilità sta nella descrizione del Regno dei Cieli, la possibilità sta nell’affermare che dirà quanto potrà ricordare. Vista dunque la bontà e la perfezione del prologo, passa all’esposizione della LETTERA.
CAP. 20: ora vuole dimostrare che la Gloria di Dio (del Primo Mobile) risplende in ogni luogo (primi versi del Paradiso), ma in maniera che in un luogo di più e in un altro meno. Per spiegare ciò si rifà alla RAGIONE e all’AUTORITÀ. RAGIONE: ogni cosa ha l’essere (esiste) se lo ha di per se stessa o se la riceve da altri. L’avere essere spetta ad uno solo e cioè al primo, a DIO che è CAUSA di tutte le cose. Si può cercare all’infinito tra le CAUSE AGENTI e si arriverà al PRIMO, a Dio –> auctoritas: Aristotele nel II della Metafisica. Ciò che la CAUSA SECONDA riceve dalla prima la RIFLETTE (–> specchio che riceve e riflette un raggio di luce) su ciò di cui è CAUSA. La CAUSA PRIMA è più causa di tutte le altre –> auctoritas: Libro de causis di Pseudo – Aristotele. Questo basti per quel che riguarda l’essere.
CAP. 21: Ora procede alla dimostrazione dell’ESSENZA. Anch’essa è effetto di una causa, eccetto la prima che ha essenza di per se stessa. Quello che è effetto di una causa proviene dalla NATURA o dall’INTELLETTO, ma poiché la natura è opera di un’intelligenza, è chiaro che ogni effetto di una causa provenga direttamente o indirettamente dall’intelletto. Poiché la VIRTÙ segue l’ESSENZA di cui è virtù, essa è tutta intera di quella sola essenza che la causa. Ne consegue che ogni essenza e virtù procede dalla prima e che le intelligenze inferiori ricevono i raggi dall’intelligenza superiore che le irraggia e le riflettono sull’intelligenza che sta sotto di loro –> auctoritas: De celesti hierarchia di Dionigi e il Libro delle Cause di Pseudo – Aristotele che dice che “ogni intelligenza è piena di forme”. A questo punto ha provato come la RAGIONE dimostri che la LUCE DIVINA (BONTÀ, SAPIENZA e VIRTÙ) risplenda in ogni luogo.
CAP. 22: quindi passa alle auctoritates: tra i cristiani, lo Spirito Santo per bocca di Geremia, un Salmo, il Libro della Sapienza e l’Ecclesiastico; tra i pagani, Lucano nel IX libro.
CAP. 23: quindi la GLORIA DIVINA penetra in quanto ESSENZA e risplende in quanto ESSERE. Per quanto riguarda il “più” e il “meno”, vediamo che alcune cose hanno un’essenza ad un grado più elevato, altre ad un grado inferiore come si vede dal CIELO e dagli ELEMENTI: il primo è INCORRUTTIBILE, i secondi sono CORRUTTIBILI.
CAP. 24: per dire che è stato in Paradiso il poeta dice che fu “nel ciel che più riceve della luce divina” e cioè questo cielo è il supremo, che contiene tutti i CORPI e non è contenuto da nessuno, in cui tutti i corpi si muovono, mentre esso è in PERPETUA QUIETE, e abbraccia il suo contenuto per la sua VIRTÙ senza ricevere virtù da nessun corpo. Si chiama EMPIREO perché brucia del fuoco del suo ardore, non fuoco materiale ma spirituale e cioè AMORE SANTO, cioè CARITÀ.
CAP. 25: ora spiega perché riceve più luce divina. Per 2 ragioni: perché contiene tutte le cose e perché è in eterna quiete. La prima dimostrazione è che il contenente sta al contenuto come il formativo sta al formabile (auctoritas: IV libro della Fisica di Aristotele) e poiché il primo cielo contiene tutto, esso sta a tutte le cose come il formativo al formabile e cioè sta a tutte le cose in funzione di causa. E poiché ogni FORZA CAUSATIVA è un RAGGIO EMANANTE della PRIMA CAUSA che è Dio, ne consegue che quel cielo ha più forza di causa cioè riceve più luce divina.
CAP. 26: affronta il secondo argomento, cioè il fatto che l’Empireo sia in quiete e lo spiega dicendo che qualunque cosa si muova, lo fa a causa di qualcosa che non ha. E fa l’esempio del cielo della luna che per raggiungere quel qualcosa che non ha, muove verso quel dove che ha ciò che al cielo della luna manca, senza però mai raggiungerlo ed è per questo che è sempre in movimento. Questo vale per tutti i cieli all’infuori del primo che è in quiete perché non ha bisogno di nulla, cioè è perfetto. Poiché ogni PERFEZIONE è raggio emanato da colui che è il PRIMO, è chiaro che tale cielo riceva più LUCE di quello che è il primo, cioè DIO. Se poi sembra che questa spiegazione abbia distrutto la prima, se consideriamo la MATERIA dell’ARGOMENTO, la dimostrazione è valida perché è per SILLOGISMO: se Dio non gli diede moto è chiaro che non gli diede materia che avesse mancanza di qualcosa. È chiaro, quindi, che “il cielo che più della luce di Dio riceve” è il Paradiso, cioè l’EMPIREO.
CAP. 27: esposto il secondo argomento secondo ragione, qui si rifà alle auctoritates: pagane, Aristotele nel I del De caelo; cristiane: San Paolo nella Lettera agli Efesini; Ezechiele contro Lucifero.
CAP. 28: poi dice che “vide cose che ridire non può chi ne discende” poiché “l’intelletto si profonde tanto nel suo desiderio, cioè Dio, che la memoria non può venir dietro”. Per capire queste cose bisogna sapere che l’INTELLETTO per le sue affinità con la SOSTANZA INTELLETTUALE SEPARATA, quando si eleva, lo fa a tal punto che la memoria viene meno in quanto ha trasceso l’interumano. Come auctoritates cita San Paolo ai Corinzi (il rapimento al III cielo), Matteo (la trasfigurazione di Cristo a cui assistettero i tre apostoli) ed Ezechiele. E coloro che non credono che ai peccatori sia stato concesso di elevarsi a tal punto, leggano Riccardo da San Vittore, Bernardo e Agostino e soprattutto Nabuccodonosor che vide delle cose contro i peccatori ma che dimenticò, come racconta Daniele. Infatti Dio a volte per misericordia e sperando in una conversione, a volte per punizione, vuole manifesta la sua gloria ai peccatori.
CAP. 29: inoltre dice che vide “cose che non sa e non può esprimere”: non sa perché le ha dimenticate, non può perché le parole non sono adatte. Come auctoritas cita Platone che scrive per metafore: egli vide molte cose attraverso la luce intellettuale che però il sermone proprio non può esprimere.
CAP. 30: le cose che dirà e che poté ricordare costituiscono la MATERIA della sua opera; e quante e quali siano tali cose lo si vedrà nella PARTE ESECUTIVA.
CAP. 31: l’INVOCAZIONE inizia al v. 13 con le parole “O buono Apollo”. Tale invocazione si divide in due parti: 1) l’INVOCAZIONE vera e propria d’aiuto; 2) la promessa di una RICOMPEMSA. La seconda parte inizia con “O divina virtù”. A sua volta si divide in due: 1) nella prima chiede l’aiuto divino, nella seconda espone la necessità della sua richiesta e la giustifica dicendo “infino a qui l’un giogo di Parnaso” (v. 16).

CAPP. 32 – 33 (§§ 88 – 90)
CAP. 32: s’interrompe il commento e Dante si giustifica con la povertà che lo angustia e gli toglie la possibilità di dedicarsi a questa e ad altre attività utili allo Stato. Tuttavia spera che da parte della Magnificenza di Cangrande gli sia data la possibilità di continuare questa utile esposizione.
CAP. 33: della PARTE ESPOSITIVA dirà solo che procedendo di cielo in cielo incontrerà le anime beate e che la BEATITUDINE sta nel sentire il principio di VERITÀ. A questo punto cita l’auctoritas di Giovanni (cristiana) e Boezio (pagana). Quindi si faranno molte domande utili e interessanti alle anime per capire la GLORIA della BEATITUDINE. Poi s’incontrerà Dio e quindi non si cercherà altrove in quanto Egli è l’inizio e fine di tutto come indica la VISIONE di GIOVANNI. E qui finisce la trattazione in Dio benedetto nei secoli dei secoli.

[© Materiale elaborato dall’autrice Marisa Moles. Vietata la riproduzione]

  1. Eh che grande che era il pellegrin fuggiasco! E che poesia ci ha lasciato in eredita!

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