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UNA RIFLESSIONE DI GIORGIO ISRAEL SULL’ESAME DI STATO

Sono sempre d’accordo con Giorgio Israel, docente di storia della matematica alla Sapienza di Roma, quando dice la sua sui “malanni” della scuola italiana. La sua riflessione sull’esame di Stato, pubblicata su Tuttoscuola è ampiamente condivisibile. La riporto interamente, scusandomi se non rielaboro il testo, come mia consuetudine, e non aggiungo un parere personale.

IsraelRallegriamoci che il governo abbia desistito (speriamo definitivamente…) dall’intenzione di ridurre le commissioni dell’esame di maturità a soli membri interni. La motivazione della protesta – giova ricordarlo – era che in tal modo si rendeva tale esame un’inutile pantomima – tanto valeva attenersi all’esito dello scrutinio finale – e si disattendeva l’esigenza di rigore, di un giudizio esterno che desse maggiore “oggettività” al giudizio finale. Ora, nella discussione su come riformare l’esame di maturità dobbiamo ripartire proprio dall’unico senso ragionevole che può darsi a queste parole: rigore e oggettività. Si aspira a un esame il cui esito sia il più omogeneo possibile, dalle Alpi al Lilibeo, improntato agli stessi criteri. Ma cosa vuol dire questo e come può essere realizzato? Qui abbiamo sentito parlare di “standardizzazione”, di correzione automatica alla maniera dei test Invalsi, che si auspica siano introdotti anche all’esame di maturità, persino di correzione automatica mediante i calcolatori e software avveniristici: il tutto per escludere l’arbitrarietà della soggettività umana, le idiosincrasie dei commissari. In tal modo, non si vede che, richiedendo a gran voce la persistenza di commissioni a composizione mista si è richiesta la presenza di altre soggettività oltre a quelle degli insegnanti interni. Ma se l’unico obbiettivo sensato è il raggiungimento dell’oggettività assoluta nel giudizio, totalmente indipendente dalla soggettività dei singoli, la soppressione pura e semplice delle commissioni e la loro sostituzione con delle tecniche di giudizio standardizzate addirittura per via informatica era perfettamente ragionevole e la battaglia è stata contraddittoria. Perché mai affannarsi a trasportare da una parte all’altra del paese delle “soggettività” se non è questo il modo di garantire l’oggettività e il rigore?

Qui, piaccia o no, si tocca una questione epistemologica e cioè in che senso si possa intendere l’oggettività in un ambito che non è quello delle scienze fisiche o del mondo inanimato, ma è contrassegnato dalla presenza attiva di soggetti autonomi, nella fattispecie insegnanti e studenti. Qui ci si divide tra chi – non soltanto di area umanistica, ma anche e talora soprattutto di area scientifica – ha ben chiari i limiti del trasporto meccanico in quell’ambito dell’idea di oggettività tipica delle scienze fisico-matematiche, e di chi ha scarsa attenzione per il contesto disciplinare e per le modalità del processo di insegnamento e apprendimento e si nutre esclusivamente di pane e statistica. E qui non vale dire «in America si fa così». Certo, come ha scritto lo storico della scienza statunitense Theodore Porter nel suo Trust in Numbers, la tradizione dell’uso del calcolo nel management è nata in Europa, in particolare in Francia, ma «l’uso sistematico dei test QI per classificare gli studenti, i sondaggi di opinione per quantificare gli umori del pubblico, metodologie statistiche sofisticare per valutare il rapporto costo-benefici e le analisi di rischio nelle opere pubbliche – tutto in nome di una oggettività impersonale – sono prodotti distintivi della scienza Americana e della cultura Americana». Tuttavia, due osservazioni vanno fatte: a) non siamo in colonia e non tutto quello che si pensa e si dice negli USA va preso come verità rivelata (strano modo di essere oggettivi); b) se c’è chi negli USA continua imperterrito in quell’andazzo, proprio là sta montando una reazione vivacissima, preoccupata dai disastri che ha prodotto in numerosi campi la mitologia dell’oggettività impersonale, mentre da noi sembra imporsi il più piatto conformismo.

Proviamo allora a mettere alcuni punti fermi.

È indiscutibile che l’attribuzione di un peso non esclusivo ma molto rilevante alle prove scritte sia un modo per affermare l’imparzialità del giudizio; quantomeno secondo il vecchio detto «carta canta e villan dorme»: quel che è stato scritto non si presta a contestazioni e a interpretazioni discutibili da entrambe le parti.

Ciò posto, la valutazione di quanto è stato scritto non è assolutamente riducibile a un giudizio standardizzato impersonale. Se un tema riguarda l’opera di Leopardi, è ridicolo pensare che si possa definire un giudizio standardizzato di tale opera che costituisca un crivello cui deve ciecamente attenersi chi giudica e chi scrive il compito. Il commissario ha inevitabilmente delle idee personali al riguardo, e così lo studente, cui dobbiamo lasciare la facoltà di esporre liberamente quanto ha “maturato” e che può risultare originale e interessante di per sé e anche per la commissione. Altrimenti, con che coraggio deprecare la scuola nozionistica? Il discorso vale per tutte le materie. Vale per una traduzione dal greco o dal (al) latino: non esiste la traduzione standardizzata ottimale e lo studente può esibire capacità differenziate e anche imprevedibili al riguardo. Sono queste le capacità da valutare (a meno che non si chiuda un occhio sulla prassi di scaricare le traduzioni via cellulare dalla rete…) e cui non può rispondere un correttore automatico. E – si badi bene – questo vale anche per un problema di matematica, in cui la determinazione della soluzione esatta – un numero, un’espressione finale – è , in fin dei conti, l’aspetto meno importante del compito: gli aspetti più rilevanti sono come si è giunti alla soluzione (talora la fantasia nel trovare una via originale), il modo con cui si sono descritti i vari passaggi, il rigore e la precisione esplicativa. Tutto questo non può darlo alcuna correzione standardizzata, a meno di non decidere di sottoporre lo studente a prove standardizzate di modesto livello culturale, che non consentono altro che una risposta univoca: questionari, quiz, e analoghi. A tale degrado dovremmo arrivare in nome di una mitologia dell’oggettività impersonale estranea alla sfera dell’umanità?

Proviamo a rovesciare il discorso e a considerare l’esame di maturità – senza prove Invalsi, questionari, quiz e altre miserie – come uno strumento di valutazione del sistema dell’istruzione. In diverse università straniere si procede alla valutazione al seguente modo: l’intero dossier dell’esito di un esame (scritto) viene inviato ad altri docenti di un’altra università, i quali lo esaminano e inviano il loro giudizio che diventa materia di un confronto e di valutazione dell’operato dell’università (e della commissione o del docente) di partenza. Perché non fare qui la stessa cosa? Sottoporre il dossier dei giudizi di una commissione di maturità a un’altra commissione o a commissioni costituite allo scopo? Si aprirà così un processo di confronto che avrà come esito trasparenza e miglioramento della qualità del sistema. La valutazione non può essere altro che intesa come un processo di crescita culturale che mira a far sì che le attività di attività di giudizio – emesse da soggetti, e inevitabilmente soggettive – siano quanto più possibile imparziali ed equanimi: questi sono gli aggettivi da usare al posto di una “oggettività” mutuata in modo meccanico dalla prassi delle scienze fisico-matematiche. È un processo lungo e complesso, ma è l’unico che non svilisce la ricchezza intellettuale – diciamo pure la ricchezza delle conoscenze e delle competenze – del professore e dell’allievo, riducendoli a macchine per somministrare test di verifica e a macchine per ingurgitare nozioni atte a superarli.

Quindi: commissioni miste, compiti scritti quanto più sia possibile (senza per questo escludere una fase di colloquio verbale), valutazione incrociata (di tipo ispettivo) dei giudizi emessi, quantomeno per una quota percentuale significativa delle prove di esame.

Giorgio Israel

LA “NUOVA” SCUOLA COME CENTRO DI ASSISTENZA SOCIALE di GIORGIO ISRAEL

Relazione di G. Israel al Convegno nazionale della Gilda degli insegnanti di Padova sul tema «BES, DSA, PDP… la scuola alla sagra degli acronimi» (25.2.2014)

Purtroppo non ho il tempo per commentare come vorrei questo video di Giorgio Israel, persona che stimo molto e alle cui posizioni mi sento molto vicina su diversi argomenti che riguardano la scuola.
Il video è abbastanza lungo ma merita di essere visto. Mi rendo conto che è piuttosto specialistico quindi forse non interessante per tutti i lettori che seguono questo blog. Ma almeno da parte degli “addetti ai lavori” merita una certa attenzione.

PUBBLICATO IL RAPPORTO INVALSI 2013

invalsiForse ai test InValsi ci stiamo abituando. Quest’anno, anche se non sono mancate le solite contestazioni da parte di studenti (quelli delle superiori, ovviamente) e insegnanti, sono quasi passati inosservati. Forse più che abitudine è rassegnazione: i test non ci piacciono ma sono diventati una prassi nell’attività delle scuole di ogni ordine e grado.

Quali sono i risultati di quest’anno? Si potrebbe dire i soliti: confermata la maggior preparazione degli studenti del Nord rispetto a quelli del Sud, sebbene alcuni cenni di miglioramento si notino in alcune regioni come Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata. I più bravi studiano nelle scuole della Provincia Autonoma di Trento, del Friuli Venezia Giulia, Veneto, Marche e Piemonte.

La rilevazione ha coinvolto 13.232 scuole, 141.784 classi e 2 milioni 862mila studenti. Com’è noto, le prove sono state somministrate al secondo e quinto anno della scuola primaria, nella prima e terza classe (prova d’esame) della scuola secondaria di I grado e agli studenti che nello scorso anno scolastico hanno frequentato la seconda classe della secondaria di II grado. Le materie oggetto di indagine sono state, come di consueto, italiano e matematica.

Nelle prove di italiano gli studenti si sono dimostrati più preparati nell’analisi dei testi narrativi, piuttosto che nell’ambito dei testi espositivi e in quelli di tipo «non continuo o misto», in cui viene richiesto anche di interpretare dati e grafici funzionali all’esposizione dei contenuti del testo. I risultati peggiori riguardano i quesiti «grammaticali».

Nell’ambito dei test proposti per la matematica, gli alunni nel complesso si sono dimostrati più abili con i «numeri» e i «dati e previsioni», manifestando maggiori difficoltà nell’ambito «spazio e figure» e in quello «relazioni e funzioni».

carrozzaInteressante il commento del ministro Maria Chiara Carrozza, per la prima volta alle prese con i test InValsi. Presentando a Roma, presso l’Istituto tecnico industriale Galileo Galilei, il Rapporto nazionale sulle prove Invalsi 2012-2013, il ministro ha dichiarato che bisogna «uscire da una logica di ‘guerre di religione’ sulla valutazione», non si tratta del «giudizio di Dio». Aggiungendo: «Non si comprende la valutazione se non la si lega alla conoscenza: alla consapevolezza di limiti, potenzialità. E’ alla luce di questa ‘filosofia della valutazione’, legata alla necessità di conoscere quello che facciamo e come lo facciamo, che dobbiamo vedere le prove Invalsi».

Mi sembra un buon punto di partenza. Forse abbiamo trovato chi è disposto ad ascoltare la voce degli insegnanti, non contrari alla valutazione in sé, ma a quella dell’InValsi, contestata anche da esperti di chiara fama, Giorgio Israel in testa.

Un piccolo passo avanti ma non facciamoci troppe illusioni.

PER LEGGERE IL RAPPORTO COMPLETO CLICCA QUI.

PER LEGGERE LE MIE PERSONALI RIFLESSIONI SUI TEST INVALSI CLICCA QUI

[Fonti: Corriere e Tuttoscuola; immagine da questo sito]

EDUCARE ALLO STUDIO, EDUCARE AL LAVORO

Quante volte, ai colloqui con gli insegnanti, arrivano genitori preoccupati e a volte depressi perché dicono che il/la loro figlio/a studia, studia ma non arriva al sei? Molte.

Quante volte gli stessi studenti (quelli più grandicelli, è ovvio) ci rincorrono per i corridoi e scaricano la frustrazione provata nello studiare tanto senza arrivare al sei? Tante.

Quanti di questi genitori e allievi ci chiedono aiuto? Pochi. La maggior parte sembra voler trovare una giustificazione alla loro aurea (beh, mica tanto!) mediocritas. E anche quando sottolineiamo le loro carenze, quando diamo consigli e dispensiamo raccomandazioni, gli stessi ritornano a compiere i medesimi errori, sembra non si sforzino nemmeno di cambiare. Non ci ascoltano.

A scuola s’imparano molte cose. Nozioni su nozioni nelle varie discipline, prima di tutto. Come se le conoscenze fossero l’unico patrimonio da conquistare. Certo, senza le conoscenze è difficile arrivare al sei o addirittura ottenere dei buoni voti. Ma al di là di quelle nozioni indispensabili per imparare una materia, poi ci vuole la logica, la deduzione, la capacità di stabilire relazioni nel mare magnum dell’appreso, abilità fondamentali da acquisire nell’ambito delle materie di studio. Memorizzare le regole e le nozioni è di certo un buon inizio, ma ci vuole anche altro. Impegno, innanzitutto, allenamento costante, il che significa fatica e sacrificio. In altre parole: lavoro.

Spesso ho sentito gli studenti lamentarsi del fatto che il loro lavoro non sia retribuito. A rigor di logica avrebbero anche ragione. Se noi docenti a scuola e i genitori a casa continuiamo a ripetere che studiare è il loro lavoro, ragion per cui devono impegnarsi al massimo per farlo bene, perché mai dovrebbero lavorare gratis? Semplicemente perché lo studio, con la fatica e i sacrifici che comporta, è una specie di tirocinio alla vita di domani. E, si sa, i tirocinanti di solito lavorano gratis.

Abituarsi all’idea che dopo tanta fatica e tanti sacrifici poi si otterrà qualcosa di buono (una buona professione, delle belle soddisfazioni, la possibilità di progredire nella carriera e di migliorare la propria posizione sociale ed economica) non sarebbe male. Ma con qual coraggio lo possiamo dire ai giovani d’oggi? Beh, signori miei, quel coraggio lo dobbiamo trovare perché altrimenti la scuola, lo studio perderebbero ogni significato. Ben sappiamo quale senso di frustrazione colga molti laureati costretti a fare dei lavori sottopagati e mortificanti. Ma non dobbiamo togliere loro almeno la speranza di un domani migliore. Lo so che è difficile ma l’unica strada da percorrere è quella che dia un senso all’istruzione. Fare in modo che i ragazzi capiscano che educare allo studio, come ci sforziamo ogni giorno di fare, al di là delle conoscenze che trasmettiamo, è un po’ come educare al lavoro. E lavoro non significa solo fatica e sacrifici ma anche soddisfazione e passione.

Tempo fa ha fatto notizia la decisione dei genitori francesi di non far svolgere ai propri figli (nello specifico quelli che frequentano le elementari) i compiti a casa. Il nostro ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, ha appoggiato questa forma di protesta con delle argomentazioni, a mio parere, alquanto deboli. (ne ho trattato QUI) In quella occasione aveva espresso la sua contrarietà all’abolizione delle attività domestiche anche Giorgio Israel nel suo blog. Allora l’articolo mi era sfuggito e l’ho letto solo adesso. ne riporto qualche brano:

Ci sentiamo ripetere tutti i giorni che, per superare la crisi e far ripartire il paese, occorre mettere in campo un rinnovato senso di responsabilità e la capacità di fare sacrifici. Del resto, che cosa inspira la riforma delle pensioni, la politica fiscale e la riforma del lavoro se non il principio che occorre lavorare di più a fronte di minori redditi? Si ribadisce che la società – in definitiva, chi lavora sodo con senso di responsabilità – non può più sovvenzionare pensionati cinquantenni ed evasori fiscali. Ma per mettere in campo una simile energia di riscossa non è necessario soltanto che si diffondano atteggiamenti eticamente e socialmente corretti, ma anche una passione per il lavoro, la capacità di applicarvisi sopportando le fatiche che comporta, e le competenze per svolgerlo bene. L’istituzione in cui le società moderne educano cittadini che possiedano questa sintesi di spirito etico e di competenze è l’istruzione pubblica. La scuola non è soltanto il luogo dove si acquisiscono le conoscenze e le capacità adatte a svolgere qualsiasi attività lavorativa, ma anche il luogo in cui si acquisisce l’attitudine a lavorare, che significa anche (o soprattutto) impegno, sforzo, sacrificio. Difatti, non è naturale passare ore in un ufficio, in una fabbrica o in un’aula: è una costrizione che allenarsi allo sforzo e alla concentrazione può, paradossalmente, trasformare in qualcosa di stimolante e persino di piacevole. La scuola ha sempre avuto la funzione di fornire tale allenamento, che è rappresentato non soltanto dalle ore passate con l’insegnante e i compagni di classe, ma dal lavoro a casa, in cui si confronta individualmente, faccia a faccia con sé stessi, con i risultati del lavoro fatto. È qualcosa che non soltanto stimola il senso di responsabilità, e addestra allo sforzo inerente a qualsiasi attività lavorativa; ma è la via maestra per realizzare l’obbiettivo tanto proclamato dai pedagogisti “moderni”: la capacità di “saper fare”, di applicare le nozioni apprese, che non si stimola e non si verifica nelle attività collettive che spesso nascondono le magagne in un calderone indistinto. Di qui il ruolo dei “compiti a casa” di cui tanto si discute in questi giorni. (continua su I COMPITI A CASA. DOVERI E VALORI. In difesa dello studio)

Ecco, io credo che il punto della questione sia proprio questo: i ragazzi sono poco abituati a lavorare. Se lo studio è anche e soprattutto lavoro, quale preparazione potranno avere – e non sto parlando solo di quella culturale – se non si abituano al sacrificio e all’impegno che ogni lavoro comporta?

SCUOLA: IL PREMIER MONTI APPOGGIA IL TESTING. GIORGIO ISRAEL DICE “NO”

In un articolo apparso sul suo blog, Giorgio Israel, di cui mi capita di parlare spesso sui miei due blog visto che ne condivido le idee, esprime la sua contrarietà al testing (leggi: prove InValsi), come ha già fatto altre volte. Il nuovo governo sarebbe incline, infatti, ad appoggiare quella che viene definita l’eurocrazia – non gli europei, l’eurocrazia -, più potente e arrogante che mai, lo vuole davvero, poiché ha già chiesto imperiosamente al governo Monti di valutare gli insegnanti in base ai rendimenti dei loro alunni stimati mediante i test Invalsi.

Con il suo solito acume, Israel dimostra, per l’ennesima volta, quanto siano inaffidabili i test elaborati dall’InValsi.

Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all’analisi dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi, rappresentativo di una tendenza generale. Si elencano cinque verbi che indicherebbero tutti un “modo di ridere”, ovvero un unico stato psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare. Si chiede di metterli in “ordine crescente di intensità”. La risposta è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l’alunno acquisirebbe la “competenza” di distinguere le “sfumature di significato”.
Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un “sorriso amaro”, di un “sorriso di simpatia”, di un “sorriso ironico”, e anche di un “triste sorriso”. Nessuna relazione necessaria col ridere che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse quest’ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare, anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere considerato un’intensificazione del ridere; non certamente il ridere un’intensificazione del ridacchiare.
Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s’intende formare con un simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che trasforma l’interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per l’aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che l’esempio proposto non è isolato, bensì tipico.
Nei test Invalsi proposti ai licei si proponeva un brano di un racconto di Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo, «arrabbiata per quella stupida caduta». Perché – chiede il quiz – la ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di queste risposte: A. È seccata dall’invadenza del militare; B. Si vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di qualcos’altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in maniera “esatta” può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la ricchezza e l’ambiguità dell’analisi psicologica proposta da un testo letterario di autentico valore.
Del resto, quando l’uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali – ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto – è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento preciso: sull’uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni» scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al fine generale di accrescere «i livelli d’istruzione della forza lavoro» e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto di tecnocrazia è malizioso. Per una scuola che sta perdendo l’anima – declinando sempre più verso lo stato di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell’insegnante e la formazione di soggetti consapevoli e motivati – non si trova di meglio che parlare di “test”, nella cornice di un linguaggio economicista, a base di “capitale umano”, “forza lavoro”, “fabbisogni” e “aree in ritardo”? Invece di capire che quello di cui ha bisogno l’istruzione è soprattutto di motivazioni profonde e di restituzione del “senso” della propria missione? Davvero malinconico.

SARA’ ASSUNTO CHI INDOVINA IL COLORE DEL CAVALLO BIANCO DI NAPOLEONE by GIORGIO ISRAEL

Sfoglio alcuni libri di testo per le scuole medie e la realtà supera la fantasia. Nel libro di storia non c’è un brano che duri con continuità più di mezza pagina: titoletti, sintesi di poche righe, immagini, riquadro con una frase celebre, e poi – prima di passare a un altro “modulo” – domande su domande per verificare che l’accrocco di nozioni sia stato assimilato. Stessa faccenda per la geografia. Anche la matematica è ridotta a frammenti: regolette, esempi, applicazioni, mai un concetto, mai un teorema (cos’è un teorema? roba che si mangia?). E meno male che si predica contro l’insegnamento “nozionistico” della matematica… Poi, anche qui, verifiche di apprendimento a tutta birra, a base di “quesiti a risposta multipla”. Il quadratino da riempire con la crocetta è la forma dominante nei libri scolastici. E poi ci si chiede come mai i ragazzi non riescano a leggere più di mezza pagina per volta, non riescano a scrivere più di una riga per volta, non sappiano cosa sia una frase e comunichino in stile sms.La prossima selezione per più di duemila posti di dirigenti scolastici verrà fatta con una prova preliminare a base di quiz: su 5750 domande ne verranno sorteggiate 100 cui rispondere in 100 minuti. Per superare la prova occorrerà indovinarne l’80%. I furbi le hanno già “messe in rete” e molte risultano insensate. Pare che anche per diventare ragioniere presso la Presidenza della Repubblica occorra superare un test con domande esilaranti. Ai candidati si chiede quale sia il finale dei Promessi Sposi e se l’apparato di cui il cuore è l’organo centrale sia circolatorio, digerente, locomotore o urinario. Così il Colle più alto rischia di avere un commercialista che sa come va a finire per Renzo e Lucia ma crede che si faccia pipì con il cuore. Un’altra domanda è chi abbia inventato l’alfabeto Morse e tra le risposte ovviamente c’è Morse, per cui ci si chiede come possa esistere una persona a tal punto deficiente da scegliere come risposta Darwin… Invece esiste: ed è chiaramente chi ha pensato un simile test.

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A PROPOSITO DI MERITOCRAZIA E CHEATING

Leggo sul blog di Giorgio Israel, che seguo abitualmente e che ammiro per l’intelligenza e per l’onestà con cui tratta gli argomenti che gli stanno a cuore, un articolo interessantissimo che tratta, ancora una volta, di meritocrazia. Tema molto caro a Israel, su cui il professore ha le idee chiare e, almeno per me, condivisibili:

[…] in questi tempi in Italia non si fa che parlare di “merito” e “meritocrazia”, il che – se le parole hanno ancora un senso – significa premiare i meritevoli, i più bravi e volenterosi, e farla finita con la prassi per cui tutti vanno avanti indipendentemente dalle loro capacità e prestazioni. Si mettono in piedi progetti per individuare e premiare i “migliori” insegnanti e le scuole “migliori”. Poi però si viene a sapere che la prassi di copiare durante gli esami non soltanto dilaga ma viene favorita o addirittura promossa da certi insegnanti.

Fin qui credo non ci sia nulla da eccepire. Eppure recentemente dal rapporto InValsi, relativo alle prove somministrate, lo scorso maggio, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, è emerso che il cheating (la copiatura, il barare) non è un fenomeno diffuso, almeno in presenza degli osservatori. Eh già, ma quando il gatto non c’è
Non serve essere degli esperti per capire che se nelle scuole italiane, soprattutto in certe regioni, gli studenti brillano all’Esame di Stato, nonostante i rilevamenti dell’InValsi non siano loro favorevoli, il sospetto che i topi ballino non è solo una fantasia degli insegnanti del Nord che ritengono ingiusti i risultati ottenuti dalle loro scuole che, in teoria, sarebbero le migliori sul territorio nazionale.

Certo, sono tutte illazioni. Il professore Israel, però, ritiene di avere delle fonti attendibili e svela una realtà che ai docenti più onesti e deontologicamente corretti è molto difficile anche solo immaginare:

Mi raccontano – e la fonte è attendibile – che in un liceo importante l’insegnante (per giunta vicepreside) che sorvegliava la prova di matematica di maturità ha dato il posto in cattedra allo studente notoriamente migliore e poi, quando questi ha risolto il problema ha passato la soluzione a tutti. Nelle prove di latino, l’insegnante ha “scaricato” la traduzione da internet e l’ha trasmessa ai candidati. È da immaginare quali risultati avrebbe dato il progetto sperimentale del ministero (premiare i migliori insegnanti scelti dal preside e da due colleghi eletti)…

E si ritorna, quindi, al nodo della questione: quali strumenti sicuramente attendibili utilizzare ai fini meritocratici? Parla facile Abravanel (vedi articolo linkato) quando osserva: La grande occasione persa nel non aver esteso i test Invalsi alla maturità non è solo quella di una grande occasione perduta per rilanciare la meritocrazia nella selezione per l’accesso alla università. Quei test potrebbero essere utili anche per valutare il sistema educativo italiano dove è più debole e ineguale: l’istruzione superiore e l’università.
Possiamo immaginare quanto sarebbero stati attendibili i risultati … sempre in assenza dei gatti.

Come ho già avuto modo di dire (LINK) i test InValsi non sono uno strumento attendibile, tantomeno la famigerata commissione interna d’istituto che darebbe troppo potere ai dirigenti e creerebbe inevitabili tensioni fra i docenti. Ma, questione meritocrazia a parte, cosa si può (e si deve) fare per evitare che il cheating continui ad essere praticato? Quali sanzioni dovrebbero essere inflitte a quei docenti che aiutano i loro studenti per farli brillare? E cosa fare affinché comportamenti scorretti siano scoperti? Dobbiamo forse aspettare che qualcuno faccia la spia? E in questo caso, chi? Altri docenti, seri ed onesti, o gli studenti stessi, magari quelli che non hanno potuto fare affidamento sulla bontà dei loro insegnanti?

Rileggendo l’articolo di Israel, mi colpisce soprattutto una parte: Nelle prove di latino, l’insegnante ha “scaricato” la traduzione da internet e l’ha trasmessa ai candidati. Voglio dire, almeno avesse fatto lei o lui la traduzione personalmente! Dovrebbero sapere i docenti che insegnano Latino (e anche quelli di Greco) che le traduzioni dei brani che si trovano sul web spesso sono inaffidabili, eccessivamente “libere” e non sempre corrette. Senza contare che affidarsi ad Internet per ottenere una traduzione è un pessimo esempio. Anche il professor Israel si pone lo stesso problema, citando Paolo Ferratini (uno degli esperti che si è occupato del Regolamento relativo al riordino dei Licei):

Ha ragione Paolo Ferratini quando osserva che ormai gli studenti traducono dal latino benissimo a casa e malissimo a scuola. Egli suggerisce allora all’insegnante di smettere di dare versioni a casa, di prendere atto della situazione e iniziare a costruire percorsi di apprendimento dai migliori siti della rete, imparando e insegnando a distinguerli dalla spazzatura

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La proposta non è del tutto strampalata. Ma accanto all’attività di comparazione tra testi tradotti per distinguere il meglio del web, io da anni adotto un’altra strategia: lavorare in classe con gli allievi, anche attraverso i laboratori di traduzione, dividendo la classe in gruppi eterogenei e affidando la gestione di ciascun gruppo agli studenti migliori. Con la speranza che non usino il cellulare per connettersi … ora che il ministro Brunetta ha pensato di distribuire alle scuole il kit wi-fi gratuito, non ci sarà nulla di più facile.

[immagine da questo sito]