CAPITOLO 5: MATELDA

Dante, assieme a Virgilio e Stazio, dopo aver lasciato la settima cornice del Purgatorio e una volta che l’angelo della castità ha rimosso dalla sua fronte l’ultima P, è pronto per il suo ingresso nell’Eden, dove lo attende Beatrice. Il poeta deve attraversare un muro di fuoco ma ha paura. Virgilio lo incoraggia dicendogli che presto vedrà la sua amata: «Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro» (Purgatorio, XXVII, vv. 35-36).   In realtà, prima di giungere al cospetto di Beatrice, il pellegrino incontra un’altra donna, giovane e bella, che l’attende al di là del fiume Lete: si tratta di Matelda.

     Ormai il poeta è giunto nell’Eden, rappresentato come una divina foresta che fin da subito si contrappone alla selva oscura in cui l’avventura era iniziata. Ormai il peccato è un lontano ricordo tanto che l’uomo si addentra da solo nella foresta, paragonata alla pineta di Classe presso Ravenna, mentre i due compagni lo seguono. Il terrore e lo smarrimento iniziato solo pochi giorni prima lascia il posto a una sensazione di gioia e allegria, trasmessa anche dall’aura dolce che con delicatezza gli sfiora la fronte e dal canto degli augelletti appollaiati sulle cime dei rami. A infondere ancora più vigore all’uomo, l’ora mattutina e la provenienza della brezza da est, punto in cui sorge il sole simbolo della rigenerazione nella Grazia di Dio. 

     Giunto sulla riva di un fiumicello, mentre sta ammirando la vegetazione della divina foresta che paragona a un luogo in cui la primavera è eterna, Dante nota una giovane donna che soletta se ne va cantando e raccogliendo i fiori di cui cosparge il sentiero man mano che lo percorre. L’immagine della ragazza desta meraviglia nel pellegrino tanto da spingerlo a paragonarla a Proserpina che, rapita da Plutone, “perdette la sua primavera”, ovvero la sua innocenza e purezza di fanciulla. Il confronto si riallaccia al valore simbolico che Matelda assume nel contesto in cui si trova: ella incarna la felicità perfetta di cui avrebbero potuto godere tutti gli uomini nel Paradiso Terrestre che Dio aveva eletto come loro eterna dimora. Una felicità che il peccato commesso da Adamo ed Eva ha sottratto al genere umano ma non per sempre: ogni penitente, raggiunta la cima della montagna, dopo la purificazione e la rigenerazione ottenuta attraverso l’acqua dei due fiumi, il Lete e l’Eunoé, può accedere al Paradiso Celeste e questo è il premio che compensa ogni colpa. Lo stesso accade all’Alighieri.

    Matelda non è identificabile con nessuna donna storicamente esistita oppure protagonista di opere letterarie in versi o prosa, benché siano state avanzate alcune ipotesi. Qualcuno ha tentato l’identificazione con la contessa Matilde di Canossa, con la monaca benedettina Matilde di Hacehnborn (morta nel 1298 e autrice di libri spirituali), oppure con Matilde di Magdeburgo (anch’essa autrice di opere ascetiche). Secondo altri potrebbe riprendere varie donne presenti nella Vita Nuova come la «donna gentile» (questa è l’ipotesi avanzata da Gianfranco Contini) o altre donne del seguito di Beatrice. Tuttavia nessuna di queste ipotesi è supportata da dati certi. Tali congetture, inoltre, hanno portato ad associare il nome Matelda a quello maggiormente in uso di “Matilde” ma è molto più probabile che il nome della giovane che Dante incontra all’ingresso nell’Eden sia simbolico: secondo alcuni critici sarebbe da interpretare invertendo l’ordine di lettura e ottenendo in questo modo l’espressione “Ad laetam” oppure, seguendo la pronuncia, “Ad letam”. Matelda diviene, così, “colei che conduce alla beatitudine”, ovvero “colei che conduce alla acque del Lete”.

    Al di là delle ipotesi riportate, quello che importa è il suo significato allegorico: ella rimanda alla vita contemplativa e alla giustizia, ha il compito di “condurre” Dante da Beatrice di cui precede l’entrata in scena che avverrà nel XXX canto del Purgatorio.

     Nel XXIV capitolo della Vita Nuova, l’autore descrive una visione nella quale una donna, che precede Beatrice, avanza verso di lui: si tratta di Giovanna, la donna amata dall’amico poeta Guido Cavalcanti, detta “Primavera”, ossia “colei che prima verrà” e ha il ruolo di annunciare la venuta di Beatrice come Giovanni il Battista aveva anticipato la venuta di Cristo. Il confronto tra i due momenti letterari permette quindi di mettere in relazione le due donne per concludere che Matelda è colei che annuncia l’arrivo di Beatrice.

Il modo in cui viene descritta la giovane donna soletta che si gìa / e cantando e scegliendo fiore da fiore / ond’era pinta tutta la sua vita (Purgatorio, XXVIII, vv. 40-42), ricorda da vicino la pastorella cantata da Cavalcanti nella ballata In un boschetto trova’ pasturella (Rime, 46):

In un boschetto trova’ pasturella
più che la stella – bella, al mi’ parere
. […]

cantava come fosse ’namorata: […]

sola sola per lo bosco gia, […]

dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore                                     (cfr. testo citato, passim)

In particolare, la descrizione della fanciulla che cantava come fosse ‘namorata può essere messa a confronto con il verso iniziale del canto successivo, il XXIX, in cui la descrizione di Matelda è molto simile a quella della pasturella di Cavalcanti: Cantando come donna innamorata. L’unica differenza che contraddistingue Matelda è l’amore che la muove: non più eros ma caritas.

     È un concetto esplicitato dal modo in cui Dante si rivolge alla fanciulla:

«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore 
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti 
che soglion esser testimon del core,                           

vegnati in voglia di trarreti avanti», 
diss’io a lei, «verso questa rivera, 
tanto ch’io possa intender che tu canti.                        

Tu mi fai rimembrar dove e qual era 
Proserpina nel tempo che perdette 
la madre lei, ed ella primavera
».                                   (Purgatorio, XXVIII, vv. 43-51)

La bella donna è riscaldata dall’amore divino (raggi d’amore), un amore spirituale degno dell’anima pura di Matelda ed è la sua stessa espressione del volto e degli occhi (sembianti) a rendere il pellegrino edotto del particolare sentimento che si effonde dalla visione. Nemmeno il confronto con la figura mitologica di Proserpina riesce a scalfire la purezza dell’amore incarnato dalla giovane; esso serve, come già detto, a creare un parallelo con la figura di Giovanna “Primavera” amata da Cavalcanti. Non sembra casuale, dunque, la presenza degli echi lirici in questo canto e nell’opera del poeta amico di Dante.

     Un ulteriore confronto, infatti, interessa un’altra ballata di Cavalcanti, Fresca rosa novella, in cui ricorre nuovamente l’immagine della donna che cantando si aggira nei prati, personificazione del trionfo primaverile:

Fresca rosa novella,
Piacente primavera,
Per prato e per riviera
Gaiamente cantando                                     
(G. Cavalcanti, Fresca rosa novella, vv. 1-4)

Nei versi riportati, oltre all’accenno alla primavera in cui si rispecchia la freschezza e la purezza della fanciulla, ritroviamo l’utilizzo del francesismo riviera usato dall’Alighieri per descrivere il fiumicello che lo divide da Matelda la quale osserva Dante dall’altra sponda.

     Di origine mitologica è, invece, il riferimento a Proserpina nella descrizione fatta da Ovidio nelle Metamorfosi:

Un grande bosco corona le acque da tutti i lati,
e con le sue fronde fa velo al fuoco del sole.
I rami danno fresco, la terra umida produce fiori:
è un’eterna primavera.
In questo bosco Proserpina
mentre gioca a raccogliere viole e candidi gigli,
e ne riempie con zelo fanciullesco le ceste e il seno
e in ciò cerca di superare le sue compagne,
fu subito vista e amata e rapita
da Dite, tanto irruppe a precipizio l’amore.             
(Ovidio, Metamorfosi, V, vv. 388-396)

     Se nella Proserpina ovidiana vediamo la fanciulla intenta in una gara per superare le compagne raccogliendo più fiori, l’umiltà contraddistingue la Matelda dantesca. Ella si avvicina al poeta non altrimenti / che vergine che li occhi onesti avvalli (vv. 56-57) per soddisfare la sua preghiera, raggiungendo l’erba bagnata dalle acque limpide del fiume Lete e solo a questo punto rivolge a Dante uno sguardo luminoso che il poeta paragona allo splendore degli occhi di Venere quando accidentalmente, stretta in un abbraccio, fu raggiuta dalle frecce del figlio Cupido e si innamorò di Adone. Anche in questo caso la fonte è senza dubbio Ovidio.

    Matelda sorride, intrecciando fiori variopinti che l’alta terra senza seme gitta. È il primo accenno di un lungo excursus sull’età dell’oro che la fanciulla farà nella parte successiva del canto. Ancora una volta è Ovidio il poeta antico cui l’Alighieri si ispira.

Non parrebbe di là poi maraviglia,                                      
udito questo, quando alcuna pianta 
sanza seme palese vi s’appiglia
.                                            117                                        

E saper dei che la campagna santa 
dove tu se’, d’ogne semenza è piena, 
e frutto ha in sé che di là non si schianta
.                             120

L’acqua che vedi non surge di vena 
che ristori vapor che gel converta, 
come fiume ch’acquista e perde lena
;                                   123                            

ma esce di fontana salda e certa, 
che tanto dal voler di Dio riprende,                                     

quant’ella versa da due parti aperta.                                    126                          

Da questa parte con virtù discende 
che toglie altrui memoria del peccato; 
da l’altra d’ogne ben fatto la rende
.                          129                            

Quinci Letè; così da l’altro lato                                           
Eunoè si chiama, e non adopra 
se quinci e quindi pria non è gustato
:                                  132                            

a tutti altri sapori esto è di sopra. 
E avvegna ch’assai possa esser sazia 
la sete tua perch’io più non ti scuopra
,                                 135

darotti un corollario ancor per grazia; 
né credo che ‘l mio dir ti sia men caro, 
se oltre promession teco si spazia
.                                        138                            
Quelli ch’anticamente poetaro 
l’età de l’oro e suo stato felice,                                             
forse in Parnaso esto loco sognaro.
                                      141                        

Qui fu innocente l’umana radice; 
qui primavera sempre e ogne frutto; 
nettare è questo di che ciascun dice».
                        (Purgatorio, XXVIII, vv. 115-144)                   

Matelda sorridendo spiega a Dante che si trova in un luogo ricco di vegetazione che non ha bisogno di semenza per crescere: infatti, le piante, mosse dall’atmosfera, hanno un tal potere da impregnare l’aria con le loro virtù generative dando vita a un’infinita varietà di piante. Di ciò il pellegrino non si deve meravigliare perché in quella campagna santa sono presenti semi e frutti che sulla terra non crescono. Le acque che vi scorrono non provengono da sorgenti alimentate dalle piogge e non possono essere paragonate ai fiumi terrestri che cambiano la loro portata, ma sgorgano da una fonte immutabile e inesauribile poiché la stessa volontà di Dio ha il compito di rigenerare l’acqua dei due fiumi purgatoriali. Essi sono complementari dal momento che uno da solo non produce effetto, è necessario bere l’acqua di entrambi: il primo, il Lete, è il fiume dell’oblio, che cancella il ricordo dei peccati, l’altro, l’Eunoé, ha un sapore unico e il potere di far tornare alla memoria il bene compiuto.

     Nell’ultima parte del discorso Matelda ricorda gli antichi poeti, coloro che hanno narrato la mitica età dell’oro e che forse sul Parnaso sognavano proprio questo luogo. Un luogo in cui i primi uomini furono innocenti; qui regna un’eterna primavera e ogni frutto e l’acqua di questo fiume sono l’ambrosia e il nettare di cui ognuno di loro parla. Il riferimento all’Eden, presente nell’ultima terzina riportata, è una ripresa quasi letterale dalle Metamorfosi di Ovidio (Met., I, 89-90): Aurea prima… aetas… fidem rectumque colebat («La prima età dell’oro onorava la fedeltà e la giustizia»); 107: Ver erat aeternum («vi era una eterna primavera»); 111: Flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant («Scorrevano fiumi di latte, fiumi di nettare»). Al v. 144 questo (il nettare) indica l’acqua del Lete.

     Matelda ha, dunque, il compito di accompagnare Dante a dissetarsi nelle acque dei due fiumi. Quella del Lete avrebbe, secondo alcuni, la stessa azione purificatrice dell’acqua battesimale ma solo l’acqua dell’Eunoé può salvare le anime purganti e con esse lo stesso poeta il quale, abbandonato il fardello delle sue colpe, è pronto a proseguire il viaggio assieme a Beatrice. Dopo l’incontro non facile con la donna amata e l’uscita di scena di Virgilio che ha concluso la sua missione, Dante attraversa l’Eden assieme a Matelda e il poeta Stazio giungendo fino alle acque dell’Eunoé. Siamo ormai al XXXIII canto del Purgatorio ed è Beatrice a svelare il nome della bella donna, invitandola a condurre il poeta alle acque del fiume:

Ma vedi Eunoé che là diriva:

menalo ad esso, e come tu se’ usa,

la tramortita sua virtù ravviva.                                  (Purgatorio, XXXIII, vv. 127-129)

Descrivere lo dolce ber è per l’auctor cosa assai ardua, tanto da rivolgersi al lettore con uno dei numerosi appelli che troviamo disseminati in tutto il poema:

S’io avessi, lettor, più lungo spazio

da scrivere, i’ pur cantere’ in parte

lo dolce ber che mai non m’avrìa sazio;                 138

ma perché piene son tutte le carte

ordite a questa cantica seconda,

non mi lascia più ir lo fren de l’arte.                        141

Io ritornai da la santissima onda

rifatto sì come piante novelle

rinnovellate di novella fronda,                                   144

puro e disposto a salire alle stelle.                   (ibidem, vv. 136-145)

Ormai, giunto alla conclusione della sua avventura nel secondo regno ultraterreno, l’auctor sa di non avere tanto spazio per descrivere la sensazione provata, in quanto agens, dopo essersi dissetato nelle acque santissime dell’Eunoé. Il fren dell’arte, vale a dire le regole che un’opera artistica impone, gli permette solo di esprimere, attraverso una similitudine, il rinnovamento spirituale attraverso il quale gli è finalmente possibile salire alle stelle.

     Da parte sua, Matelda ha reso al pellegrino l’ultimo servizio ed esce di scena portando con sé tutto il mistero legato alla sua identità. Ma al di là di questo, la donna è certamente anticipata da un sogno descritto dall’Alighieri nel XXVII canto del Purgatorio. Anche in questo caso la fanciulla in questione è giovane e bella e coglie fiori cantando (cfr. canto citato, vv. 91 sgg.). Si presenta come Lia, personaggio biblico (era la prima moglie di Giacobbe) che dall’esegesi cristiana è considerata la personificazione della vita attiva. Nel sogno la giovane è accompagnata dalla sorella Rachele la quale rappresenta la vita contemplativa. È chiara dunque la funzione assolta da Matelda negli ultimi canti del Purgatorio: ella è una nuova Lia, simbolo della vita pratica ed è infatti ancora collegata ad elementi naturali (la terra con i suoi frutti e fiori, l’acqua dei fiumi, gli agenti atmosferici) e al mondo terreno di cui l’Eden, paradiso perduto, rappresenta il simbolo. Sarà poi Beatrice, allegoria della Grazia, a guidare Dante nell’ultimo regno. L’ultima fatica, anche letteraria, in cui si racchiude l’essenza stessa della Commedia dantesca: il raggiungimento della salus.


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Gli altri capitoli di questo studio

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

CAPITOLO 3: DIDONE

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA

CAPITOLO 7: BEATRICE