PETRONIO, La matrona di Efeso – Testo e Traduzione

Raccontata da Eumolpo, “La matrona di Efeso” è la tipica fabula milesia, una di quelle che giravano tra i soldati, in cui erano predominanti argomenti licenziosi ed erotici.
La storia narra di una matrona, bellissima e assai virtuosa, che, dopo la morte del marito, decide di lasciarsi morire accanto al cadavere di lui nella tomba. Alla fine, però, cede alle avances di un soldato che si trovava lì vicino a fare la guardia alle croci dei condannati, per impedire che i parenti sottraessero i corpi. L’uomo, attirato dai lamenti della povera donna, la scopre disperata e la convince a consumare la sua cena. All’inizio la matrona rifiuta poi si lascia convincere e infine cede alla passione che la spinge tra le braccia del soldato.
Nel frattempo, però, uno dei cadaveri appesi alle croci scompare e il soldato si dispera. La matrona, allora, mossa dalla pietà, permette che il corpo del marito sia appeso alla croce rimasta libera.
La novella si conclude con l’immagine della gente meravigliata che si chiede come abbia fatto il cadavere a salire da solo sulla croce.

Matrona quaedam Ephesi tam notae erat pudicitiae, ut vicinarum quoque gentium feminas ad spectaculum sui evocaret. Haec ergo cum virum extulisset, non contenta vulgari more funus passis prosequi crinibus aut nudatum pectus in conspectu frequentiae plangere, in conditorium etiam prosecuta est defunctum, positumque in hypogaeo Graeco more corpus custodire ac flere totis noctibus diebusque coepit. Sic adflictantem se ac mortem inediā persequentem non parentes potuerunt abducere, non propinqui; magistratus ultimo repulsi abierunt, complorataque singularis exempli femina ab omnibus quintum iam diem sine alimento trahebat. Adsidebat aegrae fidissima ancilla, simulque et lacrimas commodabat lugenti, et quotienscumque defecerat positum in monumento lumen renovabat. Una igitur in totā civitate fabula erat: solum illud adfulsisse verum pudicitiae amorisque exemplum omnis ordinis homines confitebantur, cum interim imperator provinciae latrones iussit crucibus affigi secundum illam casulam, in quā recens cadaver matrona deflebat. Proximā ergo nocte, cum miles, qui cruces asservabat, ne quis ad sepulturam corpus detraheret, notasset sibi lumen inter monumenta clarius fulgens et gemitum lugentis audisset, vitio gentis humanae concupiit scire quis aut quid faceret. Descendit igitur in conditorium, visāque pulcherrimā muliere, primo quasi quodam monstro infernisque imaginibus turbatus substitit; deinde ut et corpus iacentis conspexit et lacrimas consideravit faciemque unguibus sectam, ratus (scilicet id quod erat) desiderium extincti non posse feminam pati, attulit in monumentum cenulam suam, coepitque hortari lugentem ne perseveraret in dolore supervacuo, ac nihil profuturo gemitu pectus diduceret: ‘omnium eumdem esse exitum et idem domicilium’ et cetera quibus exulceratae mentes ad sanitatem revocantur. At illa ignotā consolatione percussă laceravit vehementius pectus, ruptosque crines super corpus iacentis imposuit. Non recessit tamen miles, sed eādem exhortatione temptavit dare mulierculae cibum, donec ancilla, vini odore corrupta, primum ipsa porrexit ad humanitatem invitantis victam manum, deinde refecta potione et cibo expugnare dominae pertinaciam coepit et: ‘Quid proderit, inquit, hoc tibi, si solută inediā fueris, si te vivam sepelieris, si antequam fata poscant indemnatum spiritum effuderis?
Īd cĭnĕrem aūt mānēs crēdīs sēntīrĕ sĕpūltōs?
Vis tu reviviscere? Vis discusso muliebri errore, quamdiu licuerit, lucis commodis frui? Ipsum te iacentis corpus admonere debet ut vivas.’ Nemo invitus audit, cum cogitur aut cibum sumere aut vivere. Itaque mulier aliquot dierum abstinentiā siccă passa est frangi pertinaciam suam, nec minus avide replevit se cibo quam ancilla, quae prior victa est. Ceterum, scitis quid plerumque soleat temptare humanam satietatem. Quibus blanditiis impetraverat miles ut matrona vellet vivere, iisdem etiam pudicitiam eius aggressus est. Nec deformis aut infacundus iuvenis castae videbatur, conciliante gratiam ancillā ac subinde dicente:
Plăcĭtōne ĕtĭām pūgnābĭs ămōrī?
Nēc vĕnĭt īn mēntēm, quōrūm cōnsēdĕrĭs ārvīs?
Quid diutius moror? Ne hanc quidem partem corporis mulier abstinuit, victorque miles utrumque persuasit. Iacuerunt ergo unā non tantum illā nocte, quā nuptias fecerunt, sed postero etiam ac tertio die, praeclusis videlicet conditorii foribus, ut quisquis ex notis ignotisque ad monumentum venisset, putaret exspirasse super corpus viri pudicissimam uxorem. Ceterum, delectatus miles et formā mulieris et secreto, quicquid boni per facultates poterat coemebat et, primā statim nocte, in monumentum ferebat. Itaque unius cruciarii parentes ut viderunt laxatam custodiam, detraxēre nocte pendentem supremoque mandaverunt officio. At miles circumscriptus dum desidet, ut postero die vidit unam sine cadavere crucem, veritus supplicium, mulieri quid accidisset exponit: ‘nec se expectaturum iudicis sententiam, sed gladio ius dicturum ignaviae suae. Commodaret ergo illa perituro locum, et fatale conditorium familiari ac viro faceret.’ Mulier non minus misericors quam pudica: ‘Ne istud, inquit, dii sinant, ut eodem tempore duorum mihi carissimorum hominum duo funera spectem. Malo mortuum impendere quam vivum occidere.’ Secundum hanc orationem iubet ex arcā corpus mariti sui tolli atque illi, quae vacabat, cruci affigi. Usus est miles ingenio prudentissimae feminae, posteroque die populus miratus est quā ratione mortuus isset in crucem.

TRADUZIONE

C’era una certa matrona ad Efeso di così rinomata virtù da spingere persino le donne dei popoli confinanti a farle attenzione. Costei, dunque, dopo aver perso il marito, non contenta di seguire, secondo il costume popolare, il corteo funebre con i capelli sciolti o di percuotersi il petto nudo di fronte alla gente, seguì il marito anche quando venne messo nella bara, e quando venne deposto, secondo l’usanza greca, nella tomba, prese a vegliare il corpo ed a piangere notte e giorno. Né i genitori, né i parenti riuscirono a distoglierla dall’affliggersi in quel modo e dall’andare incontro alla morte per fame. Da ultimo i magistrati se ne andarono respinti; e la donna di eccezionale esempio compianta da tutti non toccava cibo da quattro giorni. Assisteva la disperata un’ancella fedelissima, e quando piangeva la accompagnava nel pianto, ed allo stesso tempo provvedeva a sostituire il lume posto sulla lapide ogni volta che si consumava. In tutta la città, dunque, si parlava solo di quello: uomini di ogni estrazione sociale ammettevano che solo quello era mai brillato come esempio sincero di amore e di virtù, quand’ecco che il governatore della provincia ordinò di far crocefiggere alcuni briganti vicino alla tomba in cui la matrona piangeva il marito morto da poco. Dunque, la notte successiva, quando il soldato che faceva la guardia alle croci, perché nessuno si portasse via un cadavere per dargli sepoltura, notò un lume che brillava abbastanza distintamente fra le tombe ed udì il gemito della donna che piangeva, con la tipica curiosità maschile desiderò sapere chi o cosa ne fosse la causa. Quindi scese nella tomba e, come vide la bellissima donna, dapprima si fermò paralizzato dal terrore quasi si fosse trattato di una creatura mostruosa o di apparizioni infernali. Poi, come vide il corpo della donna distesa e notò le lacrime e il volto segnato dalle unghie, comprendendo cosa significasse la scena – cioè che la donna non riusciva a sopportare il rimpianto per il marito defunto – portò alla tomba la sua misera cena, e prese a spronare l’afflitta a non persistere in un’afflizione più che inutile e a non spezzarsi il cuore con lamenti futili: tutti avevano la medesima fine e la medesima dimora, ed ogni espediente attraverso il quale si riportano le menti sconvolte dal dolore alla ragione. Ma, pur colpita dalla consolazione che veniva da una persona che non conosceva, si graffiò con furia rinnovata il petto e depose i capelli strappati sopra il capo del defunto. Il soldato, tuttavia, non si diede per vinto e con incoraggiamento non minore tentò di offrire il pasto all’ancella, fino a che ella, vinta sicuramente da quell’odore del vino, allungò la mano priva di volontà di resistenza verso la generosa offerta; poi, ristorata dalla bevuta e dal cibo, iniziò a venire a capo della cocciutaggine della sua padrona e disse: “ a cosa ti sarà utile lasciarti morire di fame, seppellirti viva, sprecare la tua anima innocente prima che il destino lo chieda? O credi forse che i Mani sepolti si curino di questo, di un morto ? Desideri tornare a vivere? Vuoi – una volta cancellato questo tipico pregiudizio femminile -, godere della luce del giorno fino a quando ti verrà concesso? Lo stesso corpo che è steso davanti a te ti dovrebbe esortare a vivere”. Nessuno obbedisce controvoglia quando è invitato a mangiare o a vivere. Così la donna, a digiuno da svariati giorni, lasciò che la sua ostinazione venisse vinta, e si abbuffò di cibo con foga non minore di quella dell’ancella, che per prima era stata convinta. Voi sapete cos’altro è solito tentare un essere umano quando è sazio. Il soldato, con le medesime lusinghe grazie alle quali aveva fatto tornare a vivere la matrona, tentò anche la sua castità. E alla casta matrona egli non pareva né brutto né stupido, anche perché l’ancella lo metteva in buona luce e diceva: vuoi dunque tu combattere un amore che ti aggrada? Non ti ricordi in che territorio ti trovi?. Perché farla tanto lunga? La matrona non seppe tenere a digiuno neppure quella parte del suo corpo, e il soldato vincitore riuscì nella sua impresa di persuasione entrambe le volte. Dormirono dunque insieme non solo quella notte, in cui venne consumato il loro amore, ma anche il secondo e il terzo giorno, dopo aver sbarrato, come è logico, le porte del sepolcro, perché chiunque fosse capitato, noto o sconosciuto, presso la tomba pensasse che la castissima moglie fosse spirata sopra il cadavere del marito. Contento un po’ di tutto, della bellezza della donna come del segreto da custodire, il soldato raccoglieva tutto ciò di buono che poteva secondo le sue capacità e, appena calava il sole, lo portava alla tomba. Dunque i genitori di uno dei crocefissi, come videro che la sorveglianza era calata, una notte lo tirarono giù dalla croce e gli diedero gli estremi uffici. Ma il soldato, distratto mentre rimaneva ozioso, quando il giorno seguente vide che a una croce mancava il cadavere, temendo la punizione, racconta alla donna l’accaduto: non avrebbe atteso la sentenza del giudice, ma avrebbe fatto giustizia della propria negligenza con la spada. Gli procurasse ella un luogo per morire, il sepolcro accogliesse il corpo del marito e dell’amante. La donna, che non era meno pietosa che casta, disse: “Gli dei non permettano che io assista al contempo al funerale di due uomini a me estremamente cari. Preferisco appendere un morto che seppellire un vivo”. Detto così, gli ordinava di togliere il cadavere di suo marito dal sepolcro e appenderlo alla croce che ne era priva. Il soldato si servì dell’astuzia di quella donna di grande furbizia, e il giorno seguente la folla si chiedeva come avesse fatto il morto a salire sulla croce.

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