Una lettura di “A Silvia”

È senz’altro una delle poesie più famose di Leopardi, composta forse nel 1828 nella sua Recanati, quel natio borgo selvaggio in cui il poeta spese il suo tempo migliore: la gioventù. Un’età felice per molti giovani, come per Silvia stessa che, rallegrata dai sogni e intenta alle opere femminili vagheggiava un avvenire che il Fato le negherà. Un’età in cui il giovane Giacomo, invece, sentiva il peso e la fatica delle sue sudate carte cui dedicava ogni momento della giornata.
Più tardi, come osserva nella lirica Il passero solitario, si sarebbe pentito di questa scelta, dell’aver rifuggito l’amore, german di giovinezza, sospiro acerbo de’ provetti giorni.

Molti pensano che questa sia una poesia d’amore. Nell’alternanza di endecasillabi e settenari Leopardi, infatti, pare esprimere il suo amore per una fanciulla molto sfortunata, morta troppo presto per “veder il fior degli anni” suoi. Una fanciulla che il giovane, sfortunato anche lui più per libera scelta che per avversa fatalità, spiava mentre la mano di lei percorrea la faticosa tela. Forse si sentiva attratto da quell’umile giovanissima donna, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, il cui triste destino l’aveva colpito a tal punto da perdere la speranza nel domani.
Come per Silvia i brevi giorni della sua vita erano stati troncati dalla fatale malattia, deludendo le speranze di un futuro gioioso di donna amata, così per Leopardi stesso la morte di lei rappresenta la fine delle sue speranze. E questa disillusione gli deriva dalla convinzione che la Natura abbia qualche responsabilità nel destino degli uomini, quella Natura che prima illude e poi inganna i suoi figli, negando loro ciò che prima aveva promesso.

Nell’ultima strofa la disillusione si palesa inequivocabilmente: la morte di Silvia rappresenta metaforicamente la morte stessa della speranza che non può far altro che indicare al poeta la una tomba ignuda. Ma al di là di questa metafora che ci riconduce al pessimismo leopardiano, la poesia può essere considerata una lirica amorosa? Forse a livello conscio no: a Leopardi premeva in primo luogo sottolineare quel suo male di vivere, quel suo costume che ben si addice al passero solitario e molto meno al poeta recanatese. Lui per scelta conduceva una vita isolata e priva delle gioie tipiche dell’ età più bella, quell’età che il garzoncello scherzoso trascorre spensierato nel villaggio animato da personaggi umili, tutti intenti nei preparativi per trascorrere al meglio una giornata di festa nella gioia condivisa. Ma a livello inconscio forse la poesia può essere letta, effettivamente, come una poesia d’amore.

Il critico Barberi Squarotti, ad esempio, in un suo saggio rileva un’inconscia ossessione del poeta nei confronti di questa ragazza. Un’ossessione che lo spinge, inconsciamente appunto, a ripetere, quasi in uno sciame allitterativo, fin dai primi versi la sillaba “vi”, compresa nella parola Silvia: al verso 2 ritroviamo la parola “vita” che la contiene; al verso 4 gli occhi sono aggettivati come “fuggitivi”, in rima con il verbo “salivi” del verso 6; quindi, all’inizio del verso 11 si legge ancora un verbo, “sedevi”, che termina con “vi” e ancora al verso successivo “avevi” che rima con un altro verbo, sempre alla seconda persona singolare, “solevi”. Nelle strofe che seguono si trovano facilmente anche altre parole contenenti la sillaba “vi”, ma quello che sconcerta particolarmente è che la forma verbale “salivi” del verso 6 costituisce addirittura l’anagramma del nome Silvia.
Secondo Barberi Squarotti questa ripetizione ossessiva del “vi” si accosta all’allitterazione del fonema “T” nella prima strofa, e all’insistenza con cui Leopardi usa il pronome personale “tu” e l’aggettivo possessivo “tuo/a” in tutta la lirica. In particolare, nella terza strofa c’è un gioco di contrapposizioni tra l’ “io” leopardiano e il “tu” riferito a Silvia. Non a caso, è la strofa in cui il poeta rappresenta con toni più dolci e sereni il suo “rapporto” con Silvia, un rapporto fatto di suoni e di sguardi. Lo sguardo rivolto all’orizzonte (impossibile non fare un confronto con la poesia L’infinito) rappresenta la speranza stessa, non ancora delusa, e l’attesa per un futuro ignoto i cui colori non sono cupi ma brillanti (L’oro delle vie illuminate dal sole).
Ritornando all’interpretazione di Barberi Squarotti, ci chiediamo se quelle ripetizioni fossero volute o meno. Si tratta, dunque, di una costruzione conscia della lirica come specchio dell’anima, in cui si insiste su quel “vi” racchiuso nel cuore della parola “Silvia”, così come l’immagine stessa della ragazza era racchiusa nel cuore del poeta amareggiato per la sua morte precoce? Non lo sappiamo per certo, ma ci sono degli indizi che ci portano a credere che Silvia, al di là della metafora che incarna, fosse davvero amata dal poeta, forse come nessun’altra lo fu mai.

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

[nell’immagine 1: Giacomo Leopardi in un ritratto giovanile, di A. Ferrazzi, Recanati, casa Leopardi; nell’immagine 2: James Abbott McNeill Whistler, Symphony in white – White girl number 1 (Sinfonia in bianco – Fanciulla in bianco numero 1), 1862, Washington, National Gallery; immagine 3: Donna al telaio, Tito Agujari, Museo Morpurgo, Trieste, da questo sito]

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