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DISTANZE RAVVICINATE (BUCCACCIA MIA, STATTI ZITTA)

Da settimane, negli edifici scolastici si è fatto grande uso del metro per misurare le aule a disposizione e capire quanti allievi, nelle classi sempre troppo numerose, possano contenere. Tutti gli altri, gli esclusi, a casa. Logicamente con la necessaria turnazione, tranne casi particolari: BES (allievi con bisogni educativi speciali) e quelli sfortunati che magari abitano in paradisi terrestri, ma non hanno una connessione stabile.

Un metro tra banco e banco, si era detto. Erano anche state diffuse piantine con simulazioni adattabili ai vari contesti. In una di queste la cattedra stava al posto del portaombrelli (secondo la posizione che l’oggetto ha nelle aule del mio liceo) ma, vabbé, ci si adatta. Negli anni docenti e studenti hanno sviluppato uno spirito di adattamento unico, credetemi.

Poi arriva la fine di giugno, le vacanze (o meglio ferie) bussano alla porta, in ogni scuola è pronto un piano, più di uno per i fortunati dal “multiforme ingegno” tanto da fare invidia ad Odisseo, e una prospettiva di rientrare a settembre si fa strada tra la nebbia dell’incertezza che ha caratterizzato il nostro tempo da marzo in poi. Pur con disagi che richiedono pazienza infinita, intendiamoci.

Con la tempestività che da qualche anno caratterizza gli inquilini di viale Trastevere, arriva una buona notizia : la distanza di sicurezza non è più di un metro tra banco e banco ma tra le “rime buccali”.

OK, va tutto bene. Poteva andare peggio.

I più si saranno chiesti cosa caspita siano queste “rime buccali”. Insomma, la scolarità avanzata del popolo italiano ha fatto transitare chiunque, per tempi più o meno lunghi, nelle aule scolastiche. Un banco è un banco, lo sanno tutti. Ma ‘ste “rime buccali”?

Credo sia stata l’espressione più cercata su Google negli ultimi giorni.

Che “bucca” abbia qualche nesso etimologico con “bocca” si può facilmente immaginare. E le “rime”? Gli studenti forse conoscono le rime baciate che, in qualche modo, “si baciano” quindi hanno un contatto come le labbra in un bacio: i versi a rima baciata, infatti, sono quelli in cui un verso della composizione è in rima con quello immediatamente successivo.

In poesia la parola “rima” indica, semplificando al massimo, l’identità di suono. Le “rime buccali, tuttavia, non c’entrano nulla con i versi poetici anche se l’espressione è in stretta relazione con la bocca. Nel linguaggio anatomico “rima” indica “una fessura lineare tra due parti omologhe adiacenti”. Se accompagniamo questo termine con l’aggettivo “buccale”, ecco svelato l’arcano: le rime buccali sono in realtà, molto semplicemente, le labbra.

Non vorrei trasformare questo post in una lezione di storia della lingua, però non posso esimermi dal fare un’ultima puntualizzazione.

In latino la parola colta per “bocca” era os, oris, termine che in italiano ha dato vita ad altre parole che sono facilmente collegabili con la “bocca”. Pensiamo all’esame orale, contrapposto allo scritto, all’aggettivo orosolubile, cavo orale

Bucca esisteva in latino ma indicava in modo più preciso la “guancia”. Poi, con la diffusione del latino volgare, cioè l’idioma usato dal popolo (vulgus), bucca sostituisce la parola colta os, oris, non solo nell’italiano ma nella maggior parte delle lingue romanze (o neolatine): basti pensare al francese bouche o allo spagnolo boca.

Ora, tornando alle “rime buccali” e alle disposizioni del Ministero dell’Istruzione, avrei ancora tanto da dire ma sicuramente non userei parole colte. Quindi, per non essere volgare, taccio. Anzi, ispirandomi a un personaggio simpatico che i giovani non conoscono ma i più attempati come me ricorderanno bene, il pupazzo tanto simpatico quanto impertinente Provolino, cui diede vita qualche decennio fa Raffaele Pisu, mi limiterò a dire:

BUCCACCIA MIA STATTI ZITTA!

Segnalo questo articolo molto interessante: Rime buccali e altra terminologia per la scuola

PERCHÉ STUDIARE (ANCORA) IL LATINO E IL GRECO?

In occasione dell’80esimo anniversario dalla morte di Antonio Gramsci, il 29 aprile scorso, il MIUR (Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca) ha invitato le scuole a riflettere sulla sua figura e sul suo pensiero, utili per comprendere la complessità del presente che viviamo e le sue radici storiche, per promuovere occasioni di studio, ricerca e approfondimento. (LINK)

Onestamente non ho mai approfondito lo studio di Gramsci, se non per un breve periodo all’università, grazie alla baldanzosa ammirazione che il mio docente di Letteratura Italiana nutriva per lui e per altri personaggi legati alla cultura marxista. Ricordo che allora quel professore – Giampaolo Borghello, per chi fosse curioso – non riuscì più di tanto a farmelo amare. Tuttavia, ci sono degli scritti di Gramsci che appaiono molto attuali. Uno di questi, tratto dai Quaderni dal carcere, riguarda lo studio delle lingue classiche e, facendo seguito all’invito del MIUR, ne riporto qualche stralcio – purtroppo in questo periodo a scuola il tempo è davvero tiranno ed è una lotta per portare a termine i programmi, o almeno tentare -, sperando che qualche allievo di buona volontà lo legga. Il grassetto è mio.

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.

Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete. […]

Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.

Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.

[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]

E ora qualche mia considerazione.

La prima riflessione – Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue – è quanto mai attuale. In particolare ci sono metodi didattici (spacciati per innovativi ma che hanno alle spalle qualche decina d’anni) che tendono proprio a privilegiare lo studio del latino – insegnando al liceo scientifico mi soffermo solo su questa lingua – secondo il cosiddetto “metodo natura”, vale a dire una didattica mutuata attraverso quella delle lingue moderne. Sto parlando, naturalmente, del metodo Ørberg, un linguista danese vissuto tra il 1920 e il 2010, che aveva sperimentato la didattica del latino riproducendo le condizioni normali e prevedibili in cui una persona del tutto ignara di latino si troverebbe se circondata solo da antichi Romani. Secondo lo studioso, in questo modo si supererebbe lo studio noioso delle regole grammaticali e lo sforzo inutile d’imparare a memoria lunghissime liste di vocaboli, contestualizzando in diverse “situazioni” l’apprendimento della lingua, come si fa appunto nella didattica delle lingue moderne. Attraverso il MN si arriverebbe all’utilizzo vivo della lingua per portare gli studenti ad una reale padronanza della lingua che stanno studiando, portandoli all’ “interno dei testi”, evitando di relegarli al ruolo di semplici spettatori di uno spettacolo che comprendono a stento (il testo latino d’autore). In altre parole, si arriva all’utilizzo del latino come lingua veicolare che comunque non potrebbero usare, come invece accade con le lingue moderne, al mercato o al ristorante … dell’antica Roma.

Non mi dilungo ma voglio far capire che già negli anni Trenta del Novecento Gramsci aveva capito che lo scopo della didattica del latino non è quello di parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti. Vale a dire che già allora, sorprendentemente, si tendeva ad attribuire allo studio delle lingue classiche uno scopo non pratico. Oggi va di moda parlare del problem solving cui il latino, in modo insospettabile per molti, contribuisce non poco, abituando gli allievi a sviluppare la capacità logica per superare l’ostacolo, ovvero per comprendere e – solo successivamente – tradurre un testo di Cesare o Cicerone, ad esempio. Più problem solving di così!

Insomma, anche ai tempi di Gramsci lo studio delle “lingue morte” era accusato di eccessiva meccanicità e aridità. In più doveva essere parecchio noioso, classista e soprattutto costava molta fatica, troppa per alcuni. È evidente che oggi il discorso sulle classi sociali e sul vantaggio che deriverebbe a chi appartiene ad un ambito familiare colto nell’affrontare gli studi di un certo livello non è più valido. Soprattutto ora che l’Ocse ha eletto la scuola italiana reginetta dell’inclusività. Però è pur vero che molti degli stimoli devono arrivare, o almeno dovrebbero, dalle famiglie. Tuttavia, se proprio in famiglia si ritiene inutile lo studio delle lingue classiche e più in generale delle discipline umanistiche, il giovane allievo è portato a sopportare con grande sacrificio e a volte insofferenza lo studio di questa ed altre materie “inutili”.

Perché si studiano certe cose? È una domanda che, inutile negarlo, tutti ci siamo fatti (io per le scienze che la mia professoressa burbera, volgare e del tutto impreparata, mi aveva fatto odiare) ma fino a 20 anni fa lo studio, anche quello che non era particolarmente gradito, veniva considerato un dovere e l’ “utilità” non era misurata sulla base di una spendibilità immediata (a me, per esempio, le formule chimiche non sono mai servite nella vita!). L’obiettivo finale era quello di costruirsi una base culturale (perché, diciamolo, la scuola non ha mai avuto la pretesa di offrire la Cultura a 360 gradi) da approfondire con gli studi successivi e nel corso di tutta la vita da adulti. Un modo, insomma, per non sentirsi ignoranti.

Torniamo, dunque, alla riflessione di Gramsci: Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia.
In queste osservazioni ci sono delle parole “magiche” che tutti i nostri studenti dovrebbero annotare nel quadernetto della memoria: mestiere, faticoso, sforzo, dolore, noia.

Non voglio commentare questo passaggio, le parole parlano da sole. Dirò solo che nei nostri studenti manca lo spirito di adattamento, vogliono (vorrebbero?) che tutto sia facile, che nulla richieda sacrificio e fatica, che ogni cosa sia facilmente raggiungibile (la sufficienza, ad esempio) senza trovare ostacoli (dolore) e possibilmente senza annoiarsi troppo.

Bene, pare che anche gli studenti dell’età di Gramsci soffrissero di questo disturbo. Il mondo va avanti ma certe cose non cambiano. Viene da pensare che anche la scuola sia rimasta indietro – didattica del latino e del greco a prescindere – ma non è così. Il problema vero non riguarda la didattica che per forza di cose si deve rinnovare e innovare (vedi l’utilizzo delle nuove tecnologie, per esempio), non riguarda nemmeno i “programmi vecchi” perché ci sono discipline e intellettuali del passato che hanno ancora molto da insegnare alle nuove generazioni. Il problema vero è lo scarso valore che viene dato alla Cultura in generale e la convinzione errata che tutto debba essere alla portata di tutti.

Ci troviamo davanti alla generazione del fast food e della smart life. Ma la scuola non sarà mai né fastsmart… almeno non troppo!

LICEO CLASSICO: LA SCUOLA DELLA BELLEZZA

bellezzaNella mia città l’unico liceo classico statale esistente è da anni in sofferenza. Gli allievi sono spaventati non tanto dall’impegno che tale corso di studi richiede, quanto dalla nomea della scuola stessa: rigida, antiquata, impegnativa al punto da dover rinunciare a tutto – sport, amici, passioni, amore… – per passare cinque anni devotamente in attesa sospirato diploma sudatissimo, costato lacrime e sudore.
Non credo sia davvero così, tuttavia questi sono i motivi addotti da alcuni miei allievi, quelli che considero “penne rubate al classico”, quando chiedo perché mai abbiano scelto il liceo scientifico.

Parliamoci chiaro: il liceo classico non è una scuola facile. Non lo era ai miei tempi (anche se onestamente non mi sono sacrificata più di tanto, forse per la facilità che ho sempre incontrato nello studio), lo è ancora adesso. Tuttavia, mentre decenni fa il classico era considerato il top degli studi superiori, ora è alquanto snobbato, considerato una scuola fuori dal tempo. Senza contare che sempre più è diffusa la convinzione che studiare latino e greco non serva a nulla. In altre parole, non si dà il giusto valore alla Cultura, con la ci maiuscola. Si preferisce guardare all’utilità degli studi, senza pensare che il liceo classico è stato frequentato in passato da giovani che poi sono diventati uomini di scienza, medici, avvocati, solo per citare alcune categorie. Non c’era alcun dubbio: se si voleva diventare qualcuno, era necessario frequentare il classico.

Oggi ho letto sul quotidiano locale, nella sezione Scuola (ovvero quella che pubblica i contributi degli studenti), una bella lettera aperta, scritta da una studentessa del liceo classico “Stellini”, ad un ipotetico futuro allievo del prestigioso liceo.

Eccone alcuni stralci.

[…] posso capire quello che ti intimorisce, poiché anch’io come altri, ho incontrato molte difficoltà. Le mie preoccupazioni erano la mancanza di tempo e la conseguente assenza di vita sociale.
Non nego che nel nostro liceo si debba dedicare molto tempo allo studio, ma ciò – con organizzazione e forza di volontà – non diviene un ostacolo né alla pratica di altre attività né alle relazioni sociali, e questo te lo posso dire con certezza, basandomi sulla mia esperienza.

Un secondo motivo che forse ti condiziona è la prospettiva di una faticosa e costante applicazione allo studio.

[…] io percepisco un quotidiano arricchimento personale; a questo proposito cito Ovidio, uno dei molti testimoni dell’importanza di una formazione classico-umanistica:

«Costruisci per tempo uno spirito che duri a sostegno della bellezza: è l’unica dote che permane fino all’ultimo giorno di vita. Metti ogni cura a coltivare il tuo animo con le nobili arti e impara a fondo le due lingue dell’impero».

[…] Voglio confutare un’altra opinione diffusa: gli studenti dei licei classici, usciti dall’università, hanno poche probabilità di trovare un lavoro, “non hanno un futuro”. In primis, non è vero (perlopiù la nostra scuola non esclude indirizzi scientifico-matematici), secondariamente, questo tipo di affermazioni mi sembra riduttivo: con futuro, intendiamo solo trovare un lavoro?

No, io credo che prima di tutto sia il tipo di persona che ognuno di noi vuole diventare, ciò che si vuole donare al mondo e il segno che vi si vuole lasciare: non c’è futuro senza ambizioni (e il liceo classico ti dà la possibilità di permettertele) né senza passato (ed è per questo che ci dedichiamo tanto allo studio della storia e delle lingue antiche).

[…] queste “cose inutili” sono il nostro patrimonio, la sola cosa che realmente abbiamo e che rimane, l’unica vera forza dell’uomo.
È questo che mi ha insegnato la mia scuola: il valore della bellezza, che sta pure in ciò che studiamo…
Veronica Cojaniz

LINK all’articolo originale da cui è tratta anche l’immagine.

STUDIO E LAVORO: LA SCUOLA E’ ANCORA “PALESTRA DI VITA”?

STUDIO E LAVOROIl mio nuovo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita” riporta un riflessione scaturita da una semplice domanda: La scuola può essere ancora considerata “palestra di vita”?
Come sempre, riporto la parte iniziale del post e vi invito a continuare la lettura sul sito del Corriere.it.

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«La scuola è palestra di vita»: uno slogan ormai superato oppure un concetto valido tuttora?

Troppo spesso sentiamo ripetere, anche da rappresentanti delle istituzioni, che la scuola italiana è eccessivamente nozionistica e anche troppo autoreferenziale, intenta com’è a trasmettere contenuti, seguendo diligentemente i programmi calati dall’alto, e preoccupata quasi esclusivamente di valutare ciò che gli studenti hanno appreso nel loro percorso scolastico. E questo senza preoccuparsi affatto della spendibilità dell’appreso una volta che i ragazzi vengono introdotti nel mondo del lavoro.

A scuola s’imparano molte cose. Nozioni su nozioni nelle varie discipline, prima di tutto. Come se le conoscenze fossero l’unico patrimonio da conquistare. Certo, senza le conoscenze è difficile arrivare al sei o addirittura ottenere dei buoni voti. Ma al di là di quelle nozioni indispensabili per imparare una materia, poi ci vuole la logica, la deduzione, la capacità di stabilire relazioni nel mare magnum dell’appreso, abilità fondamentali da acquisire nell’ambito delle materie di studio. E ancora, il problem solving che sembra costituire, secondo molti, l’unica risorsa davvero degna di questo nome nell’ambito dell’apprendimento scolastico. Ma non sempre chi frequenta la scuola, anche per molti anni, arriva a questo obiettivo trasversale. Ciò accade, in parte, perché la cosa più difficile non è insegnare ma insegnare ad imparare e, diciamolo con tutta l’onestà possibile, non tutti i docenti possiedono tale abilità.

Non sempre, tuttavia, questa responsabilità deve essere scaricata interamente sulle spalle di chi siede in cattedra.

Quante volte, ai colloqui con gli insegnanti, arrivano genitori preoccupati, se non proprio depressi, perché dicono che il/la loro figlio/a studia, studia ma non arriva al sei? Molte.
Quante volte gli stessi studenti (quelli più grandi, è ovvio) ci rincorrono per i corridoi e sfogano la frustrazione provata nello studiare tanto senza arrivare al sei? Tante.

Quanti di questi genitori e allievi ci chiedono aiuto? Pochi. La maggior parte sembra voler trovare una giustificazione alla loro ben poco aurea mediocritas. E anche quando sottolineiamo le loro carenze, quando diamo consigli e dispensiamo raccomandazioni, gli stessi ritornano a compiere i medesimi errori, sembra non si sforzino nemmeno di cambiare. Non ci ascoltano.

La maggior parte delle volte le situazioni di insuccesso scolastico dipendono dagli studenti stessi.

Le nozioni, le regole, le pagine di letteratura, le versioni di Latino non servono a nulla, tanto meno a risolvere problemi. Ancora minor incidenza hanno su un futuro lavorativo. Queste, in sintesi, le obiezioni mosse da chi non trova gli stimoli giusti per studiare.

Così molti giovani, spesso con la complicità delle loro famiglie, si autoassolvono. Stimano la scuola un’inutile perdita di tempo, tanto vale trovarsi un lavoro. Come se fosse facile! Le statistiche sulla disoccupazione giovanile sono allarmanti: quasi un giovane su due, di età compresa tra i 15 e i 24 anni, non ha un’occupazione e, avendo lasciato gli studi, va ad ingrossare le file dei cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training).

Eppure basterebbe davvero poco per capire che l’impegno scolastico rappresenta, innanzitutto, un allenamento costante, il che significa fatica e sacrificio. In altre parole: lavoro.

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[immagine dal sito linkato; logo blog “Scuola di Vita” © Corriere.it]

Vaghe stelle dell’Orsa – Leopardi a scuola

Soprattutto quello che di Leopardi a scuola non si legge. Una bella scoperta … per gli studenti.

Aspasia

Una professoressa deve cambiare scuola e lasciare – dopo 4 anni insieme – la sua IV liceo proprio nell’anno più importante: l’ultimo, l’anno della maturità. L’anno in cui si studia, si legge, si ama Leopardi. Cosa dovrebbe dire questa professoressa salutando i suoi alunni? Molte cose e tutte importanti. Ma fra tutte sente forte una responsabilità, urgente: dare un piccolo contributo per restituire a Leopardi una consistenza reale, di uomo vero, che sa ridere, divertirtisi, che prova rabbia e sa amare fortemente. Provare a rendergli quella verità umana che troppe volte gli viene sottratta dagli impietosi ritratti scolastici che ne fanno il “poeta depresso del pessimismo cosmico”.

Nella cuore della lettera di saluto ai ragazzi – tra ricordi condivisi, riflessioni e raccomandazioni – si sono così fatti largo dei testi assenti dai libri di scuola. Un piccolo e speranzoso viatico per leggere Leopardi con occhi più veri.

(…) In V…

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Fidenia: un social learning per le esigenze di docenti, studenti e genitori

Molto interessante.

Insegnanti 2.0

fideniaFidenia , nuovissimo prodotto in ambito digitale, nasce con un obiettivo giustamente ambizioso, quello di diventare il “ social learning ” di riferimento in ambito nazionale.
Realizzato da un giovane team tecnico che ha studiato attentamente le esigenze di docenti, studenti e genitori, Fidenia ha una grafica pulita e di piacevole impatto: una volta registrati gratuitamente (come docente, studente o genitore) si entra infatti nella home in cui compare la bacheca personale e la possibilità di accedere ad una serie di utilissimi servizi chiaramente indicati nelle barre in alto o in quelle laterali.
Le opzioni offerte dal social sono numerosissime:
– pubblicare uno stato, un file, un’immagine o creare una domanda
– selezionare la visibilità dei propri post (pubblica, solo collegamenti, personalizza)
– creare un corso o un gruppo
– stabilire collegamenti con altri iscritti
– aggiungere risorse (cartella, file, link, pagina)
– inserire un evento nel proprio calendario personale

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Liber Liber: l’ONLUS e la libera circolazione della cultura.

Ho inserito questo sito fra i “link utili per chi studia” del mio blog. Comunque ci sono tanti altri siti che propongono gratuitamente opere integrali della letteratura italiana e straniera.

Italia, io ci sono.

Quando uno legge Liber Liberha ben pochi dubbi su quali possano essere i fini della ONLUS che porta questo nome. L’organizzazione, fondata nel 1994, si occupa della diffusione della cultura e ne promuove l’accessibilità in maniera libera. Questo significa che diverse opere multimediali come libri, audiolibri, video o musica, sono scaricabili dal sito e fruibili liberamente.

Perchè Liber Liber è importante? Innanzitutto perchè non ha scopo di lucro e il negozio online viene utilizzato per autofinanziare il progetto, ma sopratutto perchè è un’iniziativa che sfrutta al massimo potenzialità di internet. La filosofia che la manda avanti viene applicata fino nella scelta del formato dei file di testo: il formato libero .odt e l’ubiquitario .pdf.

L’invito è quindi quello di addentrarsi nel loro piacevole sito e scaricarsi qualche romanzo o poema che si è sempre desiderato leggere. La lettura potrà avvenire in seguito senza preoccuparsi di DRM (il complicato…

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STUDENTE 16ENNE MUORE IN UN INCIDENTE. IL PROF: “MEGLIO COSÌ”

la disperazioneFaccio una premessa: trattandosi di un articolo di cronaca e non conoscendo i fatti, mi fido di quanto riportato dalla testata Il Piccolo. Se il fatto è stato riportato fedelmente, c’è da chiedersi a chi vengono affidate delle giovani menti che, oltreché cultura, chiedono soprattutto comprensione e una guida nel difficile cammino della vita.
Dal fatto di cronaca è nata una riflessione che mi fa piacere condividere con i lettori.

Il fatto.
Davide Zamparelli, un sedicenne che abitava in un paese del Friuli, è deceduto qualche giorno fa in un incidente con la moto. Una giovane vita troncata nel fiore degli anni. Una notizia che ha provocato sconcerto nella piccola comunità e profondo dolore alla famiglia, agli amici e ai compagni di scuola.

Il commento del prof.
Uno degli insegnanti di Davide, che frequentava la scuola media “Perco” di Lucinico (Gorizia), avrebbe commentato così la tragica fine del ragazzo: «È meglio che sia morto, così ha evitato altre delusioni dalla vita».
Un commento cinico che si può spiegare, almeno facendo una congettura, in questo modo: Davide aveva sedici anni e frequentava la scuola media, quindi doveva essere stato bocciato e, si sa, chi non ce la fa alle medie non è uno studente modello. Da qui la “delusione” cui fa riferimento il prof nel suo infelice commento. Dunque, secondo la visione di quel docente, la vita di Davide non avrebbe mai potuto essere segnata dai successi, né a scuola tanto meno nel mondo del lavoro. Insomma, un fallito senza futuro. Meglio morire, certamente.

Solo una congettura.
Ovviamente la mia è solo una ipotetica spiegazione di ciò che può essere passato nella mente di quel docente. Una spiegazione che, qualora sia azzeccata, deve far riflettere.
La scuola è realmente una parte importante nella vita di tutti. Ma non tutti sono tagliati per la scuola e molto spesso non è l’indolenza, come pensiamo, a determinare un fallimento nel percorso scolastico dei giovani. Molte volte il dito deve essere puntato sull’insegnamento e sugli scopi (non obiettivi, quelli lasciamoli alla programmazione annuale) che ci prefiggiamo quando sediamo in cattedra.
Trasmettere contenuti, verificare le conoscenze, le competenze e le abilità, svolgere rigorosamente i programmi ministeriali … sono questi gli unici scopi che ci prefiggiamo?

Gli studenti sono innanzitutto persone.
Con le loro fragilità, i loro interrogativi sulla vita, i loro punti di forza, perché no, ma anche la loro autostima che spesso è proprio bassa, i dubbi sul loro operato, le incertezze sul futuro, le domande che si pongono su ciò che fanno, ciò che potrebbero fare, ciò che vogliono fare ma non possono.
Insomma, abbiamo davanti persone non solo studenti. E abbiamo davvero il tempo di pensare a loro come persone? O sono solo numeri su un registro, in cui diligentemente annotiamo le assenze e i voti?

Insegnare è sempre più difficile.
Forse dovremmo chiederci, noi prof, quanto tempo dedichiamo a loro, parliamo con loro della vita, di quanto sia preziosa, da non buttare via. Noi che ogni mattina ci troviamo seduti in cattedra e ci arrabbiamo se gli studenti arrivano in ritardo o se non hanno i libri oppure hanno dimenticato di fare i compiti. Noi che minacciamo la nota sul libretto perché le regole devono essere rispettate, perché non si può dire mille volte le stesse cose e non essere ascoltati … già, noi pretendiamo di essere ascoltati, ma quando ascoltiamo loro? Durante le interrogazioni. Ma quelli che abbiamo davanti in quel momento sono gli studenti, e le persone?
Ci chiediamo mai se soffrono, se dono delusi, se innamorati, felici di vivere l’età più bella? C’è chi, commentando la Canzone di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico (quella che inizia con: Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza), mi ha detto: “macché bella e bella, dobbiamo studiare sempre, spesso con risultati deludenti, siamo sempre sotto pressione, facciamo un compito e l’indomani abbiamo già dimenticato tutto perché dobbiamo resettare il cervello e ricominciare con un’altra materia”. Ecco come vedono la scuola gli studenti (e non sto parlando affatto dei mediocri): una vera tortura, peraltro inutile.

Ecco, a me sembra che la “logica” di quell’insegnante non sia in fondo sbagliata, pur essendo la battuta biasimabile. Si è calato nelle vesti dei ragazzi e ha pensato che se la vita dev’essere soprattutto una delusione continua, tanto vale non viverla. Non si è chiesto, però, di chi è la colpa.

Io me lo chiedo ogni giorno.

IMMIGRAZIONE: A SAN DANIELE DEL FRIULI UNA SCUOLA PER IMPARARE L’ARABO

Dopo la bella iniziativa di un gruppo di albanesi residente a Trieste, che ha istituito un corso di lingua per i bambini affinché conoscano l’idioma dei genitori (ne ho parlato QUI), una proposta simile arriva dalla città friulana più famosa al mondo (per i prosciutti!): San Daniele. Questa volta, però, la tutela è rivolta alla lingua araba, vista anche l’alta percentuale di immigrati di tale etnia nella cittadina del prosciutto.

Per ora c’è solo il progetto: istituire una scuola di lingua araba per i figli degli immigrati islamici che durante la settimana continuerebbero a frequentare normalmente medie ed elementari per poi ritrovarsi, volontariamente, sui banchi di scuola la domenica, o alternativamente un pomeriggio alla settimana, per studiare l’arabo. Così si legge sul quotidiano friulano Messaggero Veneto. Per realizzarlo si sta cercando di unire le forze, in modo che istituzioni e cittadini stranieri diano ognuno il proprio contributo: «La scuola si farà carico della parte didattico-culturale, il Comune di mettere a disposizione i locali, le famiglie del costo degli insegnanti», spiega il Dirigente Scolastico Silvano Bernardis, secondo il quale l’iniziativa ha un duplice scopo: oltre a quello di far apprendere ai piccoli figli degli immigrati la lingua dei padri, la possibilità di promuovere l’aggregazione tra gli immigrati stessi.

Sempre Bernardis spiega: «Spesso vivono una situazione di isolamento e di difficoltà anche nell’affrontare le più basilari situazioni quotidiane. Da questo punto di vista la scuola potrebbe fungere da luogo di confronto e scambio d’informazioni, un luogo d’inclusione insomma, il cui portato sociale sarebbe altrettanto importante che quello didattico».

Inoltre, la scuola, che potrebbe avere un bacino di utenza di circa una cinquantina di bambini, di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, secondo il DS Bernardis potrebbe anche arginare il fenomeno delle assenze, a volte molto prolungate, degli stranieri che frequentano le scuole cittadine. I piccoli, infatti, spesso sono costretti a seguire la famiglia che rimpatria per qualche tempo. «Avviare una scuola di arabo qui in Friuli – conclude Bernardis – potrebbe funzionare anche da deterrente rispetto a queste partenze improvvise, un modo per stabilizzare la presenza degli alunni e delle famiglie».

Spero che questo lodevole progetto vada in porto perché l’integrazione culturale è senz’altro facilitata se chi ospita dimostra interesse per la cultura e la lingua di chi viene ospitato.

[immagine da questo sito]