MI SCUSI, SIGNORA GIANNINI, IL MIO ENTUSIASMO DI DOCENTE NON SI È SPENTO PER VIA DELLO STIPENDIO

giannini
Insegno da 30 anni e sono di ruolo dal 1986. Quando ho avuto in mano il primo cedolino dello stipendio da docente a tempo indeterminato (pure il ruolo c’è stato tolto, almeno aveva una qualche parvenza di conquista) era il 27 settembre 1986: 960mila lire. Tanto? Poco? Se considero che ci avrei pagato l’affitto per tre mesi, sarebbe come dire che oggi dovrei guadagnare più o meno 3mila euro. Siamo molto ma molto lontani e non dite che gli affitti sono aumentati vertiginosamente. E’ il nostro stipendio ad esser calato mostruosamente in rapporto al costo della vita.

Non so perché ma, pur avendo studiato come una matta e ottenuto un posto di ruolo (seppur in un paesino sperduto di montagna a due ore di viaggio da casa) meritato, visto che non ho avuto raccomandazioni di sorta, con quel cedolino in mano – che pure non era il primo avendo alle spalle un bel periodo di supplenze – mi sembrava quasi che quei soldi fossero un regalo. Eppure me li ero strasudati.

Avevo l’età in cui oggi più o meno uno studente finisce la laurea triennale, ero sposata da un anno e facevo progetti per allargare la famiglia. Con un posto di ruolo e due stipendi si poteva fare. I soldi sarebbero bastati? Avremmo avuto bisogno di una baby sitter e poi i bambini costano, specie nei primi anni di vita. I soldi non sono mai stati importanti per me. Ce la saremmo cavata.

Andavo su e giù cinque giorni alla settimana, quando andava bene ritornavo a casa alle 15, quando andava male alle 18, in più mi fermavo al pomeriggio quando c’erano le riunioni. E a casa mi aspettavano le lezioni da preparare, i compiti da correggere, un altro concorso da superare. 960mila lire al mese erano il giusto compenso per tanta fatica, tanti sacrifici? Non ci ho mai pensato.

Ho cresciuto due figli, affrontato altri concorsi, raggiunto l’obiettivo di insegnare al liceo, conquistato finalmente una sede comoda, vicina a casa.
Le mie giornate erano divise tra lezioni a scuola, compiti a casa con i figli, doveri di madre e moglie, doveri d’insegnante con il lavoro da svolgere nel pomeriggio e anche di notte. Nel tempo ho visto crescere lo stipendio fino a sfiorare i 2 milioni di lire, poco prima dell’avvento dell’euro. Poi è come se il tempo si fosse fermato ma le spese no, aumentavano sempre più e i soldi che portavo a casa non erano poi così tanti. Ma non ci pensavo.

Ho trascorso anni a scuola di pomeriggio. Partecipavo a tutti i progetti, assistevo ai corsi di formazione e aggiornamento, preparavo materiali didattici assieme alle colleghe per trovare strumenti innovativi. Ero sempre fuori eppure anche a casa il lavoro non mancava. Una volta una collega mi chiese: “Ma tu non hai una famiglia, dei figli piccoli?” Domanda retorica, non voleva risposte, era, anzi, una sorta di rimprovero come dire “Ma che stai a fare qui con tutti gli impegni che hai a casa?” Mi fermai a riflettere. Forse aveva ragione, avrei dovuto dedicare più tempo alla casa, al marito, ai figli. Nemmeno in quella occasione lo stipendio mi era sembrato poca cosa rispetto all’impegno profuso.

Ad un certo punto, dopo anni di volontariato (tutto ciò che facevo in più a scuola non era retribuito oppure lo era in modo ridicolo), per la prima volta pensai allo stipendio. Mi fermai ma non perché fossi demotivata dalle magre entrare. Avevo capito una cosa: la nostra disponibilità a lavorare gratis ci aveva fatto cadere nella trappola. Se gli insegnanti, seppur mal pagati e non retribuiti per le ore straordinarie, lavoravano ugualmente perché avevano una coscienza e amavano la propria professione, perché avrebbero dovuto essere pagati meglio?

Ho detto basta. Da quel dì ogni attività aggiuntiva doveva essere retribuita, altrimenti non avrei fatto nulla di più di ciò che ero obbligata a fare per contratto. Ho iniziato a selezionare le cose che mi piaceva fare e per le quali avrei ottenuto un riconoscimento economico. Era giusto che venisse riconosciuta la professionalità acquisita. Se avessi continuato a fare tanto e gratis avrei convinto chi si aspettava da me un certo impegno che il mio operato non avesse alcun valore. La mia professionalità sarebbe stata salva dicendo dei no. Mi sarei dedicata esclusivamente alla didattica in classe, migliorando le mie prestazioni in quel determinato contesto. Avrei fatto di meno ma meglio, l’indispensabile ma qualitativamente buono.

Eccomi giunta al perché di questa riflessione.
Il ministro Giannini dice che gli insegnanti sono demotivati perché pagati poco. Una considerazione che probabilmente è condivisa da chi non insegna e dai quei pochi che davvero fanno il minimo sindacale o anche molto meno. Ma non può essere condivisa dalla maggior parte dei docenti che sanno cosa significhi insegnare oggi. Gli insegnanti non sono mai stati strapagati eppure l’opinione pubblica non era compatta nell’asserire che per quel che fanno hanno uno stipendio quasi regalato e un numero infinito di giorni di vacanza. Ecco, forse è questa la cosa su cui dovremmo riflettere. Cos’è cambiato negli anni nel nostro lavoro se non è questione di soldi?

Glielo spiego io alla signora Giannini.

In modo sintetico cercherò di esporre i motivi di una eventuale (non è detto che sia così diffusa) demotivazione degli insegnanti:

1. i bambini e i ragazzi sono viziati e difesi a spada tratta dai genitori (anche quando si difende l’indifendibile)

2. l’educazione dei pargoli, fondamentale per instaurare un clima di collaborazione all’interno delle classi, vacilla notevolmente, sicché si perde più tempo nell’attività educativa e formativa piuttosto che in quella prettamente didattica

3. la preparazione dei discenti, nel passaggio da un ordine e grado di scuola ad un altro, è sempre più scadente, il che implica una notevole perdita di tempo nel recupero e consolidamento dei prerequisiti … e si rimane indietro con i programmi

4. la promozione sembra essere diventata un diritto acquisito all’atto dell’iscrizione, i debiti formativi e/o le bocciature sono considerati un affronto diretto alla famiglia che reagisce a volte in modo sconsiderato inibendo un rapporto scuola-famiglia più costruttivo

5. le classi sempre più affollate rendono impossibile una didattica individualizzata, costringendo, loro malgrado, i docenti a fare delle scelte: seguire i più deboli a scapito delle belle menti o svolgere un’attività didattica che tenga conto di queste ultime lasciando indietro chi è in difficoltà

6. la riforma della scuola, mirata esclusivamente e dichiaratamente ai tagli, ha prodotto solo danni (difficoltà nel gestire le classi, come al punto 5, nello svolgere i programmi rimasti smisurati ma relegati in un numero minore di ore, solo per fare due esempi)

Potrei aggiungere tanto altro ma mi fermo qui. Il clima di malumore che serpeggia nelle scuole ormai sta deteriorando la nostra professione, forse irrimediabilmente. Ma non è una questione di soldi, non solo. Pare che il Presidente del Consiglio Renzi non abbia intenzione di rinnovare i contratti dei dipendenti pubblici, quindi anche il nostro, fino al 2020. E intanto l’indennità di vacanza contrattuale (per me circa 13 euro al mese) da provvedimento provvisorio rischia di diventare permanente.

Signora Giannini, lo ripeto, non è una questione di soldi. È questione di DIGNITÀ e RISPETTO per il nostro lavoro.

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Da piccola preferivo parlare ... oggi mi piace scrivere

Pubblicato il 14 aprile 2014, in docenti, Lavoro, scuola con tag , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 7 commenti.

  1. Non avrei saputo dirlo meglio, un applauso a te!
    E tenga a mente, la signora Giannini che dignità e professionalità non sono in vendita, ma hanno un valore che va riconosciuto e che si colloca al di là della questione “stipendio”!

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  2. Nella tua storia rivedo quella di tante bravissime colleghe con famiglia, nel tuo stato d’animo quello che mi ha indotto ad andare in pensione a 60 anni.Spero che questo tuo bellissimo post arrivi fino alla Ministra! L’unico pericolo è che si decida che persone come te vanno tenute nella scuola fino ad 80 anni!

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    • Scusa, lilipi, se rispondo con notevole ritardo.
      Ti ringrazio per la stima che manifesti nei miei confronti, sempre da me molto gradita.
      Sì, il rischio è quello di farci rimanere in cattedra fino a 80 anni ma, come spiegavo nell’articolo scritto per il Corriere.it, credo che la nostra esperienza possa essere utile anche svolgendo altre mansioni, come tutoraggio e formazione. O almeno ci dovrebbe essere concesso di alternare attività didattica in classe e svolgimento di altre funzioni. Dello stesso avviso è il dott. Lodolo D’oria che da anni si occupa dello Stress Lavoro Correlato e di inidoneità dei docenti. Ecco, piuttosto che indirizzare i docenti inidonei allo svolgimento di mansioni solitamente svolte dal personale Ata, come prevede l’attuale legge, sarebbe auspicabile dare ad essi la possibilità di rimanere nell’ambito didattico.

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  3. Sarebbe una soluzione intelligente ed utile per la Scuola, quindi quasi sicuramente non sarà adottata

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