Dante e il vero Amore

di Donato Pirovano

LEZIONE CESANO BOSCONE 18 GIUGNO 2010
dante e beatrice

Al centro del suo poema, nei canti XVI, XVII e XVIII del Purgatorio, con un perfetto e bilanciato gioco di rapporti numerici che – come le linee di forza di una cattedrale gotica – organizzano e armonizzano l’intero edificio, Dante inserisce l’idea guida, che poi è il filo conduttore dell’intera Divina Commedia, quella che l’amore è il principio creatore e l’energia vitale dell’intero universo, e che il senso della vita dell’uomo e il suo stesso destino dipendono dal suo modo di amare.

«Né creator né creatura mai»,

cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,

o naturale o d’animo; e tu ’l sai». (Purg., xvii 91-93)

Così Virgilio. Dante lo sa – e infatti l’aveva già trattato nel Convivio, III 3 1-11 –: l’amore naturale è presente in ogni creatura, perché Dio è amore e per amore ha creato ogni cosa. Questo amore assume forma diversa nei diversi gradi dell’essere ed è il loro principio vitale: così gli elementi fondamentali, cioè terra, acqua, aria e fuoco, tendono verso la loro sede naturale, così i minerali «hanno amore allo luogo là dove la loro generazione è ordinata» (Conv., III 3 3), così le piante crescono e si sviluppano nei terreni più adatti, così nell’animale c’è la misteriosa sicurezza dell’istinto che guida lo svilup­po della vita. Anche l’uomo possiede questa forza interiore che, in quanto naturale e innata, è sempre senza errore, ma l’essere umano – che ha in più e come sua peculiarità intrinseca l’anima razionale infusa direttamente da Dio (Purg., XXV 61-78) – possiede anche l’amore «d’animo», cioè d’elezione. Creato a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo ha la capacità di amare per scelta, e dunque ha la libertà di decidere il proprio destino, orientando verso il bene o verso il male questa forza innata.

Libertà e amore sono l’essenza divina, e la creazione è l’esito non di una necessità ma di un atto d’amore gratuito (creazione degli angeli: Par., XXIX 13-18):

Non per aver a sé di bene acquisto,

ch’esser non può, ma perché suo splendore

potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,

in sua etternità di tempo fore,

fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,

s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

[Dio, non per avere un accrescimento di bene per sé, il che sarebbe impossibile a Lui bene infinito, ma affinché lo splendore, cioè le cose create improntate della sua idea, potessero affermare la propria sussistenza, la gioia di sentirsi esistere ricevendo la sua luce, nella sua eternità e fuori del tempo e di ogni altra realtà che lo comprenda, con un atto spontaneo della sua volontà, si aprì in nuove creature partecipi del suo amore (gli angeli).]

E alla creazione compartecipano le tre persone che formano la Trinità, i cui rapporti si fondano sul reciproco amore (Par., X 1-6):

Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore

quanto per mente e per loco si gira
con tant’ ordine fé, ch’esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira
.

[Dio, potenza prima e ineffabile, guardando nella Sapienza del Figlio e unitamente operando con lo Spirito Santo che il Padre e il Figlio spirano eternamente l’uno verso l’altro (perché procede da entrambi), creò tutto ciò che si muove per opera delle intelligenze angeliche, con tanto ordine che, colui che contempla ciò, non può fare a meno di godere di questo valore.]

Nella Trinità lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio, è l’Amore che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre; nello stesso tempo è la loro conoscenza reciproca.

Dunque, creato a immagine e somiglianza di Dio, anche l’uomo possiede, come doni altissimi del suo creatore, che «si volge lieto / sovra tant’ arte di natura» (Purg., XXV 70-71), la libertà, vale a dire la facoltà di scegliere liberamente ciò che desidera, e l’amore, che è «moto spiritale» (Purg., XVIII 32), il quale può orientarsi in direzioni diverse, ma che, se ben guidato, tende esclusivamente al sommo bene, che è lo stesso Dio. Così Beatrice, nel canto quinto del Paradiso, spiega a Dante i due maggiori doni che la divinità ha elargito all’essere umano (Par., V 19-24):

Lo maggior don che Dio per sua larghezza

fesse creando, e a la sua bontate

più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

fu de la volontà la libertate;

di che le creature intelligenti,

e tutte e sole, fuoro e son dotate.

[Il maggior dono che Dio per sua liberalità infinita facesse, e il più conformato alla sua bontà, e che egli più apprezza, fu il libero arbitrio, del quale le creature intelligenti (angeli e uomini), tutte e solo loro, furono e sono dotate.]

E in precedenza (Par., V 7-12):

Io veggio ben sì come già resplende

ne l’intelletto tuo l’etterna luce,

che, vista, sola e sempre amore accende;

e s’altra cosa vostro amor seduce,

non è se non di quella alcun vestigio,

mal conosciuto, che quivi traluce.

[Io vedo chiaramente come ormai risplende in te la luce della Verità eterna di Dio, la quale una volta vista, essa sola e sempre accende amore verso di essa nella mente umana; se qualche altro oggetto terreno seduce il vostro amore, non è se non alcuna ombra dell’eterna luce, che in quest’oggetto traspare, mal riconosciuta come parvenza della luce divina.]

La carità è ciò in cui più risplende l’immagine divina nell’uomo. Essa, dono di Dio attraverso lo Spirito Santo, ci rende in qualche misura partecipi dell’amore che unisce il Padre, il Figlio e lo stesso Spirito nella Trinità, come abbiamo visto nei già ricordati versi di Par., X 1-6. Quando, infatti, la grazia dello Spirito discende nell’uomo, suscitando in lui l’amore per Dio, essa fa sì che l’uomo ami il suo creatore con lo stesso amore con il quale Dio ama se stesso e le altre due persone nel mistero inaccessibile della Trinità: il mistero resta inaccessibile, ma la caritas è una scintilla di quell’amore, e dunque in un certo senso lo rende visibile e reale anche nella vita terrena dell’essere umano. Ed è questo vero Amore che permette di raggiungere il fine del viaggio dantesco, quello di ritrovare in Dio la somiglianza originaria.

Dante dunque mette a frutto un pensiero fondamentale della filosofia medievale, che traspare già in Agostino e in Dionigi Areopagita, ma che poi si manifesta più compiutamente nella teologia mistica cistercense e vittorina e che di seguito ha i suoi sviluppi anche nelle opere dei grandi maestri francescani e dei filosofi domenicani del XIII secolo: l’uomo è un soggetto «intrinsecamente, ontologicamente amoroso».

Riconosciuta la centralità dell’amore, occorre specificarne la vera natura, perché, come spiega Virgilio, non «ciascun amore» è «in sé laudabil cosa» (Purg., XVIII 36). Se infatti è sempre buona l’attitudine innata all’amore, non sempre è virtuosa la sua attuazione (Purg., XVIII 37-39):

però che forse appar la sua matera

sempre esser buona, ma non ciascun segno

è buono, ancor che buona sia la cera.

Secondo Dante sbagliavano dunque quei maestri, o sedicenti tali, che pur essendo ciechi avevano creduto di farsi duci (Purg., xviii 18): falsi maestri che avevano sostenuto la forza irresistibile e irrefrenabile della passione d’amore. Alla sorgente di questa pericolosa teoria scorrono le parole di Andrea Cappellano:

Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri.

[L’amore è una passione innata che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro, e nell’amplesso realizzare concordemente tutti i precetti d’amore.]

Così il misterioso autore aveva iniziato il suo trattato De amore, che – composto negli anni a cavallo tra il XII e il XIII secolo –, venne presto riconosciuto come il testo di riferimento della concezione dell’amor cortese, tanto da permeare di sé la letteratura erotica del Duecento, nonostante la solenne e pubblica condanna del libro pronunciata dal vescovo di Parigi Étienne Tempier il 7 marzo 1277. Di quelle idee si era anche impregnata la giovane poesia italiana e gli stessi poeti del tempo di Dante non ne erano rimasti immuni.

Agli occhi di Dante, però, ben più grave e perniciosa era la concezione espressa da quello che un tempo era stato ritenuto il primo dei suoi amici, colui al quale aveva dedicato l’opera più significativa della sua giovinezza anagrafica e poetica, la Vita nuova. Era stato proprio Guido Cavalcanti, infatti, che aveva perentoriamente sostenuto nella canzone Donna me prega che l’amore è una passione accidentale dell’appetito sensibile e che agisce in modo irresistibile e travolgente tanto da ottenebrare completamente la ragione: «l’amore è, per definizione, l’irrazionale assoluto, al punto che la sua inafferrabile natura è descrivibile solo per via fenomenica, quale somma delle sue potenzialità distruttive: distruttive nei confronti della conoscenza intellettuale prima di tutto, e poi della personale capacità di giudizio e del libero arbitrio e dell’equilibrio psicofisico dell’individuo incatenato alla violenta e frustrante dimensione del desiderio».

Ma dove conduce secondo Dante, il Dante della Commedia, questa concezione cavalcantiana dell’amore come intima forza autodistruttrice che ottenebra la parte più nobile e propria dell’essere umano? Alla «bufera infernal, che mai non resta» (Inf., V 31), eterno destino di coloro che hanno sottomesso la ragione al desiderio. E a dimostrarlo c’era l’appassionata e pietosa vicenda di Francesca, che ancora all’Inferno proclama quell’amore che ha condizionato la sua vita (Inf., V 100-108):

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.                             

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.                                

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.
Queste parole da lor ci fuor porte.

[Amore che fa presa, si accende immediatamente nel cuore nobile fece innamorare costui (Paolo) del mio bel corpo, della mia bellezza corporea che mi fu tolta (da Gianciotto); e l’intensità di questo amore fu tale che ancora mi vince, mi danneggia. Amore, che non consente, non permette) che uno che sia amato non riami, ricambi l’amore mi prese della bellezza di costui così fortemente che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amore condusse noi alla medesima morte; la zona della Caina, ove son condannati i traditori dei parenti, attende colui (Gianciotto) che ci uccise.]

Sono certamente parole piene di passione, che portano in filigrana un preciso codice culturale e letterario, è sì un discorso struggente – come tanti interpreti hanno letto, così da venirne sviati –, ma è anche l’esito di una concezione sbagliata che porta alla dannazione: quella passione irrefrenabile e irresistibile, ascrivibile proprio a quei falsi maestri che pur essendo ciechi si riconoscono il ruolo di duci, l’ha travolta per sempre.

Al centro esatto della Commedia Dante riserva dunque la sua risposta: la concezione cristiana dell’amore che si fonda sul principio dell’anima, creata una, unica e irripetibile dal suo creatore, un Dio che, come si è già detto, per amore si volge a tanta arte di natura, un Padre che la «vagheggia prima che sia» (Purg., XVI 85-86), cosicché questa alta e nobile individualità, che è realtà personale, è padrona di sé, ed è soprattutto libera da ogni forma di determinismo, astrale e psicologico.

Così Marco Lombardo, nel canto XVI del Purgatorio, rispondendo al dubbio di Dante sulla causa della corruzione del mondo, critica l’idea errata della predestinazione astrale introducendo l’idea fondamentale del libero arbitrio (Purg., XVI 73-78):

Lo cielo i vostri movimenti inizia;

non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,

lume v’è dato a bene e a malizia,

e libero voler; che, se fatica

ne le prime battaglie col ciel dura,

poi vince tutto, se ben si notrica.

[Le influenze celesti danno il primo impulso ai movimenti umani, alle azioni umane, e neppure a tutte; ma anche se io ammettessi che lo danno a tutte, vi è dato il lume della ragione per distinguere il bene o il male, ed anche il libero arbitrio di scegliere l’uno o l’altro. E questo libero arbitrio se dapprima ha difficoltà nel combattere gli influssi celesti e nel dominare gli impulsi naturali pericolosi, poi riesce a vincere tutto ciò, tutte queste difficoltà, se si nutre, se si fortifica nell’esercizio e nell’uso delle virtù.]

Il libero arbitrio è ciò che nell’uomo rappresenta l’immagine divina per eccellenza: l’uomo è stato creato «ad imaginem et similitudinem Dei» precisamente in quanto è stato dotato del libero arbitrio.

Allo stesso modo Virgilio, nel canto xviii del Purgatorio, rispondendo al dubbio di Dante circa la responsabilità dell’uomo, dissipa il determinismo psicologico insito nella concezione cortese dell’amore, e nella più recente teorizzazione di Guido Cavalcanti, secondo cui esso è una passione irresistibile e irrazionale (Purg., XVIII 70-75):

 Onde, poniam che di necessitate

surga ogne amor che dentro a voi s’accende,

di ritenerlo è in voi la podestate.

La nobile virtù Beatrice intende

per lo libero arbitrio, e però guarda

che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende.

[Per la qual cosa, ammettiamo pure che ogni amore di bene o di male, che si accende nell’animo vostro, sorga per necessità, per impulso naturale, in voi è sempre, permane, il potere, la facoltà di frenarlo, accogliendolo o respingendolo. Beatrice intende e chiama libero arbitrio la nobile virtù o facoltà della ragione, che regola l’umano operare; perciò bada di ricordartene se essa prende a parlartene.]

Sempre Virgilio, in un altro canto – anch’esso collocabile nella struttura portante di quell’architettura gotica che è la Commedia – aveva introdotto un altro tema decisivo, che avrà poi un ampio sviluppo nel Paradiso. Siamo nel canto xv del Purgatorio, e Dante chiede al suo maestro la spiegazione di certe parole, a lui rimaste oscure, di Guido del Duca sulla comunanza dei beni: come può esserci un bene – chiede Dante –, che, spartito tra molti possessori, faccia più ricchi che se posseduto da pochi?

La risposta di Virgilio, come è stato notato, «si solleva nell’ambito alto e splendente della realtà celeste» e, unica nel Purgatorio, anticipa i temi e le forme dei discorsi paradisiaci: l’amore, quanto più è partecipato, tanto più cresce, perché su ogni uomo che ama scende l’infinità dell’amore divino, e lo scambio moltiplica la quantità, come la luce riflessa tra gli specchi: «Le tre terzine in cui culmina tutto il discorso hanno il movimento ardente e circolare, denso di immagini luminose, proprio dei passi teologici del Paradiso; e il ritornare delle parole di luce – lucido, raggio, ardore, specchio – porta nell’aura quieta del secondo regno, proprio come l’apparire abbagliante degli angeli ad ogni gradino, lo sfolgorio dell’amore che sarà proprio dell’ultimo». Leggiamo dunque questi luminosi versi (Purg., XV 67-78):

Quello infinito e ineffabil bene

che là sù è, così corre ad amore

com’ a lucido corpo raggio vene.

 Tanto si dà quanto trova d’ardore;

sì che, quantunque carità si stende,

cresce sovr’ essa l’etterno valore.

E quanta gente più là sù s’intende,

più v’è da bene amare, e più vi s’ama,

e come specchio l’uno a l’altro rende.

E se la mia ragion non ti disfama,

vedrai Beatrice, ed ella pienamente

ti torrà questa e ciascun’ altra brama.

[Dio, infinito ed ineffabile bene che è lassù, nell’Empireo, si dona correndo incontro a chi lo ama, a quel modo che un raggio luminoso corre a un corpo lucido, capace di riceverlo e di rifletterlo. E si dona in tanto più larga misura quanto maggiore è l’ardore di carità e il desiderio dell’anima, sicché quanto maggiore è la carità con cui l’anima si rivolge a Lui, tanto più cresce proporzionalmente la potenza e la virtù di Dio su di essa. In altri termini: quanto più gli uomini amano Dio, tanto più copioso scende su di essi il dono divino, la perfezione della visione di Dio. Quanto maggiore è nell’Empireo il numero dei beati che si amano tra loro ed amano Dio oppure sentono amore, tanto più vi è ragione e materia da amare santamente e di più infatti essi amano, riflettendo gli uni sugli altri la loro beatitudine, come uno specchio riflette la luce nell’altro. Se il mio ragionamento non appaga la tua fame, il tuo dubbio, tu vedrai certamente Beatrice, verità rivelata, ed essa potrà soddisfare pienamente questo ed altri dubbi ed intellettuali desideri.]

Si può osservare come a conclusione di entrambi i discorsi di Purgatorio XVIII e XV, al centro dei quali c’è l’amore, Virgilio rimandi a Beatrice.

Facciamo un passo indietro ed esaminiamo allora il momento dell’incontro tra le due guide. Virgilio era tra coloro che son sospesi quando sentì il suo nome pronunciato da quella donna beata e bella. È una straordinaria novità che risuona in quel «primo cerchio che l’abisso cigne» (Inf., IV 24). Ce n’era già stata una molto tempo prima: era da poco in quel Limbo quando aveva visto «venire un possente, / con segno di vittoria coronato» (Inf., IV 53-54), ma in quell’occasione poté solo assistere al trionfo di Cristo e alla salvezza di alcuni che per breve tempo erano stati suoi compagni. Poi, per secoli, solo desiderio senza speranza. Ora quella donna del cielo chiama lui, Virgilio, e lo rende in un certo senso compartecipe di una nuova azione di amore gratuito, mossa da quel Dio che lui non aveva conosciuto e al quale non aveva creduto. Quel Dio d’amore, che «move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII 145), aveva mosso Beatrice, e lei era scesa in quel centro, da l’ampio luogo dove tornare ardeva, esclusivamente mossa d’amore: «amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inf., II, 72). Quell’uomo vivo, per il quale era invocato ora l’aiuto di Virgilio e che si trovava impedito nel cammino e impaurito nella deserta piaggia, era certo un lettore entusiasta della sua opera principale, ma nulla più. Altri prima di lui quell’Eneide l’avevano letta e commentata, altri ne avevano fatto il centro del loro insegnamento. Di fronte a questi quel Dante aveva acquisito solo il merito di una lettura assidua e appassionata. Ora, però, lui, Virgilio, era a sua volta mosso («Or movi»: Inf., II, 67) per salvare quell’uomo, e questa sua azione avrebbe consolato Beatrice («l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata»: Inf., II, 69), un vocabolo che a qualcuno (per es. Siro Chimenz) è parso troppo umano per una beata, ma che esprime «l’ansiosa sollecitudine – tutta pervasa di spirito di Carità – che anima Beatrice», una sollecitudine che poi si manifesta icasticamente nel particolare delicatissimo di quegli occhi lucenti bagnati di lacrime: «Poscia che m’ebbe ragionato questo, / li occhi lucenti lagrimando volse, / per che mi fece del venir più presto» (Inf., II, 115-117). Quella donna del cielo non teme di scendere dall’Empireo nel Limbo, non è toccata dall’infelicità né dalle pene eterne dei dannati, ma in quel Limbo le si illuminano gli occhi di lacrime. C’è una sola ragione di ciò: l’amore. Virgilio non aveva potuto vedere né aveva potuto credere al sublime atto d’amore di un Dio crocifisso per la salvezza dell’uomo, ma ora Virgilio assiste a una rinnovata azione di grazia. Una donna beata non solo si muove dall’Empireo, ma anche sparge lacrime per la salvezza di un vivo. È un amore che discende, agape, un amore disinteressato che parte dal cielo e che ha la sua ultima perfezione in cielo.

Sarà lui, Virgilio, a guidare Dante dalla deserta piaggia fino al luogo dell’incontro con Beatrice, in cima a quella montagna altissima che lui stesso non aveva mai percorso, e in questo viaggio con la sua «parola ornata» (Inf., II, 67) contribuirà a farlo compiutamente padrone di sé (per ch’io te sovra te corono e mitrioPurg., xxvii 142), così da affidarlo, al termine della sua missione, a quegli occhi belli che lagrimando lo fecero andare da lui; e come abbiamo visto, proprio in momenti particolarmente decisivi, sarà lui a gettare le basi del discorso sull’amore: ma il vero amore non può prescindere da Beatrice e dunque la prima guida in entrambi i passi esaminati di Purgatorio XVIII e XV conclude le sue parole rimandando a lei.

Beatrice appunto. Quando Dante, all’inizio del viaggio (Inf., II, 133-140), dissipa i suoi dubbi e decide di affidarsi definitivamente a Virgilio è perché ha percepito nelle parole di quell’ombra mandata in suo soccorso una verità indubitabile («a le vere parole che ti porse!»: Inf., II, 135): il racconto che Beatrice sia scesa dall’Empireo in suo aiuto è per Dante vero e credibile, perché fin dalla giovinezza quella donna gli apparve come un dono di Dio, come l’incarnazione del vero amore, la caritas, venuta da cielo in terra a miracolo mostrare. Si legga, tra i tanti brani che si potrebbero citare, questo passo della Vita nuova,XI, 1:

 Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m’avesse offeso; e chi allora m’avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione sarebbe stata solamente “Amore”, con viso vestito d’umilitade.

In Beatrice l’amore si manifesta nella sua forma più alta e nobile – e quindi necessariamente anche umile in senso cristiano –, cioè nella sua profonda natura divina. Tutta la Vita nuova può essere letta, come ha intuito Charles Singleton, come una progressiva rivelazione della vera natura dell’amore: lacaritas. Se l’amore per Beatrice è carità, significa che esso inizia e finisce in Dio. Il corso dell’amore è perciò come un cerchio: discende da Dio e a Dio risale attraverso Beatrice. Per questo motivo la svolta del libello, come Dante riconoscerà poi nella Commedia facendolo dire a Bonagiunta (Purg., XXIV, 49-63), è costituita dalle rime della loda. Esse rappresentano la fase della risposta d’amore disinteressata a un amore disinteressato: all’agape, l’amore discendente di Dio che si manifesta concretamente in Beatrice, Dante risponde con la lode disinteressata di Beatrice. Solo l’acquisizione di questa nuova concezione dell’amore e solo l’approdo a questo tipo di risposta poetica può comportare anche la morte della donna amata, inconcepibile per la tradizione precedente. Anche altri poeti come Guido Guinizzelli (cfr., per es., Io voglio del ver la mia donna laudare Vedut’ò la lucente stella diana) avevano scritto rime in lode della donna, ma quel tipo di lode si fermava alla donna, non implicava una dimensione trascendente che aveva il suo inizio e il suo fine in Dio. Beatrice invece è Amore, in lei si esprime compiutamente la carità creata.

Si trattò però per Dante di un’esperienza troppo presto dimenticata. Quando Beatrice, passando dalla vita terrena alla vita celeste, crebbe in bellezza e in virtù, Dante si smarrì dietro a false sembianze d’amore. Così Beatrice stessa lo accusa, quando i due si incontrano nel Paradiso terrestre (Purg., XXX, 121-141):

A Dante pare che Beatrice superi ora in bellezza quella donna che aveva conosciuto sulla terra, anzi la superi di più di quanto, viva, superava tutte le altre donne. Poco prima, all’apparizione di Beatrice, velata e avvolta nella nuvola di fiori che salivano e ricadevano dentro e fuori il carro, Dante «sanza de li occhi aver più conoscenza, / per occulta virtù che da lei mosse, / d’antico amor sentì la gran potenza» (Purg., XXX 37-39), sentì nuovamente la forza di quell’amore che lo aveva trafitto all’età di nove anni («prima ch’io fuor di püerizia fosse»: Purg., XXX, 42), tra l’altro un’età che, prescindendo dai valori simbolici del numero nove, era ritenuta dal Cappellano ancora acerba per l’amore. Ora, dopo la confessione, alzati gli occhi a quel viso ancora velato dal candido velo, a Dante pare che Beatrice vincesse «più se stessa antica» (Purg., XXXI 83). Prima l’agens sente la potenza ‘d’antico amor’, poi percepisce una bellezza che ora supera quella ‘antica’, che già nella vita terrena vinceva quella di tutte le altre donne: i medesimi aggettivi e le due costruzioni sintattiche, in cui si riconnette passato e presente, sono nuclei semantici fondamentali dell’episodio dell’incontro tra Dante e Beatrice che si compie nel Paradiso terrestre e che segna la definitiva trasformazione dall’amore passione alla caritas.

L’epifania dell’agape che, come si è visto, era già implicita nella Vita nuova non aveva determinato un percorso rettilineo e consequenziale, e Dante si era smarrito dietro false immagini di bene («imagini di ben seguendo false»: Purg., XXX, 131), quasi annullando quel momento di interiore perfezione ontologica che aveva inizialmente conseguito. Prima di raggiungere il Paradiso terrestre, il «luogo eletto / a l’umana natura per suo nido» (Purg., XXVIII, 77-78), l’agens deve quindi passare attraverso il fuoco dei lussuriosi espianti, un passaggio che si caratterizza come un vero e proprio rito di purificazione.

Questo rito segna l’inizio di un altro momento cruciale del viaggio dantesco. Si è visto come il poeta abbia volutamente collocato il discorso sull’amore al centro del poema, ma esso non esaurisce la sua valenza creativa, anzi le sue linee di forza si orientano proprio ai canti finali della seconda cantica, che stiamo esaminando, dove avviene l’incontro tra Dante e Beatrice. Il significato globale dell’episodio è quello «d’un ben preciso recupero ontologico». La scena è complessa e ricca di significati simbolici, ed è costruita con grande finezza: è come se Dante avesse immaginato l’intera Commedia per questo incontro, ed esso risulta decisivo nella genesi e nell’economia di tutto il viaggio. Dante in cammino verso l’amore infinito incontra il suo amore di un tempo: «L’energia di purificazione e di liberazione di Beatrice resta dunque in fondo la sola; solo essa porta dall’eros all’agape, o è quell’eros che trasfigura se stesso in agape». L’amore si purifica e si trasfigura: da personale diventa sacramentale. Tutta la sequenza dell’incontro in cima alla montagna del Purgatorio assume dunque connotati ecclesiali e sacramentali, affinché la forza dell’amore personale sia definitivamente trasformata e connotata come caritas. Al rito partecipano l’intera Scrittura e l’ecclesia.

Significativo in proposito è il momento dell’avvento di Beatrice. Quando il sacro corteo si arresta dirimpetto a Dante, i ventiquattro seniori, che rappresentano i libri dell’Antico Testamento, si volgono verso il carro, e colui che impersona il Cantico dei Cantici, come un inviato celeste, grida cantando tre volte «Veni, sponsa, de Libano», su­bito imitato dagli altri (Purg., XXX, 10-12):

 e un di loro, quasi da ciel messo,

‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando

gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

Sono parole tratte dal biblico libro dell’amore, e sono tolte da un momento culminante del Cantico, il punto del terzo poema in cui lo Sposo, concludendo la sua lode delle bellezze del corpo della Sposa, la chiama a sé, ripetendo tre volte ‘veni’: «veni de Libano sponsa veni de Libano veni coronaberis» (Ct., 4 8).

La particolare matrice biblica dei versi fa sì che l’invito rivolto a Beatrice acquisti un «carattere squisitamente nuziale». Beatrice, che come si è visto già nella Vita nuova era stata percepita come Amore, ora discende nuovamente e si colloca sul carro che rappresenta la Chiesa trascinato dal grifone, simbolo di Cristo. In seguito, si compie una vera e propria liturgia, con precisi segni, formule e parole, al termine della quale Dante davanti alla sua mistica sposa, e nell’ecclesia, acquisisce nuovamente e definitivamente il significato del vero amore, l’agape, e dunque, reso «puro e disposto a salire a le stelle» (Purg.,XXXIII, 145), è pronto per l’ultima ascesa verso il regno del perfetto amore.

Il Paradiso è infatti la cantica del vero amore. «Deus caritas est» aveva scritto san Giovanni nella sua prima lettera (1 Io., 4 8): all’amore discendente di Dio, che è amore, l’uomo non può che corrispondere amando con quell’amore gratuito, e la risposta a Dio è una partecipazione all’agape divina. Nel Paradiso si compie la comunione nel segno della carità tra un Dio che dona il suo amore e un uomo che risponde, uscendo da se stesso e amando Dio più che se stesso. Il luogo mistico, senza coordinate spazio-temporali, di questa comunione d’amore è l’Empireo, il cielo di puro amore, che Beatrice così descrive in versi sublimi (Par., XXX, 38-42):

ricominciò: «Noi siamo usciti fore

del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:

luce intellettüal, piena d’amore;

amor di vero ben, pien di letizia;

letizia che trascende ogne dolzore.

[Noi siamo già usciti fuori del maggior dei cerchi corporali, cioè dal Primo Mobile, e siamo entrati nell’Empireo, nel cielo fatto di pura luce: luce spirituale, che è amore di vero bene e quindi letizia perfetta, letizia che supera ogni dolcezza.]

L’amore santo, o carità, è dunque la realtà suprema che Dante identifica col fuoco stesso dell’Empireo, come chiarisce anche nell’Epistola a Cangrande (Ep., xiii 68):

Et dicitur empyreum, quod est idem quod celum igne sui ardoris flagrans; non quod in eo sit ignis vel ardor materialis, sed spiritualis, quod est amor sanctus sive caritas.

[Ed è chiamato Empireo, cioè che brucia del fuoco del suo ardore; non perché in esso vi sia fuoco o ardore materiale, ma perché in esso v’è ardore spirituale, cioè amore santo, vale a dire la carità.]

Questo amore-carità celebra dunque la sua vertiginosa ascensione nel Paradiso. E infatti, come fa notare Guido Favati alla voce amore dell’Enciclopedia Dantesca (vol. I, pp. 230-236: 235), basterebbe l’osser­vazione di un indice di frequenza: la parola amore’ ricorre nell’Inferno 19 volte (di cui ben 7 nel canto di Paolo e Francesca), nel Purgatorio 50, nel Paradiso 85: si tratta di un crescendo che, tenendo conto delle zone in cui si manifesta, fa già di per sé presagire un accentuarsi delle accezioni spirituali e mistiche del termine; e sarà naturale attendersi un reiterarsi dell’espressione «primo amore» (presente già in Inf., III, 6, nell’iscrizione della porta dell’Inferno) a indicare Dio. Prescindendo poi dall’indice di frequenza numerica, il Paradiso è la cantica nella quale il termine figura con tutte le accezioni della teologia razionale e di quella mistica, dell’esperienza terrestre e di quella ascetica, che personalmente per Dante culmina nel suo finale inserimento nel moto stesso che, provocato dall’amore per Dio, sta all’origine della creazione e della vita dell’universo: «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, 145).

Questo amore carità – come la luce divina, «flusso inesausto che il viator ripercorre a ritroso», e che spesso lo vince riducendolo al silenzio e alla cecità – continuamente si irradia nel Paradiso, e traspare in ogni beato come splendore di gioia e come appagamento eterno dei suoi desideri. E a chiarire ciò è scelta significativamente, ai primordi dell’ascesa, Piccarda Donati, la quale proprio per la sua collocazione è il personaggio che può meglio rispondere al dubbio di Dante circa i gradi di beatitudine. Nella logica dell’amore gratuito si annulla ogni scala di misura umana. Ascoltiamo dunque lo spirito beato che nella sua risposta sembra ardere nel fuoco dell’amore divino (Par., III, 70-72):

«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

 

[Fratello, la virtù di carità (sogg.) appaga la nostra volontà, cioè la potenza dell’amore divino pienamente appaga ogni nostro desiderio.]

Questo amore, che arde soprattutto nell’Empireo, che è appunto il luogo di Dio, è però anche movimento metafisico, aspirazione del creato al sommo Valore e al Principio primo. Nel settimo capitolo del XII libro (1072b) della Metafisica, Aristotele scrive che il primo motore muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse:

 Movet autem ut amatum; moto vero, alia moventur. Si quidem igitur aliquid movetur, contingit et aliter habere. Quare latio, quae prima, et actus est secundum, quod movetur. Ex hac autem contingit aliter habere secundum locum, et si non secundum substantiam. Quoniam autem est quidem movens ipsum immobile ens, actu ens, hoc non contingit aliter se habere nullatenus. Latio enim prima mutationum; huius autem, quae circulo: hanc autem movet hoc. Ex necessitate igitur est ens, et necessitas bene, et sic principium. Nam necessarium toties: hoc quidem videtur quod propter impetum: illud vero sine quo non bene: hoc autem non contingens aliter, sed simpliciter. Ex tali igitur principio dependet caelum et natura.

[E muove come ciò che è amato; invece le altre cose muovono in quanto sono mosse. Dunque, se qualcosa è mosso, può essere diversamente da com’è. Di conseguenza, il moto locale, che è il primo tipo di traslazione, è anche l’atto di ciò che è mosso; da questo può essere diversamente secondo il luogo, anche se non secondo la sostanza. Ma poiché esiste un essere che muove pur essendo esso immobile ed ente in atto, tale essere non può essere in nessun modo diversamente da com’è. In effetti la traslazione è il primo dei mutamenti, e di questo il primo è quello circolare; e questo lo produce quello il primo motore. Perciò è un ente necessario, e necessariamente è il bene, e così è principio. Infatti il necessario ha le seguenti accezioni: questo sembra che lo sia per la violenza; quello ciò senza cui non è pos­sibile il bene; infine quello che non è possibile che sia diversamente, ma è necessario in assoluto. È dunque da un tale principio che dipendono sia il cielo sia la natura.]

In questa pagina si può trovare quanto di più impegnato, di più profondo e di più decisivo Aristotele abbia pensato e scritto sul Principio supremo di tutte le cose. È infatti un testo che, anche per il tramite dei commentatori e dei teologi, ha avuto ampia influenza sul pensiero cristiano e sulla filosofia medievale. Non è un caso allora se si possono individuare tracce dell’influenza di questo fondamentale capitolo anche nella Divina Commedia: a Par., xxviii 41-42: «Da quel punto / depende il cielo e tutta la natura», Dante traduce quasi letteralmente Aristotele; inoltre, in Par., i 76-77: «Quando la rota che tu sempiterni / desiderato»; in Par., XXIV, 130-132: «Io credo in uno Dio / solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, / non moto, con amore e con disio»; e in Par., XXVI, 37-39: «Tal vero a l’intelletto mïo sterne/ colui che mi dimostra il primo amore / di tutte le sustanze sempiterne» si possono riconoscere rimandi non proprio dissimulati allo stesso passo aristotelico.

Questo movimento cosmico non è però per Dante eros ascendente, come si potrebbe interpretare dalla pagina del filosofo greco, ma è agape. L’universo non è eterno. Infatti Dante crede che in principio ci sia stato un atto gratuito d’amore divino, la creazione, come si è già visto nel passo di Par., XXIX, 13-18. Donandosi, l’amore di Dio desta il desiderio di un dono di risposta. Il movimento cosmico dei cieli è dunque una risposta d’amore a quel primo amore. I cieli sono infatti mossi dalle Intelligenze angeliche e dunque in possesso di una vita psichica, senza la quale non si può amare. Nella cosmologia dantesca, più che a forze cosmiche si può pensare allora a un personale rapporto d’amore. L’amore cristiano è infatti l’amore del Dio personale, come scrive san Giovanni nella sua prima epistola (1 Io., 4 10): «in hoc est caritas non quasi nos dilexerimus Deum sed quoniam ipse dilexit nos et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris». Dunque tutte le creature si muovono per amore, un amore non necessario, ma libero. «L’amore cristiano è radicalmente l’amore del Dio personale. Esso va innanzitutto ed essenzialmente dall’alto verso il basso, perché Dio ama la sua creatura. […] E questo non per necessità di parteciparsi, ma in per­sonale libertà. Quanto alla creatura, essa non rap­presenta una semplice onda in una corrente metafi­sica, la sola ad essere essenziale, ma è costituita li­bera in una propria realtà personale. È creata e pene­trata da Dio, ma da Lui rispettata. Non è affatto ciò che in certo qual modo potrebbe sembrare fatalità, o addirittura tentazione e caduta del divino, ma è creata da Dio e affermata nella gioia».

Ogni creatura dotata di anima razionale, dalla più alta alla più bassa, è libera: questa libertà in origine si rivelò nella ribellione del serafino Lucifero e degli altri angeli che lo seguirono, e poi nel peccato originale dell’uomo e della donna.

Nell’uomo tale movimento d’amore diviene libero per la grazia. La grazia non distrugge il libero arbitrio, né il libero arbitrio diminuisce la grazia perché essa opera nel libero arbitrio. Dante è il segno di questa grazia: accompagnato dalla donna che amò nella sua giovinezza egli taglia verticalmente l’ordinata circolarità delle sfere planetarie. Il vero amore (agape), che ora possiede compiutamente, è l’energia che lo spinge fino all’Empireo, il cielo di pura luce e amore (Par., X 82-87):

E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
lo raggio de la grazia, onde s’accende
verace amore e che poi cresce amando,

multiplicato in te tanto resplende,
che ti conduce su per quella scala
u’ sanza risalir nessun discende;

[Dentro ad uno di quei soli sentii cominciare questo discorso: Poiché la luce della grazia divina, da cui viene acceso nel cuore dell’uomo l’amore vero di Dio, e che, il quale raggio, poi s’accresce quanto più cresce l’amore di Dio, cioè nell’esercizio dell’amore, risplende in te così moltiplicata che ti conduce e ti guida su per la scala del cielo, dove, dalla quale scala nessuno discende senza poi risalire.]

Chi parla qui è san Tommaso che Dante incontra nel cielo del Sole. Egli riconosce nel pellegrino celeste il raggio della grazia, da cui si accende il vero amore, un amore che cresce sempre più quanto più si ama, e che conduce di cielo in cielo fino all’Empireo. Ma per Dante questa grazia e questo amore non sono possibili senza Beatrice, anzi sono in Beatrice. Si chiede von Balthasar:

Perché un cristiano non dovrebbe poter amare una donna per tutta l’eternità e non poter farsi introdurre da una donna nella pienezza di ciò che si chiama «eternità»? E perché dovrebbe essere strano che un amore simile pretenda di coinvolgere, in vista del proprio adempimento, tutta intera la teologia, e il paradiso, il purgatorio e l’inferno? Non dovrebbe essere invece proprio questa la cosa più attendi­bile?

La risposta è decisiva per comprendere il senso del vero amore e della stessa concezione che Dante ha del cristianesimo:

Si potrà fin che si vuole avvolgere di punti di domanda la reale figura di Beatrice e la stessa reale vita d’amore di Dante per lei: il principio è comunque posto e per la prima volta e mai più in seguito riaffermato in modo così grandioso: che, cioè, il cristiano per amore dell’amore infinito non ha bisogno di buttar via un amore finito, ma lo può positivamente assumere e inserire in quello infinito.

Dunque, l’indicibile grazia, che Dante un giorno incontrò sulla terra in Beatrice, era veramente il trasparire di quell’eterna grazia che per prima ha amato l’uomo dall’eternità. Quel mistero d’amore (agape) gli si rivela progressivamente nella sua vera natura, diviene pieno possesso nella forma sacramentale, si compie nel cielo di pura luce e di amore santo.

Leggiamo allora i versi che immediatamente precedono l’arrivo all’Empireo (Par., XXX, 16-21):

Se quanto infino a qui di lei si dice

fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.

La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.

[Se tutto quello che fin qui è stato detto di lei fosse raccolto in una sola lode, questa sarebbe insufficiente ad adempiere l’ufficio, il compito di parlare degnamente della sua divina bellezza. La bellezza di Beatrice, quale allora mi apparve, non solo trascende la misura al di là di ogni intelletto umano, ma certamente io credo che, anche in paradiso, non può esser compresa interamente e compiutamente goduta se non da Dio solo.]

Dante guarda Beatrice, ma la bellezza di lei è così sovrumana, che il poeta dichiara la sua impotenza a descriverla. Da quando la vide la prima volta fino ad ora le parole sono state sufficienti a rappresentarla: ora è costretto a rinunciarvi. Solo Dio può goderla appieno.

Facciamo un piccolo passo avanti nel cielo fuori dal tempo e dallo spazio, l’Empireo. Il viaggio attraverso i tre regni dell’aldilà sta volgendo al termine, quel viaggio esistenziale, profetico e poetico, che non casualmente termina quando termina l’esistenza umana del poeta. Quasi tutto è stato visto: gli occhi di Dante hanno compreso «la forma general di paradiso» (Par., xxxi 52). L’agens si gira per chiedere a Beatrice e vede un sene, san Bernardo, anch’egli ‘mosso’ per portare a compimento il desiderio del pellegrino celeste. Dante ha un momento di smarrimento. Poi chiede (Par., XXXI 64-93):

 E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;               

e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».            

Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.                     

Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona,

quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.     

«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,                  

di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.                  

Tu m’ hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
che di ciò fare avei la potestate.                

La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi».           

Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.

San Bernardo invita Dante ad alzare gli occhi per vedere la sua donna nel suo luogo eterno. Egli dunque solleva lo sguardo e la vede nel suo seggio, illuminata dalla luce divina. Spontaneamente le sue parole si trasformano in preghiera, che è contemporaneamente lode, ringraziamento e affidamento. È l’ultima visione di Beatrice. La donna lo guarda e sorride. Quel sorriso, che era stato il segno visibile dell’ascesa nei vari cieli, ora si manifesta nella sua forma più alta. Presto anche Dante potrà fissare il suo sguardo nel lume divino, fonte perenne di beatitudine. Il vero amore ha raggiunto il suo fine.

LINK della fonte (il grassetto è mio)

 
immagine da questo sito
Nel 1921 lo scultore Hendrik Christian Andersen realizzò una medaglia in cemento armato, dedicata a Dante e Beatrice, collocata nel chiostro della chiesa dell’Abbazia di Vallombrosa. Lo scultore norvegese naturalizzato americano Hendrik Christian Andersen (1872-1940), conobbe i boschi di Vallombrosa nel 1908, a coronamento dei suoi lunghi soggiorni in Toscana e dopo le importanti esperienze maturate in seno alla comunità artistica di Roma.
 

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