CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

1.1       Il degrado di Firenze ai tempi di Dante

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!                        
(Inferno, XXVI, vv. 1-3)

     Con questa celeberrima invettiva Dante apre il XXVI canto dell’Inferno. Nella terzina sono impliciti la rabbia e il rancore che il poeta prova nei confronti della sua città natale, così crudele da averlo costretto all’esilio e forse ancor più crudele e insensibile per avergli negato quella corona d’alloro che il poeta sogna per tutta la vita.

     Gli uomini, divisi in opposte fazioni, avidi di potere e accecati dall’odio nei confronti dei propri avversari, avevano portato Firenze a una corruzione dei costumi che inevitabilmente coinvolse anche le donne. Un po’ quello che era successo nell’antica Roma quando, dopo la conquista della provincia dell’Acaia, Catone il Censore tuonava contro la luxuria asiatica colpevole, secondo lui, di aver messo troppi grilli in testa alle donne attratte dallo sfarzo degli abiti e dalla preziosità dei gioielli. Senza contare i sontuosi banchetti imbanditi nelle case degli aristocratici, compreso lo sfarzo delle suppellettili. Un vero e proprio attentato contro il mos maiorum che aveva caratterizzato i primi abitatori del Lazio i quali, grazie ai buoni costumi e alla modestia, erano riusciti a rendere la loro terra una potenza mondiale, entro l’orizzonte geografico allora ristretto, s’intende.

     Ai vizi dei fiorentini Dante accenna più volte nella Commedia. Durante l’incontro con il suo maestro Brunetto Latini, colui che insegnò al poeta come l’uom s’etterna, in un passo del XV canto dell’Inferno i fiorentini sono descritti come avari, invidiosi e superbi (quasi gli stessi vizi incarnati dalle tre fiere che, ai piedi del colle, gli ostacolano la salita e cercano di spingerlo nuovamente, in particolare il leone che appare per ultimo, verso la selva oscura):

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
       

La tua fortuna tanto onor ti serba,

che l’una parte e l’altra avranno fame

di te: ma lungi fia dal becco l’erba.

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
                        

in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta”.                                          
(Inferno, XV, vv. 67-78)

In questi versi ser Brunetto punta il dito sulla corruzione della sua città che, nonostante fosse stata fondata dalla semente santa dei Romani, avrebbe dimenticato i buoni costumi a causa dei rozzi montanari fiesolani, dediti a guadagni disonesti e facili. Il loro influsso negativo, però, non osi toccare la pianta sana, proprio quel dolce fico (Dante) per il quale è sconveniente fruttare tra li lazzi sorbi (ibidem, vv. 65-66).

Osservazioni, quelle di Brunetto, che rimangono impresse nella mente del pellegrino nel momento in cui, nel canto successivo, al dannato Iacopo Rusticucci che gli chiede se a Firenze siano ancora presenti valori come virtù e cortesia, il poeta risponderà:

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni
».                              (Inferno, XVI, vv. 73-75)

La colpa del declino morale della sua città è addossata alla gente nuova, quella borghesia cui lui stesso si fregia di appartenere dimenticando, forse, la nobiltà di sangue ereditata dall’avo Cacciaguida. Tant’è che, per partecipare alla vita politica del Comune di Firenze, secondo quanto prescritto dagli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella promulgati nel 1293 e poi rivisti nel 1295, Dante si iscriverà all’Arte dei medici e degli speziali. Si pensa che la scelta di quest’Arte possa essere collegata alla sua conoscenza della filosofia, soprattutto aristotelica, che in epoca medievale aveva moltissimi punti di contatto con la medicina. Inoltre, essendo attestata la presenza del poeta a Campaldino, tra i feditori a cavallo, l’attività politica secondo gli stessi Ordinamenti era preclusa ai cavalieri.

     Insomma, quella gente così avida, composta soprattutto da mercanti e banchieri, a Dante non piaceva anche se dall’ambiente comunale si lascia influenzare notevolmente in ambito poetico, fin da quando giovanissimo si introduce nella cerchia elitaria dei Fedeli d’amore. Ciononostante, ai tempi in cui compone la Commedia, forse anche perché costretto a girare di corte in corte, provando la nuova dimensione dell’intellettuale “cortigiano” e respirando un clima assai diverso da quello della Firenze comunale, l’Alighieri prende le distanze da quel mondo borghese e ne mette in luce gli aspetti negativi che porteranno la città stessa e i suoi abitanti al degrado morale. Di un così ampio e irrefrenabile mutamento dei costumi anche le donne fiorentine sono destinate a pagare le conseguenze.

     Dante auctor non condanna né assolve alcuna concittadina, ad esclusione di Beatrice che però è un’anima beata cui spetta l’onore di guidare l’amante devoto nell’ultima parte del viaggio ultramondano. Le donne fiorentine, tuttavia, costituiscono argomento di discussione tra Dante e le ombre almeno in due passi del poema.

1.2       Nella, moglie integerrima di Forese

     Nel canto XXIII del Purgatorio Forese Donati, poeta amico dell’autore, lancia un’invettiva contro le sue concittadine tra le quali si distingue per onestà la moglie Nella.

     Oltre che amico dell’Alighieri, Forese era anche un parente acquisito: infatti era cugino di Gemma Donati, moglie di Dante, nonché fratello di Piccarda e di Corso, futuro capo dei Neri e nemico giurato del poeta. I due amici, forse nel periodo immediatamente successivo alla morte di Beatrice, si erano scambiati dei sonetti nella famosa “tenzone” che ricalca lo stile della poesia comico-realistica di Cecco Angiolieri: se Forese nei suoi testi accusa Dante di povertà e di colpe imprecisate verso il padre defunto, che pare fosse un usuraio, l’Alighieri allude in modo nemmeno troppo velato all’insoddisfazione coniugale della moglie dell’amico, Nella, che giaceva sola nel letto, trascurata dal marito il quale preferiva dedicarsi ad altre relazioni o all’arte del rubare, tanto che la donna era sempre “raffreddata”.

«Sì tosto m’ha condotto 
a ber lo dolce assenzo d’i martìri 
la Nella mia con suo pianger dirotto.                            

Con suoi prieghi devoti e con sospiri 
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, 
e liberato m’ha de li altri giri.
»(Purgatorio, XXIII, vv. 85-90)

     Dante si stupisce di trovare lì l’amico, essendo morto da meno di cinque anni e conoscendolo come peccatore impenitente fino all’ultima ora. Forese gli spiega che le preghiere (prieghi devoti) della moglie Nella gli hanno permesso di accedere alla cornice dei golosi senza attendere nell’Antipurgatorio, come vuole la prassi, il tempo corrispondente alla durata della sua vita sulla terra. Nel IV canto, infatti, l’anima di Belacqua, un liutaio fiorentino amico di Dante, chiarisce che è necessaria questa permanenza prima di accedere al Purgatorio vero e proprio, a meno che orazione in prima non m’aita  / che surga sù di cuor che in grazia viva (vv.133-134).  Dal momento che nella tenzone Dante non aveva risparmiato commenti impietosi nei confronti di Nella, si può dire che in questo canto le parole di Forese, che è Dante auctor a mettere in bocca all’anima, costituiscano una sorta di riabilitazione del buon nome della donna che dal marito viene considerata una delle poche donne fiorentine rimaste indenni ai vizi che hanno invece corrotto la maggior parte delle sue concittadine:

«Tanto è a Dio più cara e più diletta 
la vedovella mia, che molto amai, 
quanto in bene operare è più soletta;                           

ché la Barbagia di Sardigna assai 
ne le femmine sue più è pudica 
che la Barbagia dov’io la lasciai.
»                            (ibidem, vv. 91-96)

Le virtù di Nella sono paragonate alla pudicizia delle abitatrici della Barbagia, regione sarda considerata molto arretrata essendo abitata da gente rozza e incivile (quindi non contaminata dai vizi tipici della civiltà), condizione molto lontana da quella delle donne fiorentine del suo tempo che vivono in una città dove regna il malcostume. In questo senso, Barbagia (v. 96) sembra rimandare per assonanza al termine barbarie. Di seguito Forese profetizza la giusta punizione da parte delle autorità ecclesiastiche (pergamo) in cui incorreranno le fiorentine scostumate che vanno in giro mostrando il seno:

«O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica? 
Tempo futuro m’è già nel cospetto, 
cui non sarà quest’ora molto antica,                            

nel qual sarà in pergamo interdetto 
a le sfacciate donne fiorentine 
l’andar mostrando con le poppe il petto.
»                            (ibidem, vv. 97-102)

     L’anima penitente prosegue la riflessione portando l’esempio delle donne saracene che non ebbero mai bisogno di essere ricondotte sulla retta via da decreti religiosi o di altro tipo. Se solo sapessero le fiorentine ciò che il cielo ha in serbo per loro, urlerebbero dalla paura:

«Quai barbare fuor mai, quai saracine, 
cui bisognasse, per farle ir coperte, 
o spiritali o altre discipline?                                           

Ma se le svergognate fosser certe 
di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna, 
già per urlare avrian le bocche aperte;»                              
(ibidem, vv. 103-108)

     A questo punto Forese preannuncia, grazie all’antiveder di cui godono le anime purganti, la punizione delle svergognate:

ché se l’antiveder qui non m’inganna, 
prima fien triste che le guance impeli 
colui che mo si consola con nanna.
»                                   (ibidem, vv. 109-111)

La profezia non è chiarissima: l’anima fa riferimento a qualcosa che sarebbe accaduto entro una quindicina di anni (prima fien triste che le guance impeli / colui che mo si consola con nanna, ossia il tempo necessario a un neonato per diventare un ragazzo cui spunta la prima barba), quindi più o meno nel 1315. Potrebbe preannunciare l’arrivo di Arrigo VII, l’imperatore sul cui operato Dante confidava per far rientro a Firenze, portando finalmente l’ordine e la pace in città con la cacciata dei Guelfi Neri. Sappiamo, tuttavia, che l’imperatore morirà nel 1313 a Buonconvento, presso Siena, senza poter portare a termine la “missione” che Dante gli affida. Visto che nel testo preso in esame si accenna a una punizione che il cielo ammanna -un verbo che forse ha la radice di manna a voler indicare proprio la volontà di Dio di far “piovere” sulla città corrotta l’ammenda che merita – il passo potrebbe rimandare alla battaglia di Montecatini dove i fiorentini accusarono una dura sconfitta da parte dei Pisani, nonostante questi paressero svantaggiati dalle minori forze messe in campo. In questo caso, la sconfitta sarebbe interpretabile come la pena da scontare per i vizi e costumi corrotti dei fiorentini e soprattutto la loro arroganza nel sottovalutare l’unico punto di forza dello schieramento pisano, rappresentato da un contingente di 1800 cavalieri mercenari tedeschi.  

     Qualunque sia l’interpretazione del passo, le parole pronunciate da Forese a proposito delle donne fiorentine sembrano anticipare ciò che Dante scriverà in occasione dell’incontro con il trisavolo Cacciaguida nel canto XV del Paradiso.

1.3       Modeste, felici e fortunate le donne nella Firenze antica

     Dante agens incontra il suo nobile antenato nel cielo di Marte in cui risplendono gli spiriti militanti per la Fede. Cacciaguida, vissuto tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII, era stato nominato cavaliere dall’imperatore Corrado III di Svevia e con lui pare avesse partecipato alla seconda Crociata in Terrasanta, trovandovi la morte.

     Il poeta riconosce nell’anima beata il padre suo, sentendosi onorato per la paterna festa. L’avo, quindi, si sofferma a decantare la sua città quando, ancora racchiusa nell’antica cinta muraria, se ne stava in pace, sobria e morigerata. In questo contesto virtuoso, anche le donne facevano la loro bella figura:

Non avea catenella, non corona, 
non gonne contigiate, non cintura 
che fosse a veder più che la persona.                        

Non faceva, nascendo, ancor paura 
la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote 
non fuggien quinci e quindi la misura
.                                  (Paradiso, XV, vv. 100-105)

Ai tempi di Cacciguida le donne non prediligevano gioielli preziosi, gonne ricamate né cinture che risaltassero più della loro stessa figura. Soprattutto i padri erano felici perché non dovevano preoccuparsi della dote che allora non era sproporzionata, al pari dell’età in cui le fanciulle convolavano a nozze. Un’osservazione da cui si presume che, invece, ai tempi di Dante le ragazze si sposassero precocemente ma ciò sarebbe smentito dal fatto che Gemma avrebbe sposato Dante quasi a 30 anni (i due pare fossero coetanei) portando in dote una somma piuttosto modesta: 200 fiorini. Ciò farebbe pensare che, sebbene la moglie del poeta fosse una Donati, appartenesse a un ramo minore della famiglia di condizioni economiche più modeste.

Oh fortunate! ciascuna era certa 
de la sua sepultura, e ancor nulla 
era per Francia nel letto diserta.                                   

L’una vegghiava a studio de la culla, 
e, consolando, usava l’idioma 
che prima i padri e le madri trastulla;                          

l’altra, traendo a la rocca la chioma, 
favoleggiava con la sua famiglia 
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma
.                 

Saria tenuta allor tal maraviglia 
una Cianghella, un Lapo Salterello, 
qual or saria Cincinnato e Corniglia
.                         (ibidem, vv. 118-129)

La cosa che rendeva particolarmente fortunate le fiorentine contemporanee di Cacciaguida è il fatto di non doversi separare dai mariti che spesso partivano per l’esilio o commerciavano con la Francia, rimanendo per molto tempo lontani dalle mura domestiche. Esse potevano dedicarsi alla cura dei figli, filare la lana, raccontare le leggende sulla fondazione di Firenze da parte dei Romani, attraverso i miti legati ai Troiani. Certe sfacciate donne fiorentine contemporanee di Dante, come Cianghella, ma anche uomini come Lapo Salterello, avrebbero fatto stupire tutti, come oggi farebbero personaggi quali Cincinnato e Cornelia.

     Cianghella era la figlia di Arrigo della Tosa, che dopo la morte del marito Lito degli Alidosi, imolese, tornò a Firenze e condusse vita dissoluta sino alla morte, avvenuta forse nel 1330. Lapo Salterello era un giurista e poeta contemporaneo di Dante, accusato di brogli e baratteria, uomo corrotto come pochi. A questi due esempi negativi Dante contrappone quelli positivi tratti dal mos maiorum dei Romani: Quinzio Cincinnato fu il celebre dittatore romano che vinse gli Equi; Cornelia, la figlia di Scipione l’Africano e madre dei Gracchi, esempio di virtù e onestà per le donne di Roma, inclusa tra gli Spiriti Magni del Limbo (cfr. Inferno, IV).

     Le fiorentine, insomma, non vengono dipinte esattamente come delle sante. Quando, però, parliamo delle donne dei poeti, la situazione cambia: essi le hanno amate, cantate ed elevate al ruolo di muse ispiratrici. Qualcuno, come Dante, si è spinto oltre, come vedremo, nella celebrazione di Beatrice. Come osserva Virginia Woolf (Una stanza tutta per sé, prima pubblicazione 24 ottobre 1929): «Le donne hanno illuminato come fiaccole le opere di tutti i poeti dal principio dei tempi […] Dalle sue labbra [del poeta] escono alcune tra le parole più ispirate, alcuni tra i pensieri più profondi della letteratura; nella vita reale [la donna] non sapeva quasi leggere, scriveva a malapena, ed era proprietà del marito.»


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Gli altri capitoli dello studio

INTRODUZIONE

CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

CAPITOLO 3: DIDONE

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 5: MATELDA

CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA

CAPITOLO 7: BEATRICE