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DÀ VOTI TROPPO BASSI: PROF SOSPESO DAL DS RIABILITATO DAL GIUDICE

L’opinione pubblica è contro la scuola e i docenti per i troppi compiti e i voti troppo bassi? La sentenza di un giudice del lavoro, cancellando una sanzione disciplinare ingiusta comminata a un docente, apre uno spiraglio di speranza per la ritrovata dignità di una professione che da troppo tempo è sotto i riflettori e non certo per il riconoscimento dei giusti meriti. Anche se si tratta di un caso, forse isolato, quanti di noi sono finiti sotto accusa per i voti troppo bassi, da parte dei genitori ma anche di qualche zelante Dirigente Scolastico il cui interesse primario è quello di non perdere iscrizioni?

A Casarano, in provincia di Lecce, cinque anni fa un docente di matematica in servizio all’istituto tecnico commerciale era stato sospeso dal capo di istituto perché troppo severo. All’atto della sanzione disciplinare inflittagli si contestava al professore la valutazione troppo severa degli alunni che avrebbe comportato una situazione di panico nelle classi che sfociava nelle proteste degli studenti e le preoccupazioni delle famiglie nonché la mancata collaborazione del docente a un dialogo costruttivo con gli studenti. In altre parole: l’insegnante, nonostante il richiamo del DS che, come egli stesso precisa nella memoria difensiva presentata al tribunale, aveva agito al fine di sedare gli animi e far rientrare la situazione nella normalità, non aveva operato, sempre secondo il capo di istituto, per porre rimedio alla situazione delineata, continuando a valutare gli alunni con “eccessiva severità”.

Ma che cosa significa normalità? Ce lo spiega il docente stesso che desidera rimanere anonimo: «Volevano solo tutti, preside, professori e famiglie, che mi adeguassi al sistema» o, per meglio dire, «poche regole chiare e non scritte. Non si possono bocciare più di 6-7 ragazzi all’anno altrimenti non si formano le classi successive

C’era un tempo in cui il bravo professore era colui che dava voti bassi e bocciava. Al contrario, chi esagerava nelle valutazioni veniva considerato poco severo e poco degno della cattedra che occupava perché non insegnava ai discenti ad impegnarsi e sudarsi un 7 o un 8, poiché i 9 e i 10 erano solamente un miraggio.

Ora i tempi sono cambiati. A scuola si deve essere comprensivi, possibilmente dotati di buone conoscenze in ambito pedagogico e psicopedagogico per individuare con esattezza le cause di un basso profitto e trovare i rimedi. C’è chi lo fa – modestamente mi includo nella categoria anche se non lesino i 2 e i 3 ai miei studenti, salvo poi cercare di farli arrivare ad un profitto positivo – e chi invece preferisce “andare per la sua strada”, senza modificare il proprio modo di valutare e senza cercare strategie mirate al superamento del problema.

Io non conosco il docente in questione, tuttavia posso condividere almeno in parte le sue riflessioni. «Le scuole devono avere un nome solido per potersi permettere di bocciare», prosegue il professore, «altrimenti si fanno terra bruciata intorno. E la stessa cosa vale per i professori: quelli che mettono voti reali, come me, vengono guardati male e costretti a giustificare ogni virgola, per cui quasi tutti si adattano mettendo sufficienze anche a chi non se lo merita».

C’è da aggiungere che sotto accusa è anche la scarsa preparazione degli allievi piuttosto che l’eccessiva severità del docente: «Ma non si tratta di essere severo: io penso di essere assolutamente normale.», spiega a sua discolpa il professore, «Quando sono entrato per la prima volta nell’istituto di Casarano, quello dove è scoppiato il caso, ho sottoposto i ragazzi di prima superiore ad un test matematico che viene proposto dal Miur per bambini di IV e V elementare, volevo valutare le loro condizioni di partenza. E per evitare polemiche ho usato quesiti riconosciuti, non inventati da me. Ma i risultati sono stati imbarazzanti, i ragazzi non erano in grado di rispondere a domande semplicissime: così ho messo loro voti bassi, come meritavano».

Nonostante ciò, pare che l’inflessibilità del docente incriminato abbia avuto come effetto una battaglia di piccoli dispetti, rimostranze, boicottaggi, visite degli ispettori ministeriali, circolari ritoccate, che è finita in tribunale. In questa sede, però, il comportamento dell’insegnante è stato giudicato corretto e il giudice ha anche condannato la scuola a pagare le spese legali, con conseguente danno erariale per l’Amministrazione Pubblica. Una sentenza che dà soddisfazione al professore, che ormai da anni insegna in un’altra scuola, anche se giunge con ben cinque anni di ritardo. Ma sulla lentezza dei tribunali bisognerebbe aprire un capitolo a parte. Accontentiamoci di questo buon esempio che la Legge ci vuole offrire.

[fonte: Il Corriere; immagine da questo sito]

LA GENERAZIONE DEI NEET: TUTTA COLPA DELLA SCUOLA?

PREMESSA
Avevo inviato questo post oltre un mese fa alla redazione del Blog “Scuola di Vita” del Corriere.it con cui da più di due anni collaboro. Non avendo ricevuto risposta, ho deciso di pubblicarlo qui. In passato avevo trattato questo argomento in due post, uno sul blog principale e uno su queste pagine. Questo articolo è un sunto dei due precedenti con i doverosi aggiornamenti.
Buona lettura!

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In Italia si chiamano “né né”, proprio perché non hanno un impiego né seguono alcun percorso di studio. Oggi si predilige la denominazione «Neet» (acronimo inglese di «Not [engaged] in Education, Employment or Training»), importando come spesso capita un’etichetta anglosassone. Se nel 2009 i giovani “né né” nel nostro Paese erano 270 mila, esclusivamente nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 19 anni, nel 2013, sempre secondo l’ISTAT, la percentuale degli under 35 in questa condizione sfiorava i 4 milioni.

A distanza di tre anni, come ci informa Dario Di Vico sul Corriere, è apparentemente migliorata, ma la fascia d’età è ristretta agli under 29: ora i giovani Neet sono 2 milioni e 300mila, ma i dati sono riferiti alla fascia di età tra i 15 e i 29 anni. Secondo l’indagine “Ghost”, 1 milione di Neet è disoccupato, ovvero in attesa di un’occupazione a breve termine, mentre gli «inattivi totali» raggiungono quota 600 mila.

Ma cosa fa questo esercito di “inoccupati”? Alcuni svolgono attività di volontariato, altri si dedicano allo sport, altri ancora sono impegnati in lavoretti come ripetizioni, baby sitting o comunque lavori a intermittenza con i quali i giovani non riescono a raggiungere una professionalità da spendere in futuro.

Insomma, pare che non tutti facciano parte della generazione degli “sdraiati”, come li definisce Michele Serra nell’omonimo libro. Anzi, i più frustrati sono i laureati (1 su 10) che davvero non avrebbero voglia di stare con le mani in mano, dato che si sono impegnati e hanno speso del tempo frequentando l’università. In questa classifica sconfortante, se vogliamo dir così, seguono i diplomati (5 su 10) che, tuttavia, non ritengono utile continuare gli studi, e quelli che non sono nemmeno arrivati al diploma di scuola media superiore (4 su 10).

Poiché questo è un blog che tratta di scuola ed è rivolto anche alle famiglie, vorrei soffermarmi a riflettere proprio su questo 40% di giovani che sono in possesso del solo diploma di terza media.

Sarebbe semplice dire che questi giovani sono degli indolenti, che non sanno attribuire il giusto valore all’istruzione o, più in generale, alla cultura. Facile puntare il dito sulle famiglie che non sono in grado di trasmettere loro questo tipo di valore e che accettano, la maggior parte delle volte loro malgrado, una situazione degna di essere chiamata parassitismo. Sarebbe scontato e banale affermare che se non hanno voglia di studiare, non li si può costringere; quante volte di fronte ai figli che non s’impegnano a scuola, i genitori tuonano con la solita frase trita e ritrita “allora vai a lavorare”. Magari trovassero lavoro, questi “inetti”!

Quando si parla di insuccesso negli studi dobbiamo tenere presente l’influenza di vari fattori: l’ambiente scolastico che il ragazzo non trova confacente, la famiglia che non ha gli strumenti per aiutarlo, le amicizie che rappresentano sempre più l’unico modello da seguire, soprattutto perché più comodo, essendo libero da obblighi che condizionano il comportamento. Mi spiego meglio: frequentando gli amici, un giovane innanzitutto non è giudicato, non ha regole da rispettare se non quelle condivise all’interno del gruppo, quasi mai impegnative a livello culturale e formativo, poi è libero di esprimere il suo disagio senza incorrere in rimproveri che addossino la responsabilità a lui solo, infine non ha bisogno di comportarsi in modo non spontaneo con il timore di essere censurato.
Il ruolo della famiglia è fondamentale, è vero, ma non è l’unica forza in ambito educativo. Spesso il “gruppo” funge da punto di riferimento e, guarda caso, non sono mai i modelli positivi ad essere trainanti.

Al di là degli stimoli che possono arrivare dalla famiglia, e talvolta anche dalla scuola, non si può escludere che il ragazzo che si trova in difficoltà alla fine segua istintivamente quelli come lui, arrendendosi alla conclusione semplicistica, ma assai condivisa tra “simili”, «la scuola non fa per me».

Per superare l’impasse è indispensabile la collaborazione scuola-famiglia, ma come sappiamo il rapporto tra le due parti è spesso tutt’altro che idilliaco. Da una parte la famiglia addossa alla scuola la responsabilità dell’insuccesso negli studi del proprio figlio, dall’altra gli insegnanti sostengono che la famiglia non si occupi del figlio e che se il ragazzo è un testone, non si applica, non segue i consigli, non c’è nulla da fare: somaro è, somaro rimarrà.

Naturalmente non si può evitare di fare i conti con l’autostima del ragazzo.
Al di là di un atteggiamento strafottente (così efficacemente descritto da Michele Serra nel libro citato), tipico di chi sfida gli adulti facendo credere che «lui sa quello che fa e non ha bisogno che qualcun altro glielo dica», spesso dietro questa ostentata sicurezza si cela una scarsissima autostima. Ovvero, facendo credere che l’insuccesso scolastico nemmeno lo sfiori, lo studente nasconde la mancanza di fiducia che ha dentro di sé.
Compito della scuola sarebbe comprendere questo tipo di situazione e trovare, assieme alla famiglia, un modo per guidare il ragazzo in un percorso di crescita che lo porti a superare la sfiducia in sé. Certo, per un adolescente è più facile gettare la spugna, rinunciare a modificare una situazione è più comodo; tuttavia, se gli adulti lo aiutassero a comprendere la causa del suo insuccesso e lo guidassero ad un miglioramento personale, quindi non solo relativo allo studio ma soprattutto relativo al suo rapporto con se stesso, ci potrebbe essere una speranza.

Non dimentichiamo, però, che molti ragazzi così fragili rifiutano di farsi consigliare dagli adulti, siano essi genitori o insegnanti.

La convinzione che il mondo del lavoro possa essere affrontato con minore impegno –solo perché non ci sono interrogazioni e compiti in classe-, per giunta con un tornaconto economico, è la molla che porta, poi, a lasciare la scuola per cercare un impiego. Ma anche quando trovano un posto, ben presto questi ragazzi comprendono che in qualsiasi mestiere sono richieste delle competenze che, se non ci sono, bisogna apprendere. L’impegno e la volontà sono imprescindibili così come il rispetto delle regole, pur diverse da quelle imposte dall’istituzione scolastica, è assolutamente dovuto. In breve, di fronte a questi ulteriori ostacoli, i ragazzi che appartengono alla “generazione dei né né” pensano di poter mollare il lavoro come hanno fatto con la scuola e di cercare altro. Peccato, però, che non ci sia questa grande offerta ed ecco che ragazzi come questi hanno un’unica possibilità: ingrossare le fila della già ben nutrita schiera dei loro simili.

Secondo Eurydice, in Italia dal 2009 al 2014 la percentuale dei cosiddetti early leavers è scesa dal 19% al 15%. Forse si potrebbero accorciare le distanze tra il nostro e gli altri Paesi europei se ci fosse una maggiore collaborazione tra scuola e famiglia, una sinergia in grado di rimuovere gli ostacoli e ridare fiducia ai giovanissimi, evitando un precoce abbandono scolastico.

[immagine da questo sito]

LA MATEMATICA E’ NEMICA ANCHE ALLO SCIENTIFICO

matematica-5-640x480Il mio nuovo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita” è l’ideale continuazione del precedente in cui trattavo l’aumento delle iscrizioni, per il prossimo anno scolastico, al liceo scientifico, con una sensibile preferenza per l’opzione delle “scienze applicate”, ovvero il liceo scientifico senza il latino. Ma siamo sicuri che sia il Latino l’unico “nemico” di chi si iscrive allo scientifico?
Come sempre riporto in parte l’articolo e vi invito a leggerlo interamente sul sito del Corriere.it.

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In un post precedente si ragionava sull’aumento di iscrizioni, per l’anno scolastico 2016/17, al liceo delle scienze applicate. Un’opzione che, secondo me e molti dei miei colleghi di Lettere, a volte incontra il favore dei quattordicenni alle prese con la scelta della scuola superiore per evitare la fatica di studiare il latino, presente nel piano di studi nel liceo tradizionale, anche se con un decurtamento notevole di ore in seguito al riordino dei licei voluto dall’ex ministro Mariastella Gelmini.

Ma lasciando da parte le “scienze applicate”, ragioniamo sulla scelta del liceo scientifico che pare sia diventato un refugium peccatorum.
Ormai, come si evince dai dati diffusi dal MIUR, più di metà degli studenti sceglie un percorso liceale. Se escludiamo il classico, dove si iscrivono persone motivate e consapevoli delle difficoltà cui andranno incontro, negli altri licei arrivano ragazzi – non tutti, per fortuna – con scarse qualità.

Il liceo scientifico non è più ambito solo dagli alunni bravi in matematica, ma viene scelto per esclusione.

C’è da dire, inoltre, che spesso sono gli stessi genitori a condizionare la scelta, un po’ per ambizione – senza tuttavia fare i conti con le capacità e la preparazione dei propri figli – e un po’ perché ritengono che i pargoli non abbiano particolari attitudini che invece vengono richieste dall’istruzione professionale o tecnica. Non considerano, però, che l’attitudine fondamentale richiesta da un liceo, qualsiasi esso sia, è quella di essere disposti ad impegnarsi nello studio, cosa non così scontata per chi ha frequentato la scuola media con un profitto appena sufficiente o comunque non particolarmente brillante.

Anche se so che ciò potrebbe sembrare assurdo, per esperienza posso dire che il problema di fondo di chi frequenta il liceo scientifico, non è il latino ma la matematica e tutte le altre materie scientifiche. E non mi riferisco soltanto agli allievi mediocri, quelli che non sarebbero adatti a nessun liceo. Sto parlando anche di ragazzi che nel percorso di studi precedente non hanno dimostrato particolari problemi nell’ambito logico-matematico.

Un problema da non sottovalutare è costituito dai voti troppo alti che gli insegnanti della scuola media si ostinano ad elargire. So che questo discorso può sembrare antipatico e non voglio insinuare che i docenti non siano competenti e preparati. Purtroppo, spesso nella scuola media i livelli di preparazione tendono verso il basso, anche per poter far fronte alle esigenze di alunni deboli o con situazioni disagiate alle spalle. Ad esempio, l’inserimento di ragazzini stranieri, che a malapena comprendono qualche parola di italiano, rallenta la progressione dei programmi e, di conseguenza, si abbassano gli obiettivi per tutta la classe.

Suppongo che questa situazione porti gli insegnanti a premiare con voti più alti di quanto non meritino davvero quelli che dimostrano di impegnarsi un po’ di più o comunque di non avere grossi problemi nell’apprendimento. Ma questa “strategia” comporta il rischio di creare false illusioni nei ragazzi e nelle famiglie.

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[immagine dal sito linkato; logo blog “Scuola di Vita” © Corriere.it]

SCIENTIFICO: SENZA LATINO E’ MEGLIO?

latinoL’ultimo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita” riguarda un argomento di grande attualità: il boom di iscrizioni, per il prossimo anno scolastico, al liceo scientifico, con una sensibile preferenza per l’opzione delle “scienze applicate”, ovvero il liceo scientifico senza il latino. Naturalmente il mio intervento è a favore del latino e mi aspettavo una caterva di commenti contro lo studio di questa lingua, ormai considerata dai più “fuori moda” e di scarsa utilità. E invece… leggete i commenti sul sito del Corriere.it, rimarrete forse stupiti quanto me.
Come sempre riporto in parte l’articolo e vi invito a leggerlo interamente sul sito del Corriere.it.

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Le iscrizioni alla scuola superiore si sono concluse da pochi giorni. Come osserva il Corriere, nell’articolo firmato da Claudia Voltattorni, c’è stato anche quest’anno il boom di iscrizioni ai licei, con un’impennata decisa per il liceo scientifico, in particolare l’opzione “scienze applicate”: l’ha scelto il 7,6% degli studenti contro il 6,9% dello scorso anno. Cerchiamo di capire il motivo di questo successo.

Potrei dire che nei quattordicenni di oggi c’è una spiccata curiosità nei confronti della scienza, in tutte le sue declinazioni. Se “applicata” è meglio. Ma mentirei.

Il fatto è che lo spettro del Latino angustia la maggior parte degli studenti che si iscrive al liceo scientifico. Due sono gli atteggiamenti che posso osservare, dal momento che insegno Lettere allo scientifico, escludendo le persone molto motivate che non mancano: o lo subiscono e cercano di fare del proprio meglio, oppure non lo digeriscono per niente e lo studiano poco e male, con scarso impegno, confidando nel fatto che, se nelle materie scientifiche se la cavano, per il solo Latino non si viene bocciati. Tutt’al più si rimedia un debito che, se è l’unico, non basta per ripetere l’anno.

Da settembre anche nel mio liceo ci sarà l’opzione delle “scienze applicate”. Le iscrizioni sono andate ben oltre le più rosee aspettative e noi prof di Lettere sappiamo bene che questo fatto ci si ritorce contro: per le “scienze applicate”, infatti, basta l’abilitazione per insegnare negli istituti tecnici e professionali e, nella migliore delle ipotesi, in futuro non perderemo il posto ma potremo insegnare solo Italiano e Storia. Un’abilitazione che molti di noi già possedevano prima di fare l’ennesimo concorso per poter insegnare al liceo. Ad ogni modo, se non altro per spirito corporativo, siamo felici di aver ottenuto il nulla osta dal ministero che ci ha dato fiducia e, anche considerando il RAV (Rapporto di Autovalutazione), sa che il nostro liceo è una scuola seria e affidabile.

Non voglio che si pensi che io sia angustiata dal fatto che negli anni a venire potrei anche non insegnare più il Latino. Io sono preoccupata per gli studenti che forse credono, erroneamente, che il liceo delle “scienze applicate” sia più facile dello scientifico tradizionale proprio per l’assenza del latino nel piano di studi. Insomma, mi spiacerebbe che considerino l’antico idioma una sorta di bestia nera da evitare come la peste, per affrontare i cinque anni in santa pace. Così non sarà.

Per capire come stanno veramente le cose, bisogna fare un passo indietro. Nel riordino dei licei, voluto dall’ex ministro Mariastella Gelmini, l’opzione delle “scienze applicate” doveva teoricamente essere l’erede della vecchia sperimentazione del “liceo tecnologico” che allora era affidato, in termini di piano di studi e logistici, agli istituti tecnici. In realtà, la nuova opzione è soltanto più scientifica (se guardiamo i quadri orari ci sono più ore di matematica, informatica e scienze, anche se numericamente in totale sono le stesse rispetto al corso tradizionale) ma di tecnologico ha ben poco. Manca, infatti, quella didattica laboratoriale, vanto del vecchio tecnologico, e che veramente ci avvicinava agli standard europei.

Insomma, molte ore da passare a scuola, in aula, e a casa sui libri di testo e sui quaderni a svolgere esercizi su esercizi. Poco o nulla di pratico, come suggerirebbe l’aggettivo “applicato” riferito alle scienze.

La mia è una formazione classica quindi è ovvio che non farei mai cambio tra le tre ore settimanali di latino e le ore in più di matematica e scienze (in tutto, se consideriamo l’intero ambito scientifico, 12 ore).
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TUO FIGLIO E’ STATO BOCCIATO? NIENTE DRAMMI

scrutiniAttuale, ahimè, il tema che ho scelto per l’ultimo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita”. Cosa fare – e non fare – quando un figlio viene bocciato? Prima regola: niente drammi.
Come sempre riporto in parte l’articolo e vi invito a leggerlo interamente sul sito del Corriere.it.

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Nel percorso scolastico di molti ragazzi si è costretti a superare lo scoglio di una bocciatura. Senso di impotenza, fallimento, ingiustizia, frustrazione, vergogna sono alcuni dei sentimenti che spesso nascono da una situazione che di per sé non è tragica e deve, invece, portare ragazzi e famiglie ad una riflessione: che cosa non ha funzionato?

La risposta più gettonata è: si è trattato di un’ingiustizia. L’atteggiamento vittimistico, che molte volte caratterizza maggiormente i genitori che non gli studenti stessi, è certamente il più conveniente. Addossare agli altri delle responsabilità significa, in fondo, assolversi da qualsiasi colpa. Ma è davvero il modo migliore per affrontare un piccolo incidente di percorso?

Una volta, per segnalare la necessità di ripetere l’anno si usava il verbo “bocciare”. Si tratta di un verbo preso in prestito dal gioco delle bocce nel quale ogni giocatore si prefigge di raggiungere un solo scopo, per accaparrarsi il punto: urtare una boccia con la propria allontanandola dal boccino. Ecco che la parola diventa sinonimo di “respingere”, tant’è che il “bocciato” veniva generalmente definito “respinto”, allontanato dall’obiettivo principale di ogni studente: quello di superare l’anno scolastico.

Oggi, nel linguaggio scolastico comune, si utilizza la formula “non ammesso alla classe successiva”. Una perifrasi elegante – lo sarà, poi? – per evitare un termine tanto orribile come “bocciato”. Ma in fondo non cambia la sostanza: se nel percorso di studi ci si allontana dal’obiettivo, inevitabilmente non si può proseguire la “partita”.

Considerando che le bocciature nella scuola primaria e secondaria di primo grado sono davvero rare e devono essere concordate con le famiglie, focalizziamo la nostra attenzione sulla scuola superiore. Da qualche anno anche il biennio degli istituti secondari di secondo grado rientra nella scuola dell’obbligo. A questo punto qualcuno si chiederà: se negli otto anni precedenti le bocciature sono rare, trattandosi di scuola dell’obbligo, perché nei primi due anni delle superiori i docenti tendono a bocciare con estrema facilità? Il punto è che le parole hanno un peso e solo una corretta connotazione ne completa il significato: scuola dell’obbligo, infatti, non significa “obbligo” da parte degli insegnanti di promuovere tutti. A maggior ragione se si tratta di ragazzi non più fanciulli, che dovrebbero essere in grado di scegliere una scuola che risponda alle proprie inclinazioni e che sia alla loro portata, considerati gli esiti del percorso scolastico precedente.

Le scuole superiori non sono tutte uguali. E’ vero che l’obbligatorietà del biennio stona con la variegata offerta formativa delle scuole di diverso tipo: si parte dal basso, dagli istituti professionali, passando per i tecnici e arrivando in alto, ai licei. Un biennio obbligatorio, a mio parere, dovrebbe essere unico. Con la possibilità di scegliere come materie elettive alcune discipline che meglio si conciliano con il percorso successivo. Ma questo è un altro discorso.

L’abbandono scolastico, specialmente in seguito ad una o più bocciature, è un “male” tutto italiano e interessa perlopiù proprio i primi anni della scuola superiore. Se nella maggior parte dei casi la colpa del fallimento viene attribuita all’istituzione scolastica, è anche vero che spesso, terminata la scuola media, gli alunni non sono in grado di fare la scelta giusta oppure sono talmente condizionati dalle famiglie che nutrono particolari ambizioni sui figli, senza tener conto delle reali competenze acquisite, da orientarsi verso i licei – le statistiche rilevano che uno studente su due sceglie proprio questo tipo di scuola superiore -, senza tenere nel debito conto l’impegno che un corso di studi liceale comporta e i prerequisiti che richiede per garantire il successo formativo.

Secondo la mia esperienza di docente al liceo, posso assicurare che la maggior parte delle volte la “bocciatura” è determinata da un mix micidiale: scelta errata – molte volte forzata- della scuola, elevate aspettative delle famiglie e ansia da prestazione provata dagli studenti che si sentono oppressi tra docenti che chiedono molto impegno e genitori che si aspettano troppo.

Di fronte alla “non ammissione alla classe successiva” bisognerebbe fare una riflessione seria, senza addossare ad altri la colpa del fallimento – i docenti perfidi o i genitori troppo autoritari che impongono le scelte – anzi, cercando di capire ciò che non ha funzionato e chiedersi se ci sia un’altra strada percorribile. A volte, una scuola meno impegnativa del liceo, per fare un esempio vicino alla mia esperienza, risulta molto più gratificante ed apre la strada al successo scolastico che si credeva irraggiungibile.

E a mamma e papà cosa conviene fare? Per prima cosa, niente drammi. Parlare serenamente con il proprio figlio (o figlia, anche se è vero che le ragazze sono più in gamba dei maschietti!) sul suo futuro, cercare, se è il caso, una strada alternativa oppure ragionare sugli errori commessi in modo da non incorrervi in futuro. Evitare, nel modo più assoluto, di cercare lo scontro con i docenti ritenuti responsabili della bocciatura.

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LAVORI ESTIVI: UTILI MA NON OBBLIGATORI

lavori estivi studentiNell’ultimo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita” questa volta parlo un po’ di me. Mi ha ispirata l’uscita del ministro del Lavoro Poletti che vorrebbe impegnare una parte delle vacanze degli studenti, reputate troppo lunghe, con qualche esperienza nel mondo del lavoro. Nell’articolo, che in origine era intitolato “Eppure a me piaceva lavorare d’estate”, racconto delle mie esperienze di lavoro estivo, fortemente volute, anche a costo di trovarmi in situazioni che avrei preferito evitare. Ma solo così si fa esperienza perché, come recita un detto popolare, “sbagliando si impara”.
Riporto in parte l’articolo e vi invito, come sempre, a leggerlo interamente sul sito del Corriere.it.

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Ho letto con grande piacere e partecipazione (nel senso che in molto di ciò che ha scritto mi ci sono ritrovata, seppur con lo sforzo di ricordare un passato troppo remoto, ahimè) il post di Paolo Romano sull’estate degli studenti che il ministro Poletti vorrebbe in qualche modo rivedere.

Eppure credo che l’idea di spronare i giovani a fare qualche lavoretto d’estate non sia del tutto da buttare. Tre mesi sono tanti, troppi per qualcuno. Personalmente ricordo come passava in fretta il tempo. C’era bisogno di riprendersi dalle lunghe ed estenuanti fatiche che i nove mesi di scuola imponevano. Sempre che ci si impegnasse nello studio, è ovvio.

Ero felice quando al mare, in villeggiatura (come si diceva allora), ritrovavo le amicizie “stagionali” e i miei mi concedevano di far tardi la sera, sempre sotto stretta sorveglianza di mio fratello. Mi sentivo ancora più felice quando lui decideva di “sganciarmi” e si accordava sull’ora di rientro e su ciò che avremmo raccontato ai nostri genitori al ritorno. Piccole bugie, enorme felicità.

La scuola in quei mesi era un lontano ricordo. Non riuscivo a concepire come qualcuno si potesse rovinare le vacanze con gli esami di riparazione a settembre. Non lo capisco nemmeno ora che insegno, a dire il vero.

Poi, all’età di 15-16 anni, ho sentito la necessità di trovarmi un lavoretto. Volevo mettere da parte qualche soldo per togliermi gli sfizi, anche se sapevo che i miei non mi avrebbero negato nulla. Bastava chiedere. Forse per questo non comprendevano quell’idea balzana di lavorare d’estate. Così iniziai a fare la baby-sitter (so che oggigiorno nessuno lascerebbe in mano ad un’adolescente dei bambini, ma allora era diverso, si cresceva in fretta e si era molto più responsabili), a dare ripetizioni, a vendere cosmetici in giro per le case (tutti aprivano la porta e non ho mai avuto paura di brutti incontri), a confezionare braccialetti e collanine che poi vendevo alle amiche. Ho persino fatto traduzioni e registrato su una cassetta (ah, i vecchi mangicassette!) un libro d’inglese per un ragazzo che voleva migliorare la pronuncia.

A un certo punto ho osato di più: volevo lavorare in ufficio con papà. Fui accontentata, anche se dovetti accettare un lavoro part-time, nel pomeriggio, quando l’ufficio non era aperto al pubblico. È stata un’esperienza utilissima: decisi allora che il lavoro di segretaria non faceva per me. La mia vita doveva essere votata all’insegnamento, ne ero certa.

Nell’estate dei miei diciassette anni (mi avviavo comunque verso la maggiore età, essendo nata in ottobre) tentai l’impresa più ardita: niente lavoretti “precari”, niente lavoro d’ufficio in famiglia, volevo fare qualcosa che spezzasse il cordone ombelicale e nel contempo si avvicinasse al lavoro che ero certa di fare in futuro. Fu così che mi ritrovai a fare l’assistente in una colonia al mare. Fu l’esperienza più traumatica della mia vita.

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GENITORI-IMBIANCHINI A SCUOLA? NO, GRAZIE

genitori imbianchiniIl mio nuovo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita” tratta un argomento che ho già affrontato in questo blog (QUI e QUI). Tant’è vero che in parte riprende – con citazioni testuali – i concetti già espressi allora, in relazione al volontariato che talvolta viene prestato dai genitori all’interno degli edifici scolastici, con varie opere di manutenzione.
Ora come allora esprimo la mia ferma contrarietà a questo genere di iniziative, pur apprezzando e lodando la buona volontà di quei genitori.
Come sempre, riporto la parte iniziale dell’articolo, invitandovi a leggerlo interamente sul sito del Corriere.it.

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Giovanna Maria Fagnani ha raccontato su questo blog la propria esperienza di madre alle prese con le carenti condizioni igienico-sanitarie (muri scrostati, sporcizia, controsoffitti messi in posa alla buona) delle aule nella scuola frequentata dai figli.

Nel post la giornalista scrive che, alla proposta dei genitori di sistemare due aule, con lavori di piccola manutenzione (tinteggiatura, pulizia …), con stupore ha dovuto constatare che i più contrari erano alcuni insegnanti. Bene, io da insegnante concordo con quelle maestre. Ne spiegherò in breve il motivo.

Che i genitori si improvvisino imbianchini e addetti alle pulizie non è una novità. Il fenomeno credo sia più diffuso di quanto si pensi, anche se gli episodi messi in risalto dalle cronache dei giornali non sono molti. Come sempre, succede che si tenda a evidenziare ciò che di negativo riguarda la scuola, lasciando nell’ombra gli aspetti positivi.

A questo punto si potrebbe pensare che con quest’ultima affermazione io mi sia contraddetta: perché sono contraria all’intrusione delle famiglie nella manutenzione delle aule scolastiche se in fin dei conti considero la cosa positiva?

Io non posso che lodare il buon intento di questo tipo di azione. Purtroppo, però, la gente, animata dalla buona volontà, non capisce che, così facendo, non si fa altro che incoraggiare la latitanza dello Stato.

Sono, infatti, convinta che la solidarietà sociale non possa in alcun modo colmare le lacune di uno Stato che latita sempre più. Al volontariato degli insegnanti, che spesso fanno ore aggiuntive senza essere pagati per venire incontro alle esigenze degli allievi, o comunque svolgono mansioni “sottocosto” pur di non far mancar nulla all’utenza, ora si aggiunge quello dei genitori. In questo modo si concorre ad incrementare il disinteresse dello Stato nei confronti di una scuola che, come un vecchio carrozzone, va avanti sempre e solo confidando in uomini e donne di buona volontà.

Laddove le istituzioni latitano, è necessario alzare la voce e pretendere gli aiuti necessari, altrimenti lo Stato si arrogherà sempre il diritto di non intervenire, “tanto ci pensano loro”. Insomma, il self made va bene a casa propria, anche per problemi di responsabilità. I volontari, infatti, non sono tutelati da alcuna assicurazione che è, invece, indispensabile in certi interventi di manutenzione.

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REGISTRO ELETTRONICO: IL RISCHIO HACKER NON CANCELLA I VANTAGGI PER PROF E FAMIGLIE

scrutiniIl mio nuovo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita” tratta un argomento di grande attualità: il registro elettronico. Purtroppo le notizie da cui ho preso spunto non sono edificanti ma, prendendo in esame i “vizi” e le “virtù” del registro on line, a conti fatti, a mio parere, non è da bocciare, anzi.
La prima parte introduce l’argomento e indica la normativa di riferimento. Quindi se siete curiosi di sapere quali sono i vantaggi offerti dal registro digitale ai professori, alle famiglie e agli studenti, vi invito a continuare la lettura sul sito del Corriere.it.

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Ci sono due notizie che in questi giorni hanno calamitato l’attenzione di noi prof, e non solo, in relazione al registro elettronico. Una riguarda degli studenti, perlopiù minorenni, che hanno violato il sistema di sicurezza riuscendo a modificarsi i voti a loro piacimento. L’altra, invece, tratta il caso di un docente che si rifiuta ostinatamente di utilizzare il registro elettronico adottato nella sua scuola su delibera del Collegio dei Docenti. Il Dirigente Scolastico le ha provate tutte per vincere la resistenza dell’insegnante, senza alcun esito. Niente da fare: lui è convinto di adempiere ai suoi obblighi compilando e aggiornando diligentemente un registro cartaceo che ha acquistato di tasca sua.

Due facce della stessa medaglia ma il rischio della manomissione del registro da parte degli studenti e le resistenze dei docenti (il caso citato non è affatto isolato e l’analfabetismo informatico dei prof è cosa nota) possono essere considerati motivi sufficienti per bocciare la tecnologia in aula?

Vorrei iniziare dal primo caso. Certamente non voglio difendere il collega ma è doveroso sottolineare che l’obbligo di adottare il registro elettronico, preannunciato a suo tempo dall’ex ministro Profumo nell’ambito del più ampio progetto di dematerializzazione che interessa tutta la Pubblica Amministrazione (legge n. 135/2012), di fatto non è applicabile. Il MIUR, infatti, ha dovuto fare un passo indietro perché non ha i fondi da destinare alla digitalizzazione delle scuole, anche se dei passi avanti notevoli sono stati compiuti in ambito burocratico (per esempio, l’invio dei plichi telematici per le prove scritte dell’esame di Stato, le istanze on line per la partecipazione dei docenti alle commissioni d’esame, le iscrizioni scolastiche da parte delle famiglie …).

Diverse scuole, tuttavia, hanno imparato l’arte di arrangiarsi attingendo al Fis e ai contributi volontari delle famiglie – sempre più scarsi, in verità – onde creare i presupposti per l’adozione del registro elettronico. Non si tratta, infatti, di acquistare solamente il software. Perché il sistema funzioni è indispensabile che le scuole siano dotate di una rete wireless a banda larga efficiente, ovvero, come si legge nel documento #labuonascuola pubblicizzato dal governo, ultralarga, e di un numero adeguato di computer a disposizione dei docenti.

Purtroppo i costi dell’operazione sono altissimi perché, oltre ai dispositivi da fornire, dobbiamo anche tener conto delle tariffe delle linee telefoniche – ADSL. Dati recenti attestano un costo mensile superiore ai 7 euro per studente, anche se questa cifra personalmente mi pare esagerata. Ad ogni modo, l’adozione del registro elettronico senza aiuti da parte dello Stato non può essere un’imposizione proprio per i motivi esposti sopra.

Un altro problema non trascurabile è relativo alla validità legale dei dati caricati on line. In questo caso, è necessario che il D.S. dia delle garanzie a tutela dei docenti e preveda una serie di norme molto rigide cui attenersi.

Nel liceo in cui insegno, ad esempio, la firma sul registro elettronico è autenticata nel momento in cui, all’inizio della lezione, il professore inserisce i suoi dati che possono essere modificati – errori e omissioni sono sempre possibili – nell’arco delle 24 ore. Anche l’inserimento dei voti è regolamentato: deve essere tempestivo, comunque non oltre le 24 ore, e nel caso di errori è necessario inoltrare richiesta scritta al D.S. per modificarli, operazione che deve essere autorizzata e da effettuare in tempi stabiliti.
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QUEL CHE TEMO QUANDO INSEGNO LATINO ALLO SCIENTIFICO

vocabolario-latinoEcco l’ultimo articolo scritto per il blog del Corriere.it “Scuola di Vita”. Argomento spinoso quello dell’insegnamento del Latino al liceo scientifico. Purtroppo l‘intera cultura umanistica negli ultimi tempi è snobbata, sembra che studiare le lingue antiche – definite ingiustamente “morte” e invece sono più vive che mai, se consideriamo il patrimonio che ci hanno trasmesso e continuano a trasmetterci a distanza di secoli, per comprendere meglio la società in cui viviamo – sia cosa antiquata e inutile. Basti considerare il calo di iscritti che il liceo classico subisce anno dopo anno.
Basta leggere i commenti all’articolo sul sito del Corriere.it per rendersi conto che la gente parla senza cognizione di causa. E’ inutile dire che nei licei si dovrebbe imparare Diritto ed Economia anziché Latino, che una scuola moderna deve garantire l’insegnamento dell’Inglese e dell’Informatica. Ci sono già le scuole in cui queste discipline vengono impartite e la scelta rimane libera da costrizioni. C’è pure un liceo scientifico senza il latino (l’opzione delle “scienze applicate” oppure il liceo sportivo), se proprio si teme di affrontarlo. Perché è questo il problema: il Latino è ingiustificabilmente temuto, solo perché richiede uno studio costante e tutto ciò che si apprende mese dopo mese, anno dopo anno, serve sempre, fino al completamento del ciclo di studi.
C’è poi un’altra considerazione da fare: pochi sono i docenti appassionati a questa lingua – forse siamo rimasti solo noi vecchie leve – e spesso non lo si sa insegnare. Credere che la didattica del Latino possa rimanere invariata soltanto perché parliamo di una lingua codificata che non si evolve, è sbagliato. Se insegnassi ai miei allievi il Latino che ho studiato io ai miei tempi, e nello stesso modo in cui l’ho studiato io, allora davvero lo farei odiare.
A volte è difficile arrivare a dei compromessi e ancora più difficile è tentare di impartire un insegnamento dignitoso con il poco tempo a disposizione che abbiamo ora, allo scientifico, grazie alla “riforma” dell’ex ministro Gelmini.

Come sempre, riporto la parte iniziale del post e vi invito a continuare la lettura sul sito del Corriere.it.

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Insegnare latino allo scientifico potrebbe essere parecchio frustrante, specie dopo il taglio delle ore operato dal duo Gelmini-Tremonti al grido: «Rendiamo più scientifico il liceo scientifico!» che però, a voler essere onesti, nascondeva esclusivamente l’intenzione di eliminare qualche cattedra – molte, con l’andar degli anni – dei professori di Lettere.

Un tempo le ore di latino erano ben 4 alla settimana in prima, 5 in seconda, 4 in terza e quarta e 3 in quinta. Un’enormità, specialmente se pensiamo che in seconda superavano quelle di matematica.

Il riordino dei licei voleva, sotto sotto, eliminare questa iniquità ed io, prof di lettere allo scientifico, ammisi che, in fin dei conti, era pure giusto. Ma quello che, forse ingenuamente, non riuscivo a cogliere, era l’impossibilità di svolgere il programma, ahimè rimasto uguale, con a disposizione un monte ore decisamente ridotto (tre sole ore settimanali) nei cinque anni.

Cos’è diventato l’insegnamento del Latino a quattro anni dal riordino? Giacché si parla di riordino non di riforma, il che salva, in un certo senso, il pudore.

Partiamo innanzitutto dalle indicazioni nazionali. Il termine «programmi» è stato bandito forse per salvare il povero prof che arranca dietro alle tavole di regole, agli esercizi di lingua, alle pagine di letteratura, ai testi d’autore … e non ce la fa. Non ce la fa il prof e non ce la fanno gli studenti. Perlomeno siamo in buona compagnia. Mal comune mezzo gaudio. O forse no.

Forse loro, i discenti – dal latino disco=imparo -, non colgono il mezzo gaudio – da gaudium=gioia – perché devono studiare esattamente quello che imparavano i loro predecessori con un monte ore che era esattamente il doppio e non c’è proprio nulla di cui gioire. Ma nemmeno i docenti – dal latino doceo=insegno – si sentono in buona compagnia e tentano di far sopravvivere il loro entusiasmo (in alcuni molto esiguo) e di trasmettere la loro passione agli studenti che spesso e volentieri si chiedono perché si debba studiare il latino allo scientifico. E quando si spiega ai ragazzi che un motivo sufficiente è rappresentato dal solo fatto che i rispettivi appellativi – discente e docente – rimandano alla lingua dei nostri avi, i gloriosi antichi Romani, non sembrano convinti. In fondo, basta consultare il dizionario etimologico per avere le risposte che cerchiamo – sempre che ci sia la volontà di farlo –, non serve mica conoscere la lingua.

Certo, è bello conoscere le nostre radici ma per farlo basta aprire un manuale di storia antica, c’è forse bisogno di studiare il latino? Cicerone, Cesare, Seneca, Tacito si possono pure leggere in traduzione, o no? No, perché in questo modo si trascura il mezzo attraverso il quale gli antichi ci hanno trasmesso la loro cultura. Il valore del latino deve essere valutato tenendo conto del mondo che esso esprime, poiché la lingua è la caratteristica peculiare di una civiltà e di una cultura calate in un contesto storico ben preciso. Basterà dire questo per convincerli? Forse sì, almeno fin quando non si imbatteranno nella perifrastica passiva o nella consecutio temporum.

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SE ANCHE IL TEMA SULLE VACANZE RISCHIA DI VIOLARE LA PRIVACY

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Le scuole hanno riaperto i battenti e ho pensato al classico tema che gli insegnanti, specie quelli della primaria e della secondaria di I grado, assegnano agli alunni il primo giorno di scuola. Questo l’argomento del mio nuovo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita”. Vi siete mai chiesti se invitare agli allievi a descrivere le loro vacanze, magari richiedendo un resoconto per iscritto, violi in qualche modo la privacy? Nel post che, come sempre, vi invito a finire di leggere sul Corriere.it troverete la risposta.

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Al rientro dalla lunga pausa estiva capita spesso che gli insegnanti chiedano ai propri allievi di parlare delle loro vacanze. È un modo per rompere il ghiaccio con una bella chiacchierata oppure di riprendere confidenza con la penna scrivendo un tema dal classico titolo: “Cos’hai fatto durante le vacanze?”.

Nulla di male, intendiamoci, ma i genitori di oggi sono molto più attenti alla privacy di quanto non lo fossero le mamme e i papà di un tempo.

Insomma, se la maestra o la prof di Lettere si comporta in questo modo, viola la privacy? A questo proposito, ma non solo, già da alcuni anni esiste una sorta di “codice di comportamento” cui si devono attenere i docenti e, in genere, il personale scolastico. È stato divulgato anche un opuscolo in cui si riportano le norme generali che riguardano la privacy nelle aule scolastiche. Si va dal trattamento dei dati personali degli studenti all’utilizzo dei cellulari o della videocamera a scuola.

A proposito dei temi in classe, non solo quelli sulle vacanze ovviamente, il garante si è espresso in questi termini: Non commette la violazione della privacy l’insegnante che assegna ai propri alunni lo svolgimento di temi in classe riguardanti il loro mondo personale e familiare.

Logicamente, il docente è tenuto al segreto professionale e s’impegna a non divulgare il contenuto dei temi, in particolar modo qualora essi contengano riferimenti alla vita privata degli alunni. Ma se volesse, ad esempio, leggerne qualcuno in classe?

In questo caso il garante della privacy si appella alla sensibilità del singolo: Nel momento in cui gli elaborati vengono letti in classe – specialmente se sono presenti argomenti delicati – è affidata alla sensibilità di ciascun insegnante la capacità di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze didattiche e la tutela dei dati personali.
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