Archivi Blog

#DANTE700: LE DONNE NELLA COMMEDIA DANTESCA

PREMESSA

Sta per concludersi l’anno dantesco in ricordo del settecentesimo anniversario della morte del poeta fiorentino. Non si può dire che questo evento sia passato inosservato. Mai come quest’anno sono stati pubblicati volumi di vario genere sulla vita e sulle opere dell’Alighieri. Nel mio piccolo voglio condividere con i lettori e le lettrici un mio “studio” sulle presenze femminili nella Commedia. Di seguito trovate la presentazione mentre i capitoli che compongono lo studio saranno pubblicati nella sezione “Pagine” di questo blog (sulla barra laterale, alla voce “Letteratura italiana”, sezione dedicata a Dante Alighieri).

BUONA LETTURA!

    

Tomba di Dante – Ravenna

Non tutte le donne nominate nella Commedia occupano uno spazio considerevole: alcune sono protagoniste altre solo comparse, ad alcune il poeta dà voce mentre di altre riporta solo i nomi. Sono poche numericamente (42 a fronte di circa 500 uomini, fra personaggi che interagiscono con Dante o solamente citati nell’opera) ma alcune hanno una storia che merita di essere raccontata. Non solo, possiamo dire che certe protagoniste, come Francesca da Rimini, Pia de’ Tolomei e Piccarda Donati, devono la loro fortuna imperitura proprio ai versi danteschi. Talvolta si tratta di storie miste a leggende che ancora oggi sopravvivono nelle tradizioni popolari, come il “Salto della Contessa”: una rievocazione storico-medievale che si tiene a Gavorrano in Maremma, ispirata alla tragica vicenda della senese Pia, alla quale la cantautrice Gianna Nannini ha dedicato un musical.

     Che dire di Paolo e Francesca, condannati all’abbraccio eterno nel cerchio dei lussuriosi? La loro storia è documentata, non è certo una leggenda anche se ha ispirato i cantastorie successivi. Un esempio è “La baronessa di Carini” che ha come protagonista Laura Lanza, costretta a sposare un uomo che non ama e punita con la morte assieme all’amante Ludovico Vernagallo. All’amor non si comanda o, come dice Dante attraverso Francesca, Amor ch’a nullo amato amar perdona

     Ci sono storie di donne che, pur sottratte con la forza al convento e costrette al matrimonio, sono rimaste sempre fedeli nel cuore a colui che avevano scelto come sposo: Gesù Cristo. È la storia di Piccarda Donati che, sottratta alla dolce chiostra, non serba rancore nei confronti di chi le ha usato violenza perché nella beatitudine ha ritrovato il vero Amore. Simile l’esperienza di Costanza d’Altavilla che viene rivissuta attraverso le parole di Piccarda.

     Dante è fiorentino e in più parti del poema fa riferimento alla sua città, perlopiù con un tono di rimprovero. Di certo non ha mai perdonato i suoi concittadini per l’esilio subito e continua a sperare in un ritorno per meriti poetici. Come sappiamo, a Firenze non metterà più piede. La città è dipinta come corrotta, abitata da gente senza scrupoli e, a causa della continua lotta tra fazioni, non riesce a trovar pace. Inevitabilmente questo “luogo di corruzione” è abitato da donne altrettanto disdicevoli. Nella, moglie di Forese Donati, è una delle poche a mantenere dignità e decoro. Come può evitare il poeta di fare il confronto con le fiorentine dei tempi passati? Ecco che l’elogio di Cacciaguida, nel XV canto del Paradiso, rende merito alle donne modeste, felici e fortunate di una Firenze ancora racchiusa entro le antiche mura.

     C’è anche chi, pur avendo una storia da raccontare, è solo un’ombra silenziosa, assieme ad altre, nel cerchio dei lussuriosi: è la regina cartaginese Didone di cui Dante ricorda solo la colpa di non essere rimasta fedele al marito Sicheo e di essersi uccisa per amore (di Enea, naturalmente). Forse l’infelix Dido avrebbe meritato una “particina” nel poema dantesco e poi, come Virgilio ci insegna, alla fine era stata perdonata da Sicheo… la condanna di Dante, invece, è senza appello. Nella ricostruzione della sua storia, vediamo come la lussuria di Didone sia in un certo senso incolpevole: in fondo la regina fu vittima di un complotto tra dee – Venere e Giunone – che la spingono tra le braccia dell’eroe troiano. Avrebbe forse meritato un posto nel Limbo tra gli Spiriti Magni. O forse avrebbe potuto ottenere un’altra collocazione se l’autore della Commedia avesse inventato un luogo dove premiare gli afflitti e sfortunati amanti.

     Molte donne nominate nel poema appartengono ai miti classici (le Arpie e le Furie, per esempio), altre non hanno identificazione certa. È il caso di Matelda che il pellegrino incontra nell’Eden, prima di riunirsi finalmente a Beatrice. Presente nei canti finali del Purgatorio, a partire dal XXVIII, ha il compito di condurre le anime a purificarsi nei fiumi Lete ed Eunoé. Calata in un paesaggio rigoglioso paragonato a quello in cui vivevano gli uomini dell’età dell’oro, rappresenta la perfetta felicità che Dio aveva riservato al genere umano nel paradiso perduto a causa del peccato originale. Sebbene Matelda non sia identificabile con nessuna donna storicamente esistita (vengono fatte varie ipotesi ma nessuna è prevalente), come personaggio ha un forte significato allegorico: ella rimanda alla vita contemplativa e alla giustizia, a lei è riservato il compito di “condurre” Dante da Beatrice di cui precede l’entrata in scena che avviene nel XXX canto del Purgatorio.

     Si può dire che Beatrice sia la vera protagonista della vita e dell’opera di Dante Alighieri? Certamente sì, perché senza di lei non sarebbe stata nemmeno scritta la Commedia. Non importa se stiamo parlando di un personaggio letterario, al di là dell’identificazione con la Bice Portinari vicina di casa del poeta. Quello che conta è il ruolo che la donna ebbe nell’evoluzione poetica di Dante e per questo è necessario partire dalla Vita Nuova che ripercorre la storia d’amore e di poesia indispensabili per comprendere la genesi della Commedia e il passaggio dall’amor alla caritas che il poeta compie nei suoi versi, distinguendosi da tutti i poeti precedenti. Se alla fine dell’opera giovanile l’autore non avesse espresso la volontà di trattare della donna amata in modo più degno, sperando di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna, non sarebbe probabilmente mai nato il capolavoro dantesco. Infatti, alla fine rivolge una preghiera a Dio affinché la sua anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.

    Non solo la sua anima ma anche il suo corpo giungerà al cospetto della benedetta Beatrice. L’accoglienza non sarà delle migliori ma, dopo aver fatto comprendere al poeta i propri errori (il famoso traviamento), la donna beata sarà per Dante una guida sicura attraverso i cieli, con il suo sguardo e con il sorriso lo aiuterà a superare i limiti umani per comprendere i misteri di Dio. Alla fine, ripreso il suo posto nella Candida Rosa, rivolgerà al poeta l’ultimo sorriso affidandolo a San Bernardo per la parte conclusiva del viaggio. Ormai, grazie alla salus conquistata per mezzo di Beatrice, Dante è pronto alla contemplazione de l’amor che move il sole e le altre stelle.

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

CAPITOLO 3: DIDONE

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 5: MATELDA

CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA

CAPITOLO 7: BEATRICE

LA PROF AUGURA A TUTTI BUONE FESTE

Auguro a tutti di passare un periodo sereno con le persone che amate, dimenticando almeno per un po’ che stiamo vivendo un periodo difficile. Ho trovato una bella poesia di Salvatore Quasimodo che sembra molto attuale, anche se scritta qualche decennio fa.

«Natale» di Salvatore Quasimodo

Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?

buone-feste
[IMMAGINE DA QUESTO SITO]

Vaghe stelle dell’Orsa – Leopardi a scuola

Soprattutto quello che di Leopardi a scuola non si legge. Una bella scoperta … per gli studenti.

Aspasia

Una professoressa deve cambiare scuola e lasciare – dopo 4 anni insieme – la sua IV liceo proprio nell’anno più importante: l’ultimo, l’anno della maturità. L’anno in cui si studia, si legge, si ama Leopardi. Cosa dovrebbe dire questa professoressa salutando i suoi alunni? Molte cose e tutte importanti. Ma fra tutte sente forte una responsabilità, urgente: dare un piccolo contributo per restituire a Leopardi una consistenza reale, di uomo vero, che sa ridere, divertirtisi, che prova rabbia e sa amare fortemente. Provare a rendergli quella verità umana che troppe volte gli viene sottratta dagli impietosi ritratti scolastici che ne fanno il “poeta depresso del pessimismo cosmico”.

Nella cuore della lettera di saluto ai ragazzi – tra ricordi condivisi, riflessioni e raccomandazioni – si sono così fatti largo dei testi assenti dai libri di scuola. Un piccolo e speranzoso viatico per leggere Leopardi con occhi più veri.

(…) In V…

View original post 461 altre parole

NON MARINARE LA SCUOLA!


E l’ore…L’ore non passavan mai!

Ero fanciullo, andavo a scuola: e un giorno
dissi a me stesso: -Non ci voglio andare-
E non ci andai. Mi misi a passeggiare
solo soletto, fino a mezzogiorno.

E così spesso a scuola non andai
che qualche volta da quel triste giorno.
Io passeggiavo fino a mezzogiorno
e l’ore… l’ore non passavan mai.

Il rimorso tenea tutto il mio cuore
in quella triste libertà perduto,
e l’ansia mi prendea d’esser veduto
dal signor Monti
, dal signor dottore.

Pensavo alla mia classe, al posto vuoto,
al registro, all’appello (oh, il nome, il nome
mio nel silenzio!) e mi sentivo come
proteso nell’abisso dell’ignoto…

Infine io mi spingea fino ai giardini
od ai viali fuori di città;
e mi chiedevo: -Adesso chi sarà?
interrogato, Poggi o Poggiolini?

E fra me ripetevo qualche brano
di storia (Berengario… Carlo Magno…
Rosmunda…) ed era la mia voce un lagno
ritmico, un suono quasi non umano…

E quante, quante volte domandai
l’ora a un passante frettoloso; ed era
nella richiesta mia tanta preghiera!
Ma l’ore… l’ore non passavan mai!

(MARINO MORETTI)

Le ore a scuola passano velocemente, non marinare!

E se conosci qualcuno che lo fa, digli di smettere.

L’EPIFANIA TUTTE LE FESTE LE PORTA VIA

Siamo quasi arrivati alla fine delle vacanze. Fin da piccola ho imparato che per “ultima arriva l’Epifania che tutte le feste le porta via”. Certo che è un bel periodo per i bambini: prima i vari santi (Santa Lucia o San Nicolò, dipende dai luoghi), poi Babbo Natale, infine la Befana portano i doni ai pargoli che si godono questa pacchia annuale almeno finché ci credono.

A dire la verità la Befana non era presa in grande considerazione a casa mia. Una cosa, però, me la sono sempre chiesta: che c’entravano i re Magi con la Befana? Insomma, quella promiscuità tra sacro e profano mi creava una certa inquietudine. Ma a tutto c’è una spiegazione, quindi ora vediamo che nesso ci può essere tra una festa sacra e un’usanza folkloristica.

Il termine “Epifania” deriva dal greco epiphaneia che significa apparizione e si riferisce, logicamente, all’apparizione della stella cometa che portò i re Magi al cospetto di Gesù bambino. Dal termine greco si passò poi al latino epiphania che, attraverso il linguaggio popolare, diventa prima Pifania, poi Bifania, fino alla distorsione del termine nella parola finale “Befana”.

Ma se dal punto di vista etimologico la spiegazione appare plausibile, che nesso c’è tra i re Magi e la vecchietta, diciamolo pure, un po’ bruttina che viaggia nei cieli a cavallo di una scopa e si intrufola nei camini, lasciandosi scivolare fino a sotto per infilare i doni nelle calze dei bambini? Ebbene, anche a questa domanda c’è una risposta. Infatti, secondo la tradizione, i re Magi, durante il loro lungo viaggio guidato dalla cometa, avrebbero chiesto informazioni sul luogo in cui si trovava Gesù proprio ad una vecchietta; questa pare si fosse rifiutata di aiutarli, salvo pentirsi subito dopo. Così la donna si sarebbe messa alla ricerca lei stessa del bambino ma, non trovandolo, avrebbe iniziato a distribuire dolci e frutta a tutti i bambini che incontrava, nella speranza che uno di essi fosse Gesù. Da quel giorno, sempre secondo la leggenda, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio a cavallo della sua scopa la Befana continua a distribuire doni ad ogni bambino facendo il giro di tutti i camini del mondo.

Per finire, vi lascio una poesia di Giovanni Pascoli, forse una delle più note anche se i versi conosciuti sono per lo più quelli iniziali. Ma leggendola tutta ci si rende conto del messaggio recondito che il poeta voleva lanciare: la Befana non è un essere soprannaturale in grado di portare la felicità a tutti i bambini. È solo una vecchia infreddolita che spia nelle case della gente, si rallegra del benessere che trova presso le famiglie “ricche” ma di fronte alla finestra del povero casolare può solo osservare le lacrime della madre che non riempirà di doni gli zoccoli consunti dei figli e, impotente, se ne vola via sull’ “aspro monte”.

Viene viene la Befana
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! La circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce,
e la neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.
E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.
Che c’è dentro questa villa?
Uno stropiccio leggero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?
Guarda e guarda…tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
guarda e guarda… ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini.
Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale;
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.
Chi mai sale? Chi mai scende?
Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampada di chiesa.
Co’ suoi doni mamma è scesa.
La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.
E che c’è nel casolare?
Un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?
Guarda e guarda… tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra la cenere e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti…
E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila…
Veglia e piange, piange e fila.
La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.
La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange e c’è chi ride;
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sull’aspro monte.

[estratto dall’articolo originale Viene viene la Befana …]

DANTE E PETRARCA: LA PREGHIERA ALLA VERGINE MARIA

In occasione della festa dell’Assunta (ne ho parlato QUI) riporto un bell’articolo di LAURA CIONI, pubblicato su Ilsussidiario.net.

IL “SOCCORSO” DI MARIA A DANTE E PETRARCA

L’ultimo canto della Commedia si apre con la preghiera alla Vergine, il Canzoniere si chiude con la canzone Vergine bella. Sebbene la critica dissuada dal cercare nessi espliciti tra i due testi, è evidente che alcune espressioni si richiamino per analogia e per opposizione.

Vergine madre, figlia del tuo figlio: così, per bocca di san Bernardo, la solenne intonazione teologica della preghiera dantesca.

Vergine bella, che di sol vestita,

coronata di stelle, al sommo Sole

piacesti sì, che ‘n te Sua luce ascose,

amor mi spinge a dir di te parole: è ancora un’apostrofe, di timbro lirico e soggettivo, più articolata del potente ossimoro dantesco.

umile e alta, più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio: Dante in due versi condensa il Magnificat e la profezia dell’incarnazione contenuta nel libro della Genesi.

Vergine santa d’ogni gratia piena,

che per vera et altissima humiltate…

tre dolci et cari nomi ai in te raccolti,

madre, figliuola et sposa.

E, poco sopra:

sola tu fosti electa,

Vergine benedetta,

che ‘l pianto d’Eva in allegrezza torni.

L’espressione di Petrarca, già nella terza e quarta stanza della sua canzone, è eco di una movenza di Donna del Paradiso di Jacopone: Figlio, pate e marito, a testimoniare la persistenza di un’unica dottrina e devozione, pur in contesti poetici e storici diversi.

Prosegue Dante:

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore

per lo cui caldo nell’etterna pace

così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridiana face

di caritate, e giuso, intra i mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

E Petrarca:

Vergine pura, d’ogni parte intera,

del tuo parto gentil figliuola et madre,

ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,

per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,

o fenestra del ciel lucente altera,

venne a salvarne in su li extremi giorni.

Il mistero dell’Incarnazione è indicato da Dante con il simbolo ardente del fuoco, da Petrarca con quello della luce, entrambi di ascendenza biblica.

La vicenda umana dei due poeti ha conosciuto, come quella di ogni uomo, l’amarezza del fatto che la diritta via era smarrita. Ecco come prega Petrarca:

Con le ginocchia de la mente inchine,

prego che sia mia scorta,

et la mia torta via drizzi a buon fine.

Per lui il buon fine è la pace della stabilità in mezzo ai marosi della vita, l’ancora di una stella nella solitudine:

Vergine chiara et stabile in eterno,

di questo tempestoso mare stella,

d’ogni fedel nocchier fidata guida,

pon’ mente in che terribile procella

i’ mi ritrovo sol, senza governo.

[NELL’IMMAGINE: “Assunzione di Maria”, dipinto su tela di E.Porcini, DA QUESTO SITO]