CAPITOLO 7: BEATRICE

Come si è detto nell’introduzione, Beatrice è la protagonista assoluta della Commedia, ben prima della sua entrata in scena che avviene nel XXX canto del Purgatorio.

     Fin dall’inizio del poema, infatti, la sua figura entra prepotentemente nelle terzine dantesche. Lei, la donna amata e perduta prematuramente, è il tramite tra Dante uomo e Dio. Solo lei riuscirà a far ritrovare al suo cantore la diritta via. Beatrice allegoria della Grazia, supremo bene per un cristiano. Beatrice amata e mai dimenticata, unica donna che avesse mai contato nella vita amorosa del poeta. E non importa se alla fine stiamo parlando di amore letterario perché, ce lo insegnano i poeti provenzali, l’amore-passione è extraconiugale, madonna deve essere per forza sposata e nel matrimonio l’amore è il grande assente.

     Beatrice, nel suo farsi anima beata abitatrice dell’Empireo, si preoccupa per il suo poeta e, grazie anche all’appoggio di altre due donne benedette, Santa Lucia e Maria, fa sì che Dante non si perda per sempre nella selva, non vi faccia ritorno una volta uscito da quel buio che lo spaventa a morte a causa delle tre fiere che gli sbarrano il passo verso il colle e gli fanno quasi perdere la speranza di salvarsi.

     Virgilio, intercettato da Beatrice nel Limbo e risvegliato dal suo lungo silenzio, è invitato a soccorrere Dante. La scelta della guida che accompagnerà il poeta nei primi due regni non è casuale. Virgilio è maestro di poetica e autore di un poema, l’Eneide, che aveva dimostrato al mondo la provvidenzialità dell’impero romano e del suo creatore Ottaviano Augusto. Ecco che la salvezza cristiana si coniuga perfettamente con la salvezza del mondo romano che aveva perduto la diritta via a causa della corruzione e dell’avidità di potere caratterizzanti il primo secolo a.C.

     Dante e Virgilio, due poeti e un’unica vocazione: salvare il mondo e celebrarne la sua grandezza partendo dalla notte dei tempi.

     Beatrice dovrà attendere l’arrivo di Dante nel Purgatorio per poterlo guidare fin quasi alla visione di Dio, percorrendo i cieli, rassicurando il poeta con il suo sguardo e illuminando con il suo sorriso l’ultimo tratto del viaggio dantesco.

7.1         La Vita Nuova e il novissimo amore di Dante per Beatrice     

Non si può trattare la figura di Beatrice nella Commedia dantesca se non iniziando da un’opera giovanile in cui è narrata, nella forma del prosimetron, la storia d’amore per questa donna che fin dal primo incontro conquista il suo cuore. Nel II capitolo della Vita Nuova Dante descrive il primo incontro con Beatrice, che avviene quando entrambi hanno nove anni, all’ora nona; la donna è sempre accompagnata dal numero nove (il secondo incontro avviene nove anni dopo, sempre all’ora nona), ma il poeta sembra non capire il significato di tale numero fino alla morte di lei, anch’essa accompagnata dal nove.  Così nel capitolo XXIX cerca di spiegare le ragioni per cui questo  numero fosse in tanto amico di lei, con due supposizioni: la prima si rifà al sistema tolemaico e alla veritade cristiana, secondo i quali nove sono i cieli che si muovono e che hanno influsso sulla terra e quindi il legame tra la donna e il numero nove sarebbe riferibile al fatto che, quando Beatrice nacque, tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme; la seconda si rifà al numero tre che è la radice del nove e che è fattore per se medesimo del nove. Il tre, nella fattispecie, è il simbolo della Trinità, quindi Beatrice è legata ad essa, anzi ella è un nove, cioè un miracolo, la cui radice è la mirabile Trinitade. Delle due supposizioni Dante preferisce la seconda; infatti, la sua donna è scesa in terra per salvarlo e non è soggetto personale, ma è figura esemplare, paradigmatica dell’amore.

     Ogni dettaglio su questa donna e sul suo rapporto con il poeta fa parte della fictio poetica. Si può, quindi, parlare di “storia d’amore”? Dalla poesia cortese provenzale apprendiamo che l’amore dei poeti doveva essere rigorosamente extraconiugale. I matrimoni a quel tempo erano combinati e perlopiù infelici. Spesso erano esenti da censure le unioni extraconiugali se interessavano un uomo sposato mentre la donna, fin dai tempi antichi, era considerata un’adultera e soggetta talvolta anche alla morte senza possibilità d’appello. La donna poteva essere ripudiata dai re (per esempio, la povera Ermengarda abbandonata da Carlo Magno e morta a causa di un dolore che Manzoni ha immortalato a imperitura memoria nel commovente coro dell’Adelchi) ma doveva quantomeno recitare il ruolo di moglie devota per tutta la sua vita. Questo ancor prima che il Cristianesimo imponesse le sue regole etiche e morali.

     Dante non poté decidere chi sposare. La famiglia Alighieri, quando il figlio Durante (questo il vero nome del poeta fiorentino) aveva appena 12 anni, stabilì di comune accordo con la famiglia Donati che avrebbe dovuto sposare Gemma. Altrettanto accadde a Beatrice, ovvero Bice Portinari, figlia di un banchiere che era convolata a nozze con un uomo tra i più facoltosi di Firenze, tale Simone de’ Bardi detto Mone. Morì presumibilmente di parto nel 1290, una data che sarebbe ricavata proprio dall’opera dantesca.

     Non c’è alcuna descrizione della fanciulla, non sappiamo di che colore avesse gli occhi e i capelli né ci è nota alcuna caratteristica fisica. La bellezza di Beatrice è cantata da Dante con vaghi accenni perché quel che conta, per il poeta, è descrivere l’effetto che quella giovane aveva su di lui e su tutti quelli che per strada incrociavano il suo sguardo e avevano la fortuna di ricevere un lieve cenno di saluto.

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ’ntender no la può chi non la prova:

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: Sospira.                           (Vita Nuova, capitolo XXVI)

Il sonetto fa parte della Vita Nuova che rappresenta un po’ il diario di Dante o, come dice lui, libro de la mia memoria di cui si considera solo uno scriba, nel quale ripercorre le tappe della sua vita giovanile rinnovata dall’incontro con Beatrice. Il linguaggio usato nella descrizione della sua donna – il possessivo non è messo lì a caso – è chiaro: è gentile e onesta, aggettivi che la riconducono al modello della donna cantata dagli stilnovisti e allo stesso tempo al patto d’amore, quel foedus indispensabile in ogni rapporto amoroso dai tempi di Catullo in poi. Anche gli effetti del saluto di Beatrice rimandano a un concetto antico: l’amore che impedisce di parlare, fa abbassare lo sguardo, fa sospirare.

     Apparentemente si tratta di un’opera in perfetto stile stilnovista: si celebra la donna che viene dipinta come creatura angelica, a lei si dedicano versi d’amore appassionati, un cenno degli occhi e un suo sorriso rappresentano già una grande conquista per il poeta. Ma Beatrice non è una donna come tutte le altre e soprattutto muore prematuramente, facendo sprofondare nello sconforto l’amato che, tuttavia, mantiene memoria di lei cantando il suo amore. La morte di Beatrice è necessaria: solamente passando a miglior vita, infatti, può rivestire il ruolo di guida per Dante nell’ultima cantica della Commedia. Non è più soltanto un angelo, è un’anima beata. Ciò la distingue dalle donne cantate dai poeti partendo dalla poesia cortese provenzale, passando attraverso la lirica siciliana, quella siculo-toscana e infine lo Stilnovo.

     La Vita Nuova rappresenta, dunque, anche la storia della lirica d’amore che subisce un’evoluzione seguendo la tradizione, fino al suo superamento. Nei primi componimenti Dante risente dell’influenza dei lirici toscani di cui Guittone d’Arezzo è il maggiore esponente: è per sempre legato alla sua donna, a cui chiede il saluto in cambio del suo servizio e di cui nasconde la vera identità, secondo la tradizione del senhal provenzale. Compaiono anche le donne dello schermo, presenti già nella tradizione in lingua d’Oc, che però procurano al poeta l’accusa di volubilità e lo sdegno di Beatrice che gli nega il saluto, perché l’amor cortese, calato nell’ambiente comunale, è legato a virtù come la fedeltà e la costanza. Dalla negazione del saluto dell’amata nascono i sonetti “della lode e del saluto” che seguono la tradizione provenzale, ma si accostano anche alla poesia di Guinizzelli, precursore dello stinovismo, e soprattutto Cavalcanti le cui liriche sono perlopiù improntate sull’amore che provoca sofferenza.

Quando incontra Beatrice che lo saluta, Dante dice che i sensi, spiritelli che vagano per il corpo, vengono distrutti dallo spirito d’amore, perde la vista e il controllo di sé e cade in preda alla signoria d’Amore. A questo punto interviene in suo aiuto il Dio d’Amore che, parlandogli in latino, lo invita a rivelare il suo vero amore che non può più sottostare alle regole della tradizione cortese. Da questo momento in poi inizia il Dolce Stil novo di Dante. Il poeta spiega che il fine del suo amore fu il saluto di Beatrice e in questo dimorava la sua beatitudine. Ora, però, anche se la sua donna gli nega il saluto, la felicità non viene meno perché è realizzata dalle parole che la lodano.

     Dante, quindi, ama Beatrice per ciò che è, non per ciò che può donargli. Da qui ha origine la decisione di prender per matera de lo parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima e in ciò consiste la “matera nova” preannunciata al capitolo XIII, che inizia con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore (capitolo XIX). In questo componimento Dante scopre la sua inconfondibile personalità e si rende conto della soggettività della sua creazione. Ma, come abbiamo detto, amore e poesia formano un binomio indissolubile in tutta l’opera, quindi alla “matera nova” corrisponde anche un “nuovo” amore che non ha più legami con quello cortese e che si sta preparando a superare quello stilnovistico: l’amore di Dante ha cessato di essere una tempestosa passione che alla vista della donna amata lo paralizza, piuttosto si risolve in un’estasi contemplativa di una creatura con caratteristiche soprannaturale. A conferma di ciò basta vedere cosa dice Amore di lei: Cosa mortale come po’ esser sì adorna e sì pura? (Vita Nuova, capitolo XIV), poi giura che Dio ha intenzione di far di lei qualcosa di eccezionale.

     Se la felicità sta nel lodare la donna amata senza chiedere nulla in cambio, il sentimento che Dante nutre per Beatrice da amor diventa caritas, si tratta dunque di un novissimo amore. Tale passaggio è reso possibile dalla morte di Beatrice che, nella visione avuta da Dante durante una malattia, ha stretti legami con l’Ascensione di Cristo (ibidem, capitolo XXIII). Già si inizia a intravedere il rapporto di Beatrice con Cristo, rafforzato da una successiva visione: ella si trova insieme a Giovanna, la donna dell’amico poeta Cavalcanti, che è chiamata Madonna Primavera, cioè “prima verrà”, perché il suo nome deriva da quello di Giovanni Battista, colui che ha preceduto Gesù. Insomma, Beatrice è Amore e se Cristo è espressione dell’Amore puro e disinteressato, la donna diventa figura Christi (ibidem, capitolo XXIV).

     Seguendo il pensiero di San Bonaventura, che si rifà a Sant’Agostino, nelle sue opere il poeta toscano compie un vero e proprio Itinearium mentis in deum. Quando il fine dell’amore è il saluto della donna (come accadeva ai poeti cortesi), assistiamo al primo stadio della Scala Mistica di Sant’Agostino (extra nos); quando il fine nasce dentro il poeta, nelle parole di lode che rivolge all’amata (come per gli Stilnovisti), siamo al secondo stadio (intra nos); quando, infine, l’amore si eleva rispetto all’uomo, salendo verso Dio, siamo al terzo stadio della Scala Mistica (supra nos). Questo processo giustifica la novità della vita di Dante: è nuova perché in essa l’amore viene ordinato e rinnovato, in vista di un fine. L’amore del poeta è ordinato perché egli è partecipe dell’amore di Dio attraverso la sua donna.

     Nel momento in cui identifica chiaramente Beatrice con Cristo, nel capitolo XXIV della Vita Nuova, per il poeta è importante decretare la definitiva uscita di scena di Amore che cede il passo alla donna con queste parole: E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta somiglianza che ha meco.

     A questo punto, per capire meglio il significato dell’identificazione di Beatrice con Amore, bisogna fare un passo indietro. Nell’amor cortese avevamo tre protagonisti, cioè il poeta che cantava il suo amore per la donna, la domina che godeva dei servigi del poeta-servitore, o se vogliamo dirla in termini cortesi del poeta-vassallo, e il dio d’Amore che dettava le sue leggi e che teneva in sua signoria il cuore del poeta. Il trovatore guardava sempre in alto perché la donna non era mai al suo stesso livello, ma era superiore; tuttavia si fermava all’altezza della domina e non riusciva a salire più in alto verso il Dominus, cioè Dio. Tuttavia il tempo a cui appartiene l’Alighieri è caratterizzato da un profondo cambiamento sociale che necessariamente influenza anche il modo di fare poesia.

     Nell’Italia comunale presto si mette in luce il conflitto tra amore trovadorico e amore cristiano; già Guittone d’Arezzo ne è consapevole poiché ritratta tutta la sua lirica amorosa, senza però trovare una soluzione al conflitto. Più tardi, affermandosi lo Stilnovo e la concezione della “donna angelicata”, si imbocca la strada giusta per giungere alla caritas ma ancora non si è giunti allo scopo: trovare un oggetto d’amore che fosse subordinato all’amore per Dio, come presuppone l’amore cristiano. Tutto quello che lo Stilnovo è riuscito a fare è innalzare la donna un po’ di più, dandole una dimensione più “celeste”.

     In Dante, fin qui, abbiamo riconosciuto l’influenza dell’amor cortese e dello Stilnovo; a questo punto, l’eliminazione del dio d’Amore, con il conseguente ripudio dell’amore trovadorico, e l’attribuzione di tutta l’autorità d’Amore a Beatrice fanno parte della strategia dantesca mirante a fondere l’amore per la donna e l’amore per Dio e a mantenere questa funzione fino alla conclusione della Vita Nuova. L’eliminazione, infatti, è necessaria perché nell’universo dell’amore cristiano non può esserci posto per un dio d’Amore trovadorico con la sua autorità e le sue leggi, ed è la carità che spezza gli angusti confini dell’amor cortese.

     Nel capitolo XXV continua la strategia intrapresa in quello precedente e viene chiarito che cosa Dante intenda per Amore. Tutte le cose che il poeta dice d’Amore fanno pensare non solo a una sustantia intelligente ma anche a una sustantia corporale, il che è falso perché Amore non è per sé sì come sustantia, ma è uno accidente in sustantia. Con tali osservazioni l’Alighieri vuole intendere che l’amore è una passione che si manifesta negli individui, tuttavia i poeti, quando hanno iniziato a comporre liriche d’amore, lo hanno rappresentato come se fosse un uomo.

     Nella definizione del poeta fiorentino non c’è nulla che faccia pensare alla caritas, ma si intravede la possibilità che l’amore si riveli come carità. Secondo Singleton (cfr. Saggio sulla Vita Nuova, Bologna, Il Mulino, 1968) la chiosa dantesca si rifà all’insegnamento di San Bernardo ed è, quindi, verità cristiana. Infatti, per quest’ultimo l’amore che ci raggiunge sulla terra è amore creato, in quanto solo l’amore di Dio è carità sostanziale; quindi un dio dell’Amore non poteva essere simbolo dell’amore creato, ma può esserlo Beatrice che è una creatura. Inoltre San Bernardo insegnava che la carità è amore fra gli uomini accomunati dal peccato e riconoscenza verso Dio che ci ha salvati sacrificando suo figlio. L’avvicinamento tra l’uomo e Dio avviene attraverso tre momenti ascensionali che rendono la volontà umana libera dalla necessità, da cui dipende la possibilità di scegliere tra il bene e il male, nonché dal peccato e dalla miseria, cioè l’infelicità connessa alla condizione stessa dell’uomo. Questo processo di avvicinamento e unione a Dio è resa possibile dall’amore di cui Gesù Cristo è espressione. A questo punto sarà più chiara l’identificazione di Beatrice con Cristo: Beatrice è Amore e se Cristo è espressione dell’Amore, la donna diventa figura Christi. Inoltre Sant’Agostino riteneva l’amore un dono di Dio ed è evidente che Beatrice sia dono di Dio: scende dal cielo e porta la beatitudine.

     A conferma di ciò, nei capitoli XXVI e XXVII la donna amata dal poeta è descritta come un “miracolo” che ha i suoi effetti benefici su tutti e non solo sul suo cantore: dal giudizio della gente Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo da cui scaturisce il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, dove appare come una cosa venuta dal cielo a miracol mostrare, si passa a quello del poeta per il quale la donna gli dona salute. Pertanto già nella Vita Nuova la figura di Beatrice è l’elemento di coesione tra il poeta e Dio: si chiude il cerchio di un amore iniziato in cielo. Questo ritorno a Dio è determinato proprio dalla scomparsa di Beatrice. Gli Stilnovisti non hanno cantato la morte della donna e, se l’hanno fatto, la poesia non era corredata dalla prosa che conferisce verità al fatto. Nello Stilnovo al limite moriva l’uomo poiché l’amore era visto come una sofferenza che a volte portava alla morte. Ed è la morte di Beatrice, oggetto dell’amore del poeta, a far sì che Dante rivolga il suo sguardo a Dio e individui la strada della salvezza: Beatrice è morta per salvare Dante come Cristo ha sacrificato la sua vita per salvare l’umanità intera.

     Non a caso nella Vita Nuova, all’inizio del capitolo XXVIII, un incipit di Geremia annuncia la dipartita di Beatrice: Quomodo sedet sola civitas plena populo: facta est vidua domina gentium. Un annuncio solenne come solenne è l’avvenimento: Firenze è rappresentata nella più grande desolazione, come una Gerusalemme terrena che abbia perduto il suo Salvatore. Inoltre la morte di Beatrice è vista come una partita da noi dovuta non tanto alla malattia, quanto al fatto che il cielo non avrebbe potuto tanto a lungo sopportare la sua mancanza.

     Altrettanto studiata appare la conclusione della Vita Nuova: il desiderio più grande di Dante è che la sua anima possa un giorno vedere la benedetta Beatrice la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus. Infatti la giovane, guida terrena di Dante dall’amore alla caritas, nella Commedia vestirà i panni di guida celeste verso Dio e se nella Vita Nuova rimane sempre tra il poeta e Dio, nel capolavoro dantesco si farà da parte e gli permetterà di contemplare l’amor che move il sole e l’altre stelle.

7.2       La sublimazione dell’amore grazie a Beatrice

     Nel canto XXIV del Purgatorio, nella medesima cornice dei golosi in cui avviene lo scambio con Forese Donati, Dante incontra un altro personaggio: Bonagiunta Orbicciani da Lucca. Si tratta di un notaio con velleità poetiche, imitatore della poesia siciliana che contribuì a portare in Toscana la poetica cortese provenzale filtrata attraverso le rime dei poeti che gravitavano attorno a Federico II e alla sua corte palermitana, dando poi vita alla lirica toscana la quale ha come caposcuola Guittone d’Arezzo.

     Il fatto che Bonagiunta sia un goloso è di secondaria importanza.  Il poeta lucchese, infatti, ha un ruolo fondamentale nell’ambito delle profezie dell’esilio su cui Dante sarà edotto durante il suo cammino nei tre regni; inoltre, essendo un poeta, quest’anima penitente dà all’autore la possibilità di riprendere il discorso sulla poesia, già iniziato nel Purgatorio con Guinizzelli.

[…] Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore 
trasse le nove rime, cominciando 

‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».                                  (Purgatorio, XXIV, vv. 49-51)

Bonagiunta capisce bene chi ha di fronte e ne chiede conferma a Dante: è, infatti, proprio lui l’autore della canzone, compresa nel XIX capitolo della Vita nuova, di cui viene citato il verso inziale. La citazione non è casuale. Nella poesia Donne ch’avete intelletto d’amore l’autore fa esplicito riferimento a Beatrice come colei che è attesa, in veste di anima beata, nel cielo Empireo: Madonna è disiata in sommo cielo. Ella ha tutte le virtù che la rendono degna del suo ingresso nel regno di Dio: lo stesso Amore dice di lei Cosa mortale / come esser pò sì adorna e sì pura?

     Alla domanda del poeta lucchese l’Alighieri replica definendo senza filtri la sua poetica:  

«I’ mi son un che, quando 
Amor mi spira, noto, e a quel modo 
ch’e’ ditta dentro vo significando
».                                       (ibidem, vv. 52-54)

Ecco ciò che distingue Dante dai poeti precedenti: l’ispirazione diretta da parte dell’Amore, personificato, che detta lui stesso ciò che il poeta mette per iscritto. Come nella stessa Vita Nuova l’autore spiega, egli è uno scriba. La risposta di Orbicciani ha il tono di chi ha avuto la rassicurazione che attendeva: ecco quel nodo che ha trattenuto i predecessori, da Jacopo da Lentini a Guittone d’Arezzo, i quali non hanno saputo essere così ispirati da comporre le rime del dolce stil novo. Un elogio, quello di Bonagiunta, che potrebbe essere considerato motivo di orgoglio per Dante. Ma non dimentichiamo che è l’auctor a scrivere questi versi: il riferimento al novo stile inaugurato dai poeti fiorentini e portato avanti da Dante non è forse da attribuire a un innocente peccato di superbia? Oltre alla gola, la superbia è l’altro grande peccato di cui Dante si sente macchiato. Ne troviamo conferma nell’XI canto del Purgatorio dove avviene l’incontro con un famoso miniatore, Oderisi da Gubbio, che forse l’Alighieri aveva incontrato a Bologna nel 1287.

     È incerto anche il motivo per cui Oderisi possa essere definito superbo e tra l’altro le sue opere ci sono ignote come quelle del suo concorrente Franco Bolognese, anch’egli citato da Dante, poiché nessuna miniatura può essere attribuita con certezza all’uno o all’altro. Vasari racconta che Oderisi si sarebbe trasferito da Bologna a Roma forse spinto dalla ricerca di maggior fama. Ma la sua arte, legata alla corrente tradizionale e allo stile bizantino, sarebbe stata in breve surclassata da quella di Franco, più innovativa e aperta agli influssi francesi e alla pittura di Giotto.

     Avendolo Dante riconosciuto, Oderisi gli si rivolge chiamandolo frate e spiegandogli l’inutilità del suo gran disio / de l’eccellenza:

Di tal superbia qui si paga il fio; 
e ancor non sarei qui, se non fosse 
che, possendo peccar, mi volsi a Dio
.                                    (Purgatorio, XI, vv. 88-90)

Ma l’accenno al miniatore di Gubbio si rivela ben presto un pretesto per affrontare la questione della gloria terrena la quale, al contrario di quella celeste, è considerata effimera:

Oh vana gloria de l’umane posse! 
com’poco verde in su la cima dura, 
se non è giunta da l’etati grosse!                                  

Credette Cimabue ne la pittura 
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, 
sì che la fama di colui è scura:                                      

così ha tolto l’uno a l’altro Guido 
la gloria de la lingua; e forse è nato 
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.  
                                     (Purgatorio, XI, vv. 91-98)

La gloria cui aspirano i mortali è paragonata alle foglie di un albero che presto ingialliscono e sono destinate a cadere. Le etati grosse sono le età in cui si assiste a un decadimento artistico-culturale, quindi la fama di un artista è condizionata dal fatto che le sue possibilità di imporsi nel panorama culturale sono maggiori se a lui segue un periodo di crisi intellettuale. Al contrario, la fama è oscurata da chi dimostra in qualche modo di aver superato il maestro: così accadde a Cimabue, maestro di Giotto, ben presto dimenticato grazie all’ingegno dell’allievo e a un Guido che ha superato un suo omonimo nella gloria de la lingua. È chiaro, in questo passaggio, il riferimento a Cavalcanti il quale, in ambito poetico, superò lo stesso Guinizzelli cui si attribuisce il merito di aver posto le basi per il grande successo della poesia stilnovistica. Poi, però, si legge che forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido, ossia si ritiene probabile l’arrivo di un altro poeta che supererà entrambi ottenendo maggior fama. Il nido rappresenta quindi il prestigio poetico e chi mai avrebbe potuto cacciare dal nido illustri poeti del calibro dei due Guido? Evidentemente Dante stesso e non è difficile da credere, dopo aver letto il canto XXVI del Purgatorio in cui queste parole trovano conferma.

     Prima, tuttavia, è bene prestare attenzione alle parole di Viriglio nel canto XVII. Qui, nell’esposizione dell’ordinamento del Purgatorio, la superbia è descritta assieme all’invidia e l’ira, come uno dei tre modi per cui l’amore naturale (di elezione) può diventare un errore quando è rivolto all’oggetto sbagliato oppure se il suo vigore è scarso o eccessivo. In altre parole, se l’amore è diretto verso il primo bene (Dio) ed è equilibrato verso gli altri (i beni terreni), il piacere che si prova non può essere peccaminoso. Tuttavia, come spiega a Dante la sua guida, quando l’amore segue una direzione sbagliata, desiderando il male del prossimo, si commette peccato. Ciò può avvenire in tre modi diversi: uno di questi interessa Dante e la sua superbia:

È chi, per esser suo vicin soppresso, 
spera eccellenza, e sol per questo brama 
ch’el sia di sua grandezza in basso messo
;                           (ibidem, vv. 115-117)

Il superbo, dunque, spera di primeggiare calpestando il suo vicino e solo per questo desidera che quello perda la sua grandezza. Come apprendiamo da San Tommaso (Sum. theol. II II 162 6), la sola aspirazione a eccellere è ammissibile quale amore del bene proprio ma diventa inaccettabile quando tale aspirazione sia connessa alla tendenza ad abbassare il prestigio del prossimo. Questo è il concetto espresso da Oderisi da Gubbio nel momento in cui confessa a Dante che lo gran disio / de l’eccellenza gli avrebbe impedito, in vita, di riconoscere i meriti dell’altro miniatore e spiega che di tal superbia, appunto, si paga il fio (v. 88) nel primo girone.

     Ed ecco che, ritornando al canto XXVI del Purgatorio, si chiude il cerchio. Come già visto, l’incontro tra i due poeti, il bolognese Guinizzelli e il fiorentino Dante, permette all’auctor di ragionare d’amore ma soprattutto di poesia. In tale passaggio fa dire all’anima dell’illustre predecessore ciò che, per celare la sua superbia, non può ammettere da sé: il prestigio di un artista non è dettato dalla posizione che occupa nell’ambito di un movimento letterario ed essere ultimi di per sé non è in relazione alla scala di valori. Il valore di Dante, come osserva Guinizzelli, non potrà essere offuscato nemmeno dalla necessaria immersione del poeta nel fiume Lete, prima di accedere al Paradiso:

 «Tu lasci tal vestigio, 
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro, 
che Leté nol può tòrre né far bigio
.»                                     (Purgatorio, XXVI, vv. 106-108)     

Più tardi, Matelda chiarirà a Dante la funzione dei due fiumi che scorrono nell’Eden: la loro acqua sgorga per volontà divina e ha una duplice funzione: quella del Lete serve a dimenticare il peccato (toglie altrui memoria del peccato), quella dell’Eunoé contribuisce a risvegliare nelle anime il ricordo delle buone azioni e il suo sapore è superiore a ogni altro (a tutti altri sapori esto è di sopra). Il vestigio che l’auctor è destinato a lasciare ai posteri, se non verrà mai ricompensato dall’ingrata patria, fu reso possibile grazie al poema che Beatrice stessa gli aveva ispirato dopo la sua morte.

7.3       La salvezza di Dante è riposta in Beatrice

Dante è spesso autoreferenziale. Non può non esserlo dal momento che riveste i due ruoli di agens e auctor. Abbiamo già visto l’importanza che la Vita Nuova assume nel ricostruire alcuni suoi dati biografici ma anche la storia della sua poetica. La Commedia non è da meno e risulta una preziosa fonte di informazioni, a partire dalla terzina inziale:

Nel mezzo del cammin di nostra vita

 mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.                                               (Inferno, I, vv. 1-3)

     La selva oscura e la diritta via smarrita rappresentano gli estremi della Fede: il peccato e la strada illuminata dalla Grazia divina che permette al perfetto cristiano di giungere, dopo la morte, al cospetto di Dio. Ma come arriva il nostro poeta, ancor vivo, nella selva oscura? Naturalmente sa di essere un peccatore, come tutti del resto. Forse non ha ancora ben messo a fuoco il motivo per cui, proprio in quel momento, avviene questo smarrimento che lo mette a dura prova. Alla selva come allegoria del peccato, tuttavia, accenna anche nel Convivio: l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Nè lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente (IV, XXIV)

     Dante agens ha smarrito la strada maestra tant’era pien di sonno. Il sonno della ragione non gli permette di tenere lo buono cammino. Certo, il poeta trentacinquenne non può essere considerato un adolescente, neppure se ci appoggiamo al significato della parola latina adulescens che identificava il “giovane adulto” il quale diventava iuvenis solo verso i 30 anni. L’Alighieri ci dà un forte indizio sull’ “età della perdizione”: era a metà del cammino della vita umana e, considerando come aspettativa di vita il termine medio dei 70 anni, ne aveva 35. Poiché è certo che il viaggio ultraterreno ebbe luogo nel 1300, da questa data è stato calcolato l’anno di nascita: 1265. Non conosciamo il giorno preciso ma presumibilmente nacque verso la fine di maggio nel sesto di Porta San Pietro. Da numerose fonti interne apprendiamo che era nato sotto il segno dei gemelli.

     L’Alighieri è un poeta, certamente un peccatore, come abbiamo visto, ma l’aver rinunciato all’eros per la caritas, grazie a Beatrice, l’ha reso indenne dal peccato di lussuria. Altrettanto non si può dire dei suoi amici poeti. Nel XXVI canto del Purgatorio, tra i lussuriosi in attesa di purgarsi della loro colpa prima di accedere al Paradiso, troviamo Guido Guinizzelli, il caposcuola dello Stilnuovo. La sua canzone Al cor gentil rempaira sempre amore è considerata il manifesto della scuola poetica di cui fecero parte anche Cavalcanti e Dante stesso. Nella lirica citata ritroviamo due concetti chiave della nuova scuola: la sostituzione della nobiltà per stirpe (ormai superata dal peso sociale sempre maggiore della borghesia nell’età comunale) con quella del cuore. L’aggettivo gentile, infatti, rimanda proprio a questo concetto: a prescindere dal fatto che si fosse nobili di nascita oppure borghesi, quel che conta è la nobiltà del cuore. Questa raggiungeva la sublimazione proprio nei versi poetici in cui venivano decantate le doti della donna-angelo. Ecco spiegato il secondo concetto chiave.

Come si è detto, Dante supera questa fase poetica nel momento in cui le parole di lode scritte per l’amata Beatrice vengono sostituite dall’esaltazione letteraria, ma non solo, della donna che nella Commedia diventa anima beata, allegoria della Grazia e della teologia.

     Nella stanza finale della canzone, Guinizzelli si pone il problema di dover rendere conto a Dio dell’amore provato, decisamente terreno, per la sua donna. Cerca di giustificarsi dichiarandosi vittima dell’abbaglio subito nel momento in cui quella donna aveva assunto le sembianze di un angelo:

Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza»
.

“Mi sembrava un angelo, ne aveva l’aspetto, non è colpa mia se mi sono lasciato ingannare dall’apparenza…”, più o meno questa è la giustificazione addotta dal poeta bolognese. Una giustificazione che evidentemente Dante non ritiene sufficiente, dal momento che relega Guinizzelli nella cornice purgatoriale dove si sconta il peccato di lussuria.

     Quello che distingue il poeta fiorentino dai suoi amici stilnovisti, come si è visto, è il passaggio dall’amor alla caritas ma anche la possibilità di riscatto che gli viene concessa proprio grazie al viaggio nell’Oltretomba che gli renderà chiari i suoi peccati in vista di una futura ed eterna salvezza, oltre al fatto che la donna amata non ha solo d’angel sembianza; Dante non è vittima di un abbaglio ma è perfettamente consapevole che la sua donna è ormai una creatura celeste e appartiene al regno di Dio.

     Il poeta fiorentino sa bene che il suo progetto è ambizioso: la donna-guida perde i connotati umani nel momento in cui assolve al compito di redimerlo. Non solo: all’Alighieri spetterà l’onore ma anche l’onere di raccontare la sua avventura, affinché sia da monito per i cattivi cristiani che, grazie a lui e alla sua fantasia, sapranno in anticipo in quali punizioni potrebbero incorrere e salvarsi per tempo. Ecco che l’esperienza di Dante agens diventa universale.

7.4       L’incontro con Beatrice nel Paradiso Terrestre

     Nel II canto dell’Inferno l’autore, mentre riporta il colloquio tra Virgilio e Beatrice avvenuto nel Limbo, fa sì che la donna timidamente lo descriva come l’amico mio, e non de la ventura (v. 60), che significa più o meno “colui che mi ama in modo disinteressato” (a conferma che i sentimenti del poeta non sono più caratterizzati dall’eros, come avveniva per gli scrittori coevi, specialmente gli Stilnovisti, ma dalla caritas). Un tono affettuoso, certamente, ma non sufficiente a farci comprendere quali fossero davvero i sentimenti della donna nei confronti del poeta. In fondo è sempre Dante, nella veste di auctor, a dar voce a Beatrice e l’incontro con lei nel mondo ultraterreno non ha la minima parvenza di un ritrovarsi fra innamorati. È vero che la donna amata è un’anima beata, ormai lontana dai sentimenti terreni, e non si può negare che il suo ruolo sia quello di portare il poeta alla salvezza, prima ancora che sia sopraggiunta per lui la morte. Tuttavia, leggendo gran parte del XXX canto del Purgatorio i lettori rimangono interdetti, esattamente come gli angeli che si stupiscono del tono di rimprovero così aspro usato dalla donna nel rivolgersi al pellegrino. Quando, giunto nell’Eden, gli appare l’anima di Beatrice gloriosa sul carro che simboleggia la Chiesa, pur non avendo modo di riconoscerla in quanto avvolta in un candido velo, Dante rappresenta i suoi sentimenti paragonandoli all’antica fiamma che sente nuovamente divampare nel suo cuore. Non sa ancora quale accoglienza la donna gli riserverà ma la potenza dell’amore che si risveglia nel suo intimo lo spaventa, nonostante fin dall’inizio del suo viaggio ultraterreno sappia di essere destinato a rivederla. Invano cerca con lo sguardo Virgilio, ormai uscito di scena:

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi

di sé, Virgilio dolcissimo patre,

Virgilio a cui per mia salute die’mi.                                      (Purgatorio, XXX, vv. 49-51)

     In questa terzina il poeta esprime il dolore per la perdita del dolcissimo patre, accomunando nel suo sconforto anche Stazio e Matelda (n’avea lasciati scemi) e allo stesso tempo la gratitudine che prova nei suoi confronti poiché grazie a lui e al coraggio che fin dal primo incontro gli aveva infuso nell’animo impaurito, Dante aveva rotto gli iniziali indugi e si era persuaso a intraprendere un’impresa straordinaria. Uno scambio di consegne tacito e inaspettato, quello tra le due guide, tanto da provocare nel poeta un pianto disperato che suscita la reazione, davvero impossibile da prevedere, da parte della donna amata:

«Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non pianger ancora;

ché pianger ti conven per altra spada».                                (ibidem, vv. 55-57)

Beatrice lo chiama per nome ed è l’unica volta in cui esso compare nell’intero poema. La citazione non deve essere intesa come atto di superbia, anzi, rappresenta l’umiliazione cui il poeta sarà sottoposto nella lunga accusa che gli sarà riservata e ha la funzione di amplificare il tono accusatorio dell’anima beata che non gli risparmia nulla: altre lacrime l’uomo dovrà versare per ben altre colpe. L’utilizzo della metafora della spada presuppone che il dolore e il rimorso lo ferirà duramente. D’altronde è proprio attraverso la consapevolezza degli errori commessi che si aprirà per lui la strada verso i cieli.

     Il pellegrino finalmente riconosce nell’aspetto Beatrice: attraverso la similitudine dell’ammiraglio che si aggira per la nave al fine di controllare l’equipaggio spronandolo a operare in modo coretto, la donna assume l’atteggiamento di chi sta agendo per il bene altrui mantenendo l’imperturbabilità che lascia, tuttavia, intravedere la pietà provata per Dante. Lo stesso portamento regale più avanti descritto viene accostato a quello assunto da colui che dice / e ‘l più caldo parlar dietro riserva. (vv. 71-72). Per rendere ancora più solenne questo momento, nella terzina successiva la donna con tono imperativo invita Dante a guardarla bene. Forse a causa del timore reverenziale da cui è assalito, il poeta ha distolto lo sguardo.

«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.

Come degnasti d’accedere al monte?

non sapei tu che qui è l’uom felice?»                                    (ibidem, vv. 73-75)

Ben due volte pronuncia il suo nome. Quel ci enclitico (guardaci) può essere considerato un plurale majestatis e forse si collega all’aspetto regale della donna prima descritto, oppure è da intendere come francesismo, ici, nel senso di “qui”. Ma ciò che più attira l’attenzione in questi versi è l’aggettivo felice: “non sapevi che la felicità umana risiede in questo luogo?”. Ma di quale luogo parla Beatrice? Siamo ancora nell’Eden quindi è probabile che il poeta voglia intendere che solo il luogo eletto da Dio quale dimora eterna per gli uomini avrebbe garantito la loro felicità. Come Adamo ed Eva avevano tradito la fiducia del Creatore mangiando il frutto proibito, così Dante si era allontanato dalla diritta via abbandonandosi al peccato, trascurando la lezione di Beatrice.

Si è già detto che i peccati di Dante, per sua stessa ammissione più o meno velata, erano la gola e la superbia. Peccati mortali, è vero, ma non così determinanti da decretare prima della morte stessa una condanna divina senza appello. Proprio attraverso le parole di Beatrice troviamo la conferma che il Peccato, con la P maiuscola, commesso dall’Alighieri è un altro e ben più grave. Il tono accusatorio che segue ribadisce questo concetto. È come se Dante auctor voglia riferirsi a una sorta di “peccato originale” personalissimo dal quale non Dio ma la donna amata l’ha preservato finché era in vita.  Questa è la spiegazione che ella fornisce agli angeli che intervengono in difesa dell’uomo; anch’essi fanno difficoltà a comprendere il motivo per cui l’anima beata sia così severa, tanto che il poeta la paragona a una madre che in fondo fa il suo dovere: redarguire per correggere.

     Sulla vera colpa di Dante si sono fatte molte congetture. La critica parla di un traviamento di cui si ha testimonianza, oltre che in questo passo della Commedia, anche in altre opere. Beatrice rimprovera il poeta di aver perso la dritta via dopo la sua morte, per essersi lasciato ingannare da “immagini false del vero”.

«Alcun tempo il sostenni col mio volto: 
mostrando li occhi giovanetti a lui, 
meco il menava in dritta parte vòlto.                            

Sì tosto come in su la soglia fui 
di mia seconda etade e mutai vita, 
questi si tolse a me, e diessi altrui
.»                                      (ibidem, vv. 121-126)

Si potrebbe ravvisare un po’ di gelosia nelle parole di Beatrice. Quell’altrui potrebbe riferirsi a un’altra donna, forse quella donna gentile di cui Dante tratta nella Vita Nuova. Un momento di smarrimento, un traviamento cui il poeta accenna anche nel Convivio riferendosi, però, agli interrotti studi di teologia per dedicarsi alla filosofia che allora era concepita come disciplina umana, svincolata dai precetti divini trasmessi attraverso la teologia. Essere filosofi, nel Medioevo, comportava la responsabilità di trovare elementi di coesione con un mondo pagano, quello antico, incompatibile con il Cristianesimo. Tuttavia, non veniva rinnegata l’importanza della filosofia in sé, tanto che negli scriptoria dei monasteri medievali gli amanuensi erano dediti a un instancabile lavoro di trascrizione dei codici e ciò ha permesso che il patrimonio culturale trasmesso dai classici travalicasse i confini del mondo antico e giungesse fino a noi. Perciò nel Medioevo la filosofia, attraverso la Scolastica, ha fatto un lungo lavoro di reinterpretazione al fine di dimostrare razionalmente i contenuti di fede. Uno dei più importanti rappresentanti della Scolastica fu San Tommaso che si prefisse di rendere compatibile la filosofia aristotelica con gli insegnamenti cristiani. Dante, quindi, dopo la morte di Beatrice avrebbe trascurato gli studi teologici (di cui, tuttavia, mostra ampia conoscenza in tutte le sue opere) per dedicarsi alla filosofia concentrando l’attenzione sulle tesi eterodosse degli averroisti che traducevano la filosofia di Aristotele ponendosi spesso in contrasto con la morale cristiana. Ma c’è anche un’altra interpretazione del cosiddetto traviamento: si potrebbe trattare di una crisi politica. Nel 1295, dopo l’iscrizione all’Arte dei Medici e degli Speziali, fra cui sono compresi anche gli intellettuali e gli studiosi di filosofia, il poeta si dedicò alla politica e non è escluso che, a distanza di anni, abbia interpretato la sua decisione come qualcosa di sbagliato da cui deriverebbe il traviamento e una serie infinita di guai: infatti, nel 1300 viene eletto priore e da questa carica farà poi derivare tutti i suoi mali, primo fra tutti l’esilio. Indipendentemente dall’interpretazione di questo momento di crisi profonda, la cosa certa è che Beatrice esprime indignazione per il comportamento assunto dal poeta dopo la sua dipartita:

Quando di carne a spirto era salita 
e bellezza e virtù cresciuta m’era, 
fu’ io a lui men cara e men gradita;                              

e volse i passi suoi per via non vera, 
imagini di ben seguendo false, 
che nulla promession rendono intera.                                  
(ibidem, vv. 132)

La donna gli riserva un duro rimprovero ma necessario, come quello di una madre severa che, pur amandolo, non può rinunciare a redarguire il figlio caduto in errore. Ma prima di essere così esplicita (fu’ io a lui men cara e men gradita) riguardo al “tradimento” di cui si sente vittima, la donna spiega che fin dalla nascita il suo beniamino aveva tutte le prerogative per non smarrire la diritta via:

Non pur per ovra de le rote magne,

che drizzan ciascun seme ad alcun fine

secondo che le stelle son compagne,                         

ma per larghezza di grazie divine,

che sì alti vapori hanno a lor piova,

che nostre viste là non van vicine,                                

questi fu tal ne la sua vita nova

virtualmente, ch’ogne abito destro

fatto averebbe in lui mirabil prova.                               

Ma tanto più maligno e più silvestro

si fa ‘l terren col mal seme e non cólto,

quant’elli ha più di buon vigor terrestro.                              (ibidem, vv. 109-120)

Ogni creatura, grazie all’influsso astrale, fin dalla sua venuta al mondo tende a un fine. Quello di Dante, con il favore della Costellazione dei Gemelli, era rivolto allo studio e alla sapienza e il poeta seppe seguire la sua predisposizione nella sua vita nova, vale a dire durante la giovinezza.  Non si può fare a meno di notare come l’auctor al v. 115 citi l’opera che più di ogni altra svela la funzione che la donna amata ebbe durante la sua esistenza terrena. Il poeta aveva tutte le carte in regola per proseguire nel percorso di vita onesto intrapreso dal giorno in cui, ancora giovinetto, aveva incrociato lo sguardo della sua Beatrice. Nei versi è chiara la distinzione tra la potenza e l’atto, secondo la filosofia aristotelica: virtualmente, cioè in potenza, avrebbe potuto compiere grandi imprese ma il terreno coltivato con il mal seme o addirittura lasciato incolto, sebbene fertile, non produrrà mai buoni frutti, diventerà arido e selvaggio. Qual è il concetto espresso da Beatrice con la similitudine del buon terreno coltivato male? Dante, anche se provvisto dalla Provvidenza divina (grazie divine) di grandi potenzialità, dopo la scomparsa della sua donna ha rivolto altrove lo sguardo, quindi il suo animo è diventato arido come il terreno che ha perduto la sua fertilità. Nel Convivio Dante spiega che la donna gentile citata nella Vita Nuova in realtà è l’allegoria della filosofia: aver riposto troppa fiducia nella ragione umana rappresenta la colpa da scontare. Non è un caso se Virgilio, allegoria della ragione, conclude la sua missione nel momento in cui entra in scena Beatrice, che rappresenta allegoricamente la teologia.

     Comprendere i misteri dei primi due mondi ultraterreni è possibile attraverso la guida della ragione: Virgilio ha dimostrato a Dante quanto sia crudele e definitiva la condanna delle anime dannate ma anche quanto Dio sia disposto a perdonare ogni colpa, qualora sopravvenga un pentimento sincero anche se tardivo. Ora, però, per comprendere i misteri divini la ragione non basta. Ora è necessario essersi cibati del pan degli angeli per proseguire il viaggio. Dante agens ne diviene consapevole solo dopo aver allontanato il ricordo dei peccati commessi; l’auctor, invece, non ha tutti gli strumenti per comprendere, ha bisogno del sostegno della teologia. Anche per il lettore non sarà facile seguire il suo legno se fino ad ora ha usato una piccioletta barca.

     Tornando all’incontro con la donna amata, Amor ch’a nullo amato amar perdona (Inferno, V, v. 103) sembra essere un principio che non vale per Dante. Ma anche se il suo amore, ancora terreno, non è ricambiato, Beatrice incarna un sentimento esclusivo, del tutto estraneo al canone poetico del tempo. Un sentimento che altri poeti contemporanei non avrebbero mai saputo nemmeno immaginare. Quando, nel XXXI canto del Paradiso, avverrà il distacco tra il poeta e la sua guida, a lei saranno riservate parole di gratitudine che rappresentano l’omaggio sublime di un amore che non chiede più nulla in cambio perché già di per sé perfetto nella trasfigurazione celeste:

«O donna in cui la mia speranza vige, 
e che soffristi per la mia salute 
in inferno lasciar le tue vestige,                                       

di tante cose quant’i’ ho vedute, 
dal tuo podere e da la tua bontate 
riconosco la grazia e la virtute.                                        

Tu m’hai di servo tratto a libertate 
per tutte quelle vie, per tutt’i modi 
che di ciò fare avei la potestate.                                      

La tua magnificenza in me custodi, 
sì che l’anima mia, che fatt’hai sana, 
piacente a te dal corpo si disnodi».                                      
(Paradiso, XXXI, vv. 78-87)

     L’amore di Beatrice fa parte di una fictio poetica ma un’anima beata che scende dal cielo in soccorso all’amante caduto nel peccato per donargli la libertate è di certo il riconoscimento dell’esclusività non solo della donna nei confronti del poeta ma anche di un ruolo che nessun’altra rivestirà mai. In fondo solo Beatrice può meritarsi l’epiteto loda di Dio vera.        

7.5       Gli occhi e il sorriso di Beatrice

     Prima ancora di fare il suo ingresso nell’aldilà celeste, Dante si rende conto dei limiti tipicamente umani e dell’eccezionalità del suo viaggio. Certamente, se il viaggio nel mondo ultraterreno era già presente nell’epica classica, basti pensare alla discesa all’Ade di Ulisse descritta nel X libro dell’Odissea e all’analoga esperienza di Enea narrata da Virgilio nel VI libro dell’Eneide, nessuno si era trovato in carne e ossa faccia a faccia con Dio. Ecco in che cosa si differenzia l’esperienza dantesca e per questo ha bisogno di una guida eccezionale, in grado di supportarlo, spiegargli ciò che sfugge all’intelletto umano, infondergli coraggio per l’ultima fatica che sarà preziosa per la salvezza della sua anima.

     All’inizio del I canto del Paradiso, dopo l’invocazione al buono Apollo, l’agens si appresta ad ascendere in cielo assieme a Beatrice che è in grado di fissare l’intensa luce come fa un’aquila, mentre per lui è un’impresa impossibile. Gli occhi di Beatrice, quindi, diventano il mezzo indispensabile per l’ascesa del poeta verso l’Empireo.

Beatrice tutta ne l’etterne rote

fissa con li occhi stava; e io in lei

le luci fissi, di là sù rimote.                                               66

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,

qual si fé Glauco nel gustar de l’erba

che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi.                            69

Trasumanar significar per verba

non si poria; però l’essemplo basti

a cui esperienza grazia serba.                                             (Paradiso, I, vv. 64-72)                                                                                           

     Con il neologismo trasumanar, in una cantica “imperfetta” per ciò che concerne la memoria e la scrittura, Dante esprime un concetto fondamentale: l’oltrepassare i limiti umani, e ciò è reso possibile solo da Beatrice e dalla potenza del suo sguardo. L’espressione latina “significar per verba” ha il compito di esprimere l’ineffabilità, quindi basti l’esempio mitologico di Glauco (raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi) perché il lettore possa farsi almeno un’idea di ciò che Dante prova.

     Gli occhi di Beatrice sono quindi veicolo della Grazia divina (a cui esperienza grazia serba), ma anche specchi di Dio e della sua potenza infinita. L’anima beata guarda direttamente Dio e il poeta riesce a contemplare quella realtà in lei: dal momento che non è in grado di fissare il sole, quindi ne guarda il riflesso negli occhi di lei (io in lei / le luci fissi). Tutta l’attenzione è concentrata in questo gioco di sguardi.

     Lo sguardo di Beatrice diventa strumento di ascesa vera e propria nel momento in cui avviene il passaggio da una sfera all’altra dei cieli. Così viene descritto l’arrivo al Cielo della Luna:

Beatrice in suso, e io in lei guardava;

e forse in tanto in quanto un quadrel posa

e vola e da la noce si dischiava,

giunto mi vidi ove mirabil cosa

mi torse il viso a sé; […]                                                       (Paradiso, II, 22-26)

Da notare, nella similitudine (vv. 22-24) del quadrel, vale a dire la freccia che viene scoccata e raggiunge velocemente il bersaglio, la presenza di un ysteron-proteron, ovvero un’immagine che anticipa qualcosa che avverrà in seguito (la freccia prima da la noce si dischiava, ovvero si allontana dalla corda dell’arco, poi vola, infine posa, raggiunge il bersaglio). Mentre i due salgono verso l’alto, gli occhi di Dante sono fissi in quelli della donna amata.  

     Nel Paradiso Beatrice smette i panni di giudice severo e il suo sguardo diventa consolatorio e attento. Ella ha il compito di illustrare a Dante i misteri del Cielo, diventa maestra premurosa. Nel cielo della Luna, poco prima dell’incontro con Piccarda Donati, di fronte al bagliore emesso dagli spiriti mancanti ai voti, credendo di vedere dei riflessi attraverso un vetro o la superficie dell’acqua, il poeta si volta indietro alla ricerca della loro origine senza trovarla. Quindi rivolge i suoi occhi dritti nel lume de la dolce guida, mentre lei sorridendo, ardea ne li occhi santi.  L’anima sorride e con queste parole si rivolge al poeta:

«Non ti maravigliar perch’io sorrida»,

mi disse, «appresso il tuo pueril coto,

poi sopra ‘l vero ancor lo piè non fida,» […]                       (Paradiso, III, vv. 25-27)  

Dante si lascia andare a un pensiero infantile (pueril coto) che non si fonda sulla verità e sbaglia. Beatrice sorride ma di ciò lui non si deve meravigliare. Se consideriamo l’inizio del III canto, si può leggere in esso una dichiarazione d’amore per la sua donna. Infatti, nel primo verso c’è un accenno all’innamoramento descritto nella Vita Nuova: Quel sol che prima d’amor mi scaldò il petto. Pur rievocando il sentimento provato in terra per Beatrice, l’autore è consapevole che l’amore che muove l’anima è diverso: ella ha il compito di svelare la Verità che ha un dolce aspetto. Il sorriso di Beatrice, dunque, è complementare al suo sguardo. Non è l’atteggiamento di chi prova commiserazione per un errore infantile ma lo strumento attraverso il quale rassicura l’uomo che ha ancora tanto da imparare. E non ha quasi bisogno di chiedere perché la sua donna ha la capacità di leggergli dentro, essendo partecipe della natura divina di Dio che conosce ogni cosa.

     Allo stesso modo nel I canto, avendogli Beatrice spiegato come sia possibile per un uomo in carne e ossa elevarsi al cielo, il poeta si dichiara rassicurato dalla sorrise parolette della sua guida, dopo che ha sospirato pietosa, come una madre sollecita di fronte al figlio deliro.  L’atteggiamento biasimevole e il duro rimprovero del Paradiso Terrestre sono ormai un lontano ricordo.

     Così, nella conclusione del IV canto, lo sguardo dell’anima è descritto in modo esplicito come partecipe dell’amore divino:

Beatrice mi guardò con li occhi pieni

di faville d’amor così divini,

che, vinta, mia virtute diè le reni,

e quasi mi perdei con li occhi chini.                                      (Paradiso, IV, vv. 139-142)

Le scintille amorose che gli occhi divini di Beatrice emanano sono talmente abbaglianti da annullare la capacità visiva del poeta che si sente quasi svenire e china gli occhi a terra. La luce è l’elemento che caratterizza la terza cantica in perfetta coerenza con la descrizione iniziale del Paradiso: il ciel che più de la sua luce [di Dio] prende (Paradiso, I, v. 4).

Nel XV canto l’immagine di Beatrice, splendida nella sua divina beltà, rapisce Dante e lo conduce quasi a una contemplazione mistica:

Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;

poscia rivolsi a la mia donna il viso,

e quinci e quindi stupefatto fui;                                  33

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso

tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo

de la mia gloria e del mio paradiso.                          36        (Paradiso, XV, vv. 31-36)

Siamo nel Cielo di Marte dove il poeta incontra, tra gli spiriti militanti per la fede, l’avo Cacciaguida. 

Dopo che il personaggio gli si era rivolto riprendendo i versi latini dall’Eneide di Virgilio, Dante rivolge lo sguardo (viso) alla donna, rimanendo stupito; nei suoi occhi risplende una luce così gioiosa (riso) che il poeta pensa di aver raggiunto il culmine della felicità (gloria) e della beatitudine (paradiso). In questo passo si può notare la perfetta coincidenza tra il sorriso e lo sguardo di Beatrice che diventano espressione della contemplazione divina che la donna riesce a trasmettere al pellegrino.

     Proseguendo la lettura, nel XXI canto i due approdano al cielo di Saturno dove il poeta incontra gli spiriti contemplativi. Man mano che procede l’ascesa, la luminosità aumenta e ormai siamo arrivati al settimo cielo, sempre più lontani dalla Terra e sempre più vicini a Dio. Così inizia il canto:

Già eran li occhi miei rifissi al volto

de la mia donna, e l’animo con essi,

e da ogne altro intento s’era tolto.                             3

E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,

mi cominciò, «tu ti faresti quale

fu Semelè quando di cener fessi;                               6

ché la bellezza mia, che per le scale

de l’etterno palazzo più s’accende,

com’hai veduto, quanto più si sale,                           9

se non si temperasse, tanto splende,

che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore,

sarebbe fronda che trono scoscende.                        12       (Paradiso, XXI, vv. 1-12)

Dante rivolge lo sguardo verso Beatrice, tutto preso da quella vista, e nota che non sorride. Ella spiega che non può farlo perché altrimenti lui rimarrebbe incenerito come Semele davanti al fulgore di Giove. Ciò sarebbe causato dalla bellezza dell’anima la quale, salendo di cielo in cielo, acquista una tale luminosità che Dante non potrebbe sopportare poiché le sue facoltà visive sono ancora umane, quindi rimarrebbe folgorato come un ramo colpito da un fulmine.

Secondo questo principio dovremmo pensare che l’anima santa non sorrida più a Dante né gli rivolga più lo sguardo. Così non è perché, come si è visto nel I canto del Paradiso, il pellegrino acquista il potere di trasumanare e lo perfeziona progressivamente, avvicinandosi all’Empireo. Tanto che, giunto al cospetto di Cristo, nel XXIII canto, supera definitivamente i suoi limiti e riesce a fissare lo sguardo in Beatrice pur non essendo in grado di descrivere la sua bellezza che ormai è tutta spirituale.

Come foco di nube si diserra 
per dilatarsi sì che non vi cape, 
e fuor di sua natura in giù s’atterra
,                          42

la mente mia così, tra quelle dape 
fatta più grande, di sé stessa uscìo, 
e che si fesse rimembrar non sape
.                             45

«Apri li occhi e riguarda qual son io; 
tu hai vedute cose, che possente 
se’ fatto a sostener lo riso mio
».                                  48                 (Paradiso, XXIII, vv. 46-54)

In questi versi si riconoscono i gradi dell’ascesa dell’anima a Dio secondo Riccardo da San Vittore: la dilatatio mentis, cioè l’espandersi e l’acuirsi delle capacità senza oltrepassare i limiti umani (la mente mia…fatta più grande); l’excessus mentis, cioè l’allontanamento dei limiti della mente (di sé stessa uscìo); l’alienatio mentis che permette l’abbandono della memoria di tutte le cose presenti e il raggiungimento di uno stato che non ha più niente di umano (che possente se’ fatto a sostenerlo riso mio). La prima qualità implica la sola attività umana, la terza la sola grazia divina, la seconda entrambe.

     L’invito di Beatrice a guardare il suo riso incoraggia il pellegrino che ora è in grado di sostenere la luminosità delle anime sante. Attraverso la similitudine di colui che, risvegliatosi da un sogno, l’ha già dimenticato e invano si sforza di riportare alla mente quella visione, il poeta descrive il suo stato prima che la donna gli rivolga l’invito. La sua gratitudine è immensa e l’immagine non sarà mai cancellata dalla sua memoria. Tuttavia, l’Alighieri è consapevole di poter raccontare solo un millesimo di ciò che ha visto, qualora volesse descrivere in versi il santo riso e quanto rendesse bello il suo volto. Anche se è in grado di ammirare nuovamente il sorriso di Beatrice dopo la “pausa” dei canti XXI-XXII, l’esperienza oltrepassa i limiti di ogni capacità poetica e non riuscirebbe a descriverla nemmeno con l’aiuto di tutti i poeti ispirati dalle Muse. La diretta conseguenza si può facilmente immaginare:

e così, figurando il paradiso, 
convien saltar lo sacrato poema, 
come chi trova suo cammin riciso
.                                        (ibidem, vv. 61-63)

Viene qui ribadito lo stesso concetto dell’ineffabilità e dell’inadeguatezza della memoria che lo scrittore aveva già premesso nell’accingersi a raccontare il viaggio nell’ultimo regno. Ciò che dirà in seguito nel sacrato poema sarà inevitabilmente riduttivo ed egli si vedrà costretto a saltare alcune parti come colui che si trova sbarrata la strada che ha di fronte (chi trova suo cammin reciso).

     Il peso che l’auctor si porta addosso è inadeguato alla debolezza delle sue spalle ed è convinto che questa sua defaillance possa essere facilmente compresa. Non da tutti, però. A questo punto ribadisce il concetto espresso nel II canto in occasione dell’appello al lettore:

non è pareggio da picciola barca 
quel che fendendo va l’ardita prora, 
né da nocchier ch’a sé medesmo parca
.                               (ibidem, vv. 67-69)

Attraverso la stessa metafora della navigazione, il poeta osserva che il tratto di mare che l’ardita nave del suo intelletto sta percorrendo non è adatto alle barchette (picciola barca) e al timoniere che non intenda far fatica. Il senso di questi versi è proprio lo stesso dell’appello al lettore: solo chi si è nutrito del pan degli angeli potrà proseguire la “navigazione”.

7.6       L’ultimo sorriso di Beatrice

     Come già era successo per Virgilio, il cui allontanamento improvviso aveva causato tanto dolore in Dante, anche Beatrice lascia il suo poeta senza preavviso. Siamo giunti al XXXI canto del Paradiso: il pellegrino è ormai quasi alla fine del suo viaggio e ha raggiunto l’Empireo che è un cielo immobile, è pura luce e puro amore. Come si è detto, in esso risiedono tutte le anime beate e ciascuna ha il suo posto nella Candida Rosa. Qui Dante vede le anime che hanno meritato la beatitudine eterna e gli angeli, descritti con i volti fiammeggianti, le ali d’oro e il corpo bianco, che volano da Dio ai beati per comunicare loro la carità del Signore. Con questi versi viene descritto l’Empireo:

Questo sicuro e gaudioso regno

frequente in gente antica e in novella,

viso e amore avea tutto ad un segno.                                    (Paradiso, XXXI, vv. 25-27)

Questo luogo sicuro e beato, perché abitato da chi ha ottenuto la salvezza eterna, ospita anime vissute prima e dopo la nascita di Gesù, che rivolgono lo sguardo (viso) e l’amore in un’unica direzione: verso Dio. Il poeta è completamente assorto nella contemplazione e inevitabilmente, per contrasto, pensa al luogo di perdizione da cui proviene: Firenze. Rapito dall’aspetto dei visi a carità suadi (v. 49) e rischiarati dalla luce divina che si manifesta attraverso il riso, Dante sente nascere nel suo intimo il desiderio di chiedere a Beatrice qualcosa che gli sfugge (cose di che la mente mia era sospesa, v. 56):

Uno intendea, e altro mi rispuose;

credea veder Beatrice e vidi un sene

vestito con le genti gloriose.                                                  (ibidem, vv. 58-60)

Il poeta si aspetta la risposta dalla donna amata e invece prende la parola un vecchio (sene), un’anima che ha lo stesso aspetto delle altre presenti in quel luogo di pace. Si tratta di San Bernardo che ha il compito di guidare il poeta nell’ultima parte del viaggio. Dante chiede soltanto: «Ov’è ella?», senza tradire alcun sentimento né di sofferenza né di sollievo. Si tratta di una domanda che ha l’unico scopo di ottenere un’informazione, nulla di paragonabile alla disperazione espressa tra parole e lacrime quando nell’Eden si era accorto che Virgilio non si trovava più accanto a lui. La risposta del santo forse non rivela nulla che Dante già non sappia:

[…]  «A terminar lo tuo desiro

mosse Beatrice me del loco mio;

e se riguardi sù nel terzo giro

dal sommo grado, tu la rivedrai

nel trono che i suoi merti la sortiro.»                        (ibidem, vv. 65-69)

Beatrice ha ripreso il suo posto nella Candida Rosa dei beati: la sua missione si è conclusa. L’agens ne è consapevole. Fin dalla composizione della Vita Nuova, infatti, sa che il posto di Beatrice è fra le anime beate che abitano il Paradiso. L’auctor spiega che la sua donna, la quale già aveva mosso Virgilio dal Limbo in cui si trovava, ha incaricato San Bernardo (che si presenta solo al v. 102) di concludere ciò che lei aveva iniziato. Una scelta non casuale in quanto il santo, come lui stesso ammette, è un fedele della regina del cielo la quale sosterrà con il suo amore Dante nella parte finale del suo viaggio ultraterreno. Si tratta di Maria, una delle donne benedette che aveva a cuore la salvezza del poeta. Infatti, San Bernardo nel XXXIII canto che conclude il poema rivolgerà a lei una preghiera affinché assista l’uomo nella parte più difficile della sua impresa: la visione di Dio.

     E Beatrice? Sollevando lo sguardo, così come gli aveva suggerito il sene, la vede che si facea corona / reflettendo da sé li etterni rai (vv. 71.72).  Dopo averle rivolto parole piene di gratitudine per avergli permesso di compiere questo viaggio verso la salvezza, dalla donna ottiene uno sguardo e un sorriso:

[…] E quella, sì lontana

come parea, sorrise e riguardommi;

poi si tornò all’etterna fontana.                                             (ibidem, vv. 91-93) 

Nella contemplazione della luminosità eterna del Creatore (etterna fontana) risiede la beatitudine di Beatrice. L’ultimo sguardo e l’ultimo sorriso rivolti a Dante rappresentano quell’amor santo (v. 96) che non ha più nulla di umano: è la caritas che rende speciale la missione di Beatrice, espressione della salus che nessun’altra donna aveva riservato al proprio cantore.

     Ora Dante è pronto a concludere un’esperienza iniziata tragicamente e che avrà la sua fine lieta: la contemplazione de l’amor che move il sole e le altre stelle.


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Gli altri capitoli di questo studio

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

CAPITOLO 3: DIDONE

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 5: MATELDA

CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA