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SCUOLA: GLI ARGOMENTI DI DISCUSSIONE ESTIVI

Come ogni estate il dibattito sulla scuola è acceso. Negli anni i social l’hanno amplificato ma a ben vedere gli argomenti di discussione sono rimasti identici.

Ormai la frequentazione dei social mi incoraggia sempre meno ad aggiornare questo blog: molto più comodo e veloce esprimere il mio parere attraverso Twitter. A volte le discussioni sono molto animate ma gli argomenti “estivi” non cambiano. Vediamo quali sono, escludendo le “vacanze dei prof” su cui sorvolo volentieri perché ogni tentativo di chiarire che le “vacanze” degli studenti non coincidono con le “ferie” degli insegnanti è sempre stato fallimentare. Tuttavia, se vi fa piacere, vi invito alla lettura di questo post in cui mi soffermo sul significato delle due parole “ferie” e “vacanze”.

1) I compiti delle vacanze

Due sono gli orientamenti:

  1. I compiti vanno assegnati perché le vacanze estive si prolungano per tre mesi e i bambini/ragazzi hanno bisogno di tenersi in allenamento
  2. Niente compiti perché le vacanze sono vacanze, appunto, lasciamo che i bambini/ragazzi se ne stiano in pace.

C’è anche un terzo orientamento, quello dei maestri o dei prof sognatori e poetici. Loro non assegnano compiti ma attività gratificanti, perlopiù ludiche, da svolgere preferibilmente con la famiglia. Si spazia dalle passeggiate nei campi per avvicinarsi alla natura, alla contemplazione del tramonto in riva al mare, per finire con la compilazione di un diario in cui annotare queste magnifiche ed estasianti esperienze.

Tralasciando i consigli poetici, invito alla lettura di questo post del 2014.

2) Le vacanze estive troppo lunghe

Strettamente legato al precedente, anche l’argomento “vacanze estive” è motivo di discussione accesa ogni estate. Anche in questo caso gli orientamenti sono due:

  1. Non è giusto che i docenti abbiano tre mesi di vacanza pagati
  2. Gli studenti fanno troppe vacanze e le famiglie non sanno cosa fare dei figli durante il lungo periodo

Sul primo punto taccio, come ho già scritto nella parte introduttiva.

Quanto al secondo punto, la protesta delle famiglie è oggetto di disapprovazione in quanto chi vive la scuola ogni giorno sa bene che le 14 settimane di vacanza degli studenti non equivalgono a un minor numero di giorni di lezione rispetto agli altri Paesi della UE. Varia la distribuzione delle settimane di vacanza ma in Italia i giorni di lezione obbligatori sono 200, il numero più alto nell’ambito dei Paesi europei.

Ne ho parlato qui e, sebbene siano passati 9 anni (l’articolo è del 2014), le cose non sono cambiate molto. Anche le polemiche sono sempre quelle.

3) I debiti formativi (ossia quelli che ancora qualcuno ostinatamente continua a denominare “esami di riparazione” o “esami per i rimandati a settembre”)

Parliamo ovviamente delle scuole superiori (secondarie di secondo grado, secondo la dicitura corretta) dove gli esami non esistono da un bel po’; chi non raggiunge la sufficienza in una o più materie a giugno ha il giudizio sospeso e deve recuperare le insufficienze. Si chiamano debiti formativi e il loro superamento è regolamentato autonomamente da ciascun istituto nei tempi e nelle modalità. Nella maggior parte dei casi ormai da qualche anno si tende a organizzare i recuperi nell’ultima settimana di agosto. In qualche caso il recupero avviene a luglio, in altri le prove di accertamento slittano ai primi di settembre. Le cose vanno così da quando l’allora ministro Fioroni firmò il DM 80/2007 e nulla è stato modificato negli anni a seguire.

Quest’estate il dibattito è stato infiammato dalla presunta volontà del ministro del MIM, Giuseppe Valditara, di cambiare le carte in tavola e intimare lo svolgimento delle prove di recupero dei debiti dal 16 agosto in poi ed entro la fine del mese. Una “decisione” che avrebbe messo in discussione le ferie dei docenti, specialmente quelli impegnati negli esami che difficilmente avrebbero potuto godere dei 32 giorni di ferie (più 4 per le festività soppresse) cui hanno diritto. Tuttavia, leggendo bene la circolare del ministro, si capisce che la normativa era rimasta quella di sempre e che volendo gli “esami” si sarebbero potuti svolgere anche all’inizio di settembre, purché entro il giorno d’inizio delle lezioni, che varia da regione a regione e financo da scuola a scuola, grazie all’autonomia.

Niente di nuovo sotto il sole di luglio, insomma. Basta leggere qui (post pubblicato nel 2011).

4) L’onere per le famiglie delle lezioni private

Anche questo argomento è strettamente legato al punto precedente. Nonostante le scuole offrano la possibilità di frequentare corsi di recupero, le famiglie sono perlopiù orientate verso le lezioni private. Da un’indagine promossa dall’“Osservatorio ripetizioni private” di Ripetizioni.it è emerso che circa un quarto degli alunni di scuole medie e superiori si rivolge agli insegnanti privati, non specificatamente d’estate ma durante tutto l’anno (anche per scongiurare i debiti…).

Il problema connesso a questa abitudine riguarda anche gli stessi insegnanti. Il business delle ripetizioni è, infatti, molto lucroso. Chi ha tempo e voglia può effettivamente ricavarne un bel guadagno, prevalentemente in nero, arrotondando così lo stipendio che, diciamolo, è tra i più bassi d’Europa e non rende merito agli studi universitari, master e specializzazioni richiesti per ricoprire questo ruolo.

Questo mercato con un po’ di buona volontà è facilmente evitabile. Lo spiego qui (articolo del 2016).

5) La bocciatura

Affrontare una bocciatura non è mai semplice, e ciò vale sia per gli studenti sia per le famiglie. Negli ultimi anni, però, si è assistito a un aumento di ricorsi al Tar da parte di genitori e studenti incapaci di comprendere che la bocciatura non è mai facile nemmeno per i docenti i quali devono prendere questa decisione la quale, nella maggior parte dei casi, si basa su valide motivazioni, prima tra tutte la non adeguata preparazione dello studente alla frequenza con profitto della classe successiva. Non a caso, in termini tecnici, la “bocciatura” è chiamata “non ammissione alla classe successiva”.

All’inizio di luglio ha tenuto banco, nelle discussioni sui social, il caso di una studentessa di Trento la quale, nonostante le 5 insufficienze, ha fatto ricorso al Tar perché non ammessa all’esame di Stato (o “maturità” come si tende a dire ancor oggi). Riammessa dal tribunale amministrativo, la ragazza ha affrontato senza successo le prove suppletive ed è stata bocciata dopo l’orale.

Anche in passato si sono verificati dei clamorosi insuccessi nell’ambito dei ricorsi al Tar. Per esempio, una sentenza del 2014 non solo dava ragione ai docenti ma costituiva una sorta di schiaffo morale ai genitori i quali, secondo i giudici, avevano manifestato stupore di fronte al giudizio conclusivo emesso nei confronti del loro figliuolo e avevano mancato nel dovere di vigilare costantemente sul loro comportamento e andamento scolastico, al fine di apprestare, in caso di necessità, tempestivi e idonei interventi correttivi o di sostegno.

Ai genitori delusi dalla bocciatura del figlio o della figlia consiglio la lettura di questo post datato giugno 2018.

6) Il voto di condotta

Negli ultimi anni la stampa ha messo in evidenza degli episodi di bullismo verso i compagni e/o aggressione nei confronti degli insegnanti da parte di allievi particolarmente discoli (per usare un eufemismo). Sotto accusa, nella maggior parte dei casi, la scarsa educazione ricevuta in famiglia ma, secondo me, in situazioni come quelle citate giocano un ruolo importante anche il contesto e i modelli che i ragazzi e le ragazze seguono. Il fatto, poi, che attraverso i social episodi così gravi siano diffusi senza scrupoli da giovani e giovanissimi a caccia di like, ha certamente amplificato il problema.

Due sono stati, durante questi mesi, gli episodi messi in risalto dalla stampa e inevitabilmente rimbalzati sui social.

Il primo riguarda il sedicenne che ha ferito in modo grave la sua insegnante di italiano al liceo scientifico Alessandrini di Abbiategrasso ed è stato espulso e bocciato con il 5 in condotta, anche in presenza di buone valutazioni nel profitto. I genitori hanno preannunciato il ricorso al Tar ma finora non è stato reso pubblico alcunché a riguardo. Sta di fatto che con il 5 in condotta è prevista la bocciatura, anche se la media dei voti è buona (DM 5/2009).

Il secondo caso ha visto come protagonisti dei ragazzini che, in una scuola di Rovigo, a ottobre hanno sparato alla loro insegnante con una pistola a pallini e, nonostante ciò, sono stati promossi con il 9 in condotta. L’azione era stata ripresa con un telefonino e postata sui social. Ciò ha indignato il ministro Valditara che ha fatto riconvocare il Consiglio di Classe; in questa nuova riunione i 9 sono stati abbassati, con buona pace di tutti. In realtà, a mio parere, questa azione di forza ha creato un pericoloso precedente.

Al di là di questi singoli episodi, a mio parere la questione del voto di condotta deve essere riaffrontata. Da parte sua Valditara ha preannunciato che chi avrà 6 nel comportamento dovrà recuperare “a settembre” (vedi punto 3) in Educazione Civica. Peccato che questa non sia una materia a se stante (le 33 ore obbligatorie sono distribuite su più insegnamenti e riguardano molti ambiti) e che il 6 costituisca di fatto il voto minimo per la sufficienza. I cosiddetti debiti si danno con voti inferiori al 6, ne consegue che la proposta del ministro sia irricevibile e possa dar adito a numerosi ricorsi al Tar. A meno che non si voglia condonare qualche 5, a seconda della gravità dei fatti e del momento in cui sono accaduti (se nel primo o nel secondo periodo dell’as.), e riconvertirlo in “debito” al posto della bocciatura. La questione mi sembra molto controversa.

La mia riflessione, però, vuole prendere in esame la valutazione della condotta nella scala decimale, al pari delle materie di insegnamento. Abbiamo detto che il 5 corrisponde all’insufficienza e il 6 è il voto minimo per la sufficienza, come è sempre stato. Il voto di condotta fa media come gli altri e dovrebbe avere, quindi, un valore simile agli altri voti presenti in pagella. Ma se da un lato le valutazioni nella diverse discipline raramente arrivano al 10, perché invece i 10 in condotta fioccano come neve a gennaio? E perché si guarda con sospetto chi merita 8 nel comportamento? Un 8 in Latino o Matematica è forse un brutto voto?

Insomma, la discussione è piuttosto lunga quindi invito alla lettura di questo post pubblicato nel 2020.

7) I risultati dei test Invalsi

Non poteva mancare, come argomento del dibattito estivo, quello sui test Invalsi. L’istituto, infatti, dopo la fine delle lezioni ogni anno pubblica i primi risultati facendo una panoramica generale, cui seguirà nei mesi prossimi il feedback destinato alle scuole. I titoli dei quotidiani sono stati più o meno simili: «In italiano e matematica insufficiente uno studente su due». Ciò ha scatenato la protesta degli insegnanti poiché, leggendo il rapporto ufficiale sul sito dell’istituto, risulta chiaro che le cose stanno messe un po’ diversamente rispetto a quanto fatto credere dalla stampa.

Non voglio tediare nessuno entrando nei dettagli, ma invito a leggere questo post scritto nel 2012 in cui mi chiedevo a cosa servano i test se nessuno li sa leggere per poterne trarre un qualche beneficio a favore di studenti e docenti. Me lo chiedo ancora.

8) La presunta demotivazione dei docenti perché pagati poco

Anche questo è per certi aspetti un argomento legato al precedente. Secondo la vox populi i docenti italiani temono i test Invalsi perché gli scarsi risultati sarebbero un chiaro segnale della loro impreparazione e/o della scarsa motivazione dovuta all’esiguo stipendio percepito.

In primo luogo chiarisco che i test non hanno lo scopo di valutare l’abilità dei docenti bensì rilevano la qualità dell’apprendimento. Voi direte: vabbè, se hanno insegnanti scarsi avranno anche risultati scarsi. Ragionamento opinabile perché nella dinamica insegnamento-apprendimento vengono messi in campo fattori di rilevante importanza come per esempio: il numero degli studenti per classe, la presenza di L 104 e/o DSA, la presenza di studenti non italofoni o che comunque non conoscono bene la lingua, il bacino d’utenza in relazione alle condizioni socio-economiche delle famiglie... il discorso è troppo ampio per essere sintetizzato.

In secondo luogo, si deve tener conto del fatto che spesso gli studenti, sapendo che il risultato dei test non ha alcuna rilevanza sul profitto, li eseguono svogliatamente e in fretta, senza prestare la dovuta attenzione alle domande e a volte, convinti di aver capito quanto richiesto, sbagliano semplicemente perché non hanno letto bene le consegne, non perché non sanno leggere o comprendere ciò che leggono. Mi riferisco in particolare alle prove di Italiano ma anche per svolgere bene i test di matematica bisogna prestare attenzione alle richieste.

Quanto allo stipendio degli insegnanti, è chiaro a tutti che è molto modesto e non restituisce dignità non solo agli insegnanti che si impegnano ma anche al titolo di studio richiesto – da anni la laurea è un requisito anche nella scuola primaria – per insegnare. Tutti i ministri che si sono avvicendati in viale Trastevere hanno preso atto che chi insegna guadagna poco, anche in considerazione dei numerosi oneri che questa professione impone. Tutti hanno dichiarato che gli stipendi dovrebbero essere allineati a quelli dei colleghi europei (a me viene da ridere pensando che in Germania, per fare un esempio, i docenti guadagnano più del doppio di noi) ma nessuno ha fatto molto. Contratti scaduti e rinnovati dopo molti anni, arretrati forfettari che non tengono conto realmente dell’importo dovuto, aumenti irrisori. Però gli insegnanti, pur malpagati, non si tirano indietro e fanno il loro dovere, almeno la maggioranza, con dedizione e piena consapevolezza della responsabilità che grava su di loro: l’istruzione e la formazione delle generazioni future.

Altre, non lo stipendio, sono le cause che possono portare se non alla demotivazione quantomeno a un certo scoraggiamento. Lo spiegavo qui all’allora ministra Giannini. Correva l’anno 2014 ma i problemi evidenziati allora sono, a mio parere, rimasti immutati.

Concludo questa carrellata scusandomi per i numerosi link. Spero di aver sollecitato la vostra curiosità spingendovi alla lettura se non di tutti i post almeno di quelli che ritenete più interessanti.

Buona estate a tutti!

[le immagini provengono da questo blog o da marisamoles.wordpress.com. Nel caso provengano da siti non linkati o siano coperte da copyright, prego contattarmi per e-mail]

UN BILANCIO SULLA DIDATTICA A DISTANZA


L’emergenza coronavirus ha costretto la scuola italiana a fare i conti con una metodologia didattica mai sperimentata prima, almeno non in modo esclusivo. La didattica digitale, infatti, è nata per accompagnare quella tradizionale non per sostituirla. Di punto in bianco è venuta a mancare la presenza a scuola, la condivisione degli spazi, a volte troppo stretti e solo ora tutti iniziano a rendersene conto (gli addetti ai lavori lo sanno da molto tempo), il bello e il brutto della vita scolastica fatta di “gioie e dolori”, di inevitabili attriti ma anche di empatia. La didattica non è una scienza esatta, ognuno la interpreta come vuole o anche come può. “Ho fatto il possibile” si dice spesso, ma è bene ricordare che i margini di miglioramento ci sono sempre.

La “buona volontà” è uno dei mezzi attraverso il quale spesso si veicolano i saperi. Tanta buona volontà, da parte dei docenti, ha permesso di praticare la DaD, anche senza una formazione specifica. Ma anche gli studenti erano impreparati e sono stati costretti a metterci tutta la loro “buona volontà”, anche se non tutti. E pure fra i docenti ci sarà stato qualcuno meno impegnato, tanto lo sapevamo fin dall’inizio, o quasi, che l’anno si sarebbe concluso con “tutti promossi”, a risarcimento parziale di quell’incidente di percorso che si è rivelata essere l’emergenza Covid19. Per qualcuno, anzi tanti, molto più di un incidente ma in questa mia riflessione vorrei affidarmi a quel #tuttoandràbene che è stato il motto della reclusione forzata imposta dal diffondersi del contagio, oltre a ogni limite immaginabile.

Per una volta, dopo la rimozione della pedana avvenuta nella maggior parte delle aule scolastiche, docenti e discenti si sono ritrovati sullo stesso piano: davanti al pc o tablet, a volte davanti allo smartphone che è l’unico dispositivo che i ragazzi, e molte famiglie, ritengono davvero utile, ognuno a casa propria. Camerette, studi con librerie traboccanti di libri, forse mai letti, sale da pranzo, cucine, armadi (sì, quelli che si trasformano in postazioni d’ufficio senza occupare tanto spazio), sgabuzzini, sottotetti con travi a vista, giardini o terrazze (con l’aumento della temperatura) hanno fatto da sfondo a tante videolezioni che, in qualche modo, hanno tentato di salvare il salvabile. Un anno scolastico disgraziato che, solo davanti a concerti improvvisati dai terrazzini e inno nazionale cantato a squarciagola, ha avuto la parvenza di qualcosa di più di un semplice “ci rivediamo a settembre”. Forse.

Video è la parola che ha caratterizzato le nostre vite per il lungo periodo di reclusione forzata (scusate ma lockdown a me non piace). Videoconferenze, videochiamate con amici e parenti per non perdersi di vista, video prodotti dagli insegnanti per spiegare le regole (secondo la metodologia della flipped classroom), video prodotti dagli studenti per dimostrare le competenze digitali che andavano valutate.

Video è il verbo latino che significa “vedo”. Eppure io ho visto davvero poco. Le telecamere erano spesso spente per non rallentare la connessione, così non sapevo mai cosa succedesse dietro le quinte. Quando, alla fine della lezione, notavo qualcuno stazionare sulla piattaforma Meet, comprendevo che dietro a una telecamera spenta si possono fare un sacco di cose, perdendo la cognizione del tempo.

Audio è un altro verbo latino che significa “ascolto”. Eppure io ho ascoltato ben poco. I microfoni spesso spenti, per non far sentire giustamente gli strilli dei fratellini o le urla di madri esasperate da una permanenza entro le mura domestiche che non è un’abitudine per chi non fa la casalinga, ma spenti anche per poter fare una telefonata in tranquillità o semplicemente per non rispondere a una domanda dei prof. Non potete immaginare la tempestività con cui i microfoni si rompevano, eppure erano perfettamente funzionanti fino a un attimo prima. “Non so perché” era la risposta di rito, rigorosamente scritta in chat.

L’audio degli insegnanti è, al contrario, sempre rimasto acceso. A beneficio dei discenti, certo, ma anche esposto a orecchie indiscrete. Quale genitore ha mai chiesto di entrare in aula durante le lezioni? Nella cameretta del figlio, però, ci è entrato senza bussare e senza chiedere il permesso. Anche se nessuno ha nulla da nascondere – insomma, se in classe c’è qualcuno che legge il giornale o smanetta con il cellulare, con le poche ore a disposizione per la DaD non credo che si sia divertito a perdere tempo, piuttosto i refrattari si saranno semplicemente rifiutati di fare i videocollegamenti, visto che non hanno costituito un’esclusiva tra gli strumenti messi in atto – può essere poco gradita una supervisione non autorizzata da parte delle famiglie.

Cos’è davvero successo durante le videolezioni al di là del monitor? Nella maggior parte dei casi non lo sappiamo. Ma nel momento in cui siamo stati obbligati a valutare questo percorso i dubbi sono stati tanti. Come valutare le competenze chiave europee senza poter distinguere tra chi non ha partecipato per problemi tecnici (soprattutto la connessione che in certe zone è scadente oppure a causa dell’utilizzo in contemporanea di più dispositivi, da parte di altri componenti della famiglia per lavoro o studio) e chi invece non ne ha proprio avuto voglia? Come giustificare il ritardo nella consegna dei compiti se non sappiamo distinguere tra varie scuse accampate e poco impegno? Come obbligare chi non vuole partecipare a una lezione dialogata per timidezza o anche perché non vuole farsi sentire dai familiari? Come comprendere se i risultati sono stati scadenti per mancanza di impegno oppure per la mancata comprensione di certi argomenti? E’ già molto difficile che qualche allievo chieda apertamente spiegazioni in classe, figuriamoci nel contesto della videolezione.

Insomma, la valutazione rappresenta uno dei nodi, se non il più importante, da sciogliere prima di poter affermare che la Didattica a Distanza potrebbe diventare prassi nell’educazione, seppur accompagnata dalla didattica in presenza.

Finora ho riflettuto immaginando una completa disponibilità da parte degli studenti a seguire la DaD, avendone i mezzi e mettendoci o meno tutto l’impegno possibile. Che dire degli altri? Di chi non ha potuto rimanere in contatto con la “scuola a distanza”, nonostante i milioni di € stanziati dal MI, sempre troppo tardi comunque. Si parla di 1.600.000 fra bambini e ragazzi per i quali la DaD ha probabilmente coinciso con un anticipo delle vacanze estive. Con tanto di promozione assicurata.

Ci sono in Italia delle realtà scolastiche difficili in cui, nonostante l’impegno di dirigenti e docenti, già in tempi normali è complicato stabilire relazioni soddisfacenti con le famiglie. La mancanza di motivazione è a monte, la latitanza è la regola e con le lezioni a distanza è venuto a mancare anche quel contatto tra scuola e famiglia, fatto di incontri in presenza, che non sempre ha successo. Ma almeno si tenta.

La Dad non ha rimosso gli ostacoli, ne ha creati altri. Tecnologici ma non solo.

La maggior parte degli allievi che hanno una famiglia alle spalle e che trovano dentro di sé una forte motivazione per non rimanere indietro, si è adeguata a questa nuova modalità senza traumi, anzi, considerando soprattutto il lato positivo che deriva dall’acquisizione di una maggiore autonomia nello studio e senso di responsabilità. Tre mesi li hanno fatti crescere più che non un intero anno. Ricordate le competenze chiave europee? “Imparare ad imparare” è senz’altro la competenza in cui un buon numero di studenti si è cimentata ottenendo anche un discreto successo. Ma chi non ha voglia di imparare, neppure se accompagnato e preso per mano, quanti stimoli può avere per farlo da solo?

Nonostante il “tutti promossi”, con la dispersione scolastica si dovrà fare i conti. E non mi riferisco solo a chi dalla Dad non è nemmeno stato raggiunto. Parlo anche di quegli allievi che, pur in presenza di lacune grandi come baratri, sono stati promossi, non importa se con il 6 o il 5 o il 4, e dovranno fare i conti con una preparazione che non permetterà loro di proseguire gli studi nella classe successiva, dovendo recuperare le materie insufficienti, nere o rosse che siano, e nello stesso tempo stare al passo con i nuovi programmi. Immagino che da parte di questi allievi non ci sia la consapevolezza delle difficoltà cui andranno incontro. Per loro la promozione è ciò che conta, poi si vedrà.

Concludo questa lunga riflessione (nonostante abbia cercato di essere sintetica…) facendo una considerazione: la DaD ha davvero per certi versi creato le condizioni ideali per praticare la flipped classroom, la “scuola capovolta” che costringe gli studenti a gestire la propria autonomia nell’apprendimento. Però dalle faccette sciupate di molti allievi e allieve che ho potuto osservare per i saluti finali, ho avuto l’impressione che più che flipped le classi siano state shakerate. Insomma, da un giorno all’altro li abbiamo messi in un mixer, li abbiamo scossi un po’, a volte con successo altre volte apparentemente senza esito alcuno, e forse il cocktail che ne è uscito deve raggiungere la consistenza giusta. Forse abbiamo sbagliato ricetta.

Una cosa è certa: solo il rientro in aula permetterà a tutti i nodi di venire al pettine. Poi cercheremo, se potremo e come potremo, di correre ai ripari.

[immagine da questo sito]

LA SCUOLA (A DISTANZA) AI TEMPI DEL #CORONAVIRUS


L’emergenza COVID-19, in atto ormai da più di due settimane in alcune regioni italiane, e che negli ultimi giorni ha coinvolto tutta la penisola nella sospensione delle attività didattiche (non chiusura, è bene sottolinearlo), ha costretto famiglie, studenti e docenti a rivedere il loro rapporto con la scuola. Cosa si sta facendo? Cosa si può o si deve fare? Come si deve gestire la didattica a distanza? In che modo reagiscono le famiglie a questa novità? In che modo gli studenti?

Chiariamo subito che mi limiterò a parlare delle scuole secondarie di secondo grado la cui gestione dell’emergenza è sicuramente più semplice perché gli “utenti” (che brutta parola!) sono ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18-19 anni, quindi gestibili facilmente. Il discorso è senz’altro diverso per le scuole frequentate dai più piccoli (dal nido alla primaria, passando per la scuola materna) perché le scuole sono anche il luogo in cui i figli passano molte ore al giorno, agevolando la loro gestione in famiglia. Ma anche le famiglie degli alunni che frequentano la scuola media sicuramente ora si trovano in difficoltà, visto che l’età dei ragazzi è ancora troppo giovane per poterli lasciare da soli a casa.

Insomma, per quanto non ami descrivere la scuola come un parcheggio, bisogna ammettere che l’emergenza in atto può comportare seri problemi di custodia dei piccoli. Non tutti i nonni sono disponibili, non tutte le mamme fanno le casalinghe, non sempre è facile trovare delle babysitter e comunque si tratta di un costo aggiuntivo cui molti genitori non possono far fronte.

Il governo in questi giorni sta cercando di venire incontro a queste difficoltà (contributo per il babysitting, congedi parentali…) ma sappiamo tutti che il welfare in Italia non è minimamente paragonabile ai Paesi del nord Europa, quindi è meglio non aspettarsi nulla di veramente efficace né tanto meno di risolutivo.

Tuttavia, con questo post vorrei soffermarmi sulla didattica a distanza che il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina ha caldamente raccomandato negli ultimi giorni. Un’intera pagina del sito ministeriale è dedicata all’emergenza #coronavirus (LINK).

Nel DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 4 marzo 2020 (QUI potete leggere l’intero documento) si legge:

I dirigenti scolastici attivano, per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità.

La differenza tra questo Decreto e gli altri pubblicati nelle settimane scorse, riguardanti solo alcune regioni italiane, è che la dicitura “possono attivare…” per i dirigenti diventa un obbligo (“attivano”). Naturalmente ciò non significa che tutti i docenti debbano attivarsi per la didattica a distanza o, per meglio dire, non sono obbligati a mettere in atto particolari strategie utilizzando chissà che strumenti tecnologici. Infatti, un insegnante in teoria può limitarsi ad assegnare dei compiti da svolgere e degli argomenti da studiare dal manuale in adozione (anche in modo autonomo), utilizzando il registro elettronico (ormai credo sia una realtà diffusa in tutte le scuole) oppure comunicando con le famiglie attraverso la posta elettronica.

Ora mi chiedo: se un docente (non dimentichiamo che in Italia l’età media supera i 50 anni) non ha dimestichezza con chissà quali strumenti tecnologici, è comunque costretto a imparare in fretta e senza un’adeguata formazione? Direi di no. Quindi chi si limita a comunicare “le cose da fare” agli studenti o ai genitori, credo possa assolvere al compito che gli è stato affidato.

In questo caso, però, non si tratta di didattica a distanza.

La didattica a distanza, infatti, è molto complessa. Sul web sono reperibili strumenti di vario tipo, più o meno accessibili a tutti. Molte scuole utilizzano la piattaforma Gsuite che offre la possibilità di sfruttare risorse utili (Classroom, Meet, Hangouts) ma non tutti sono in grado di usarle. [maggiori informazioni QUI]

C’è anche da mettere nel debito conto il fatto che non tutte le famiglie hanno un pc o una connessione (soprattutto efficiente), perché ormai quasi tutti usano lo smartphone con la connessione offerta dal gestore telefonico che ha comunque dei limiti e in qualche caso è costosa. Aggiungiamo il fatto che molti genitori non vorrebbero vedere i propri figli tutto il giorno connessi e non sempre riescono a controllare che essi svolgano davvero le attività assegnate e non si perdano in giochi poco istruttivi. Questo timore è tanto più grande quanto più piccoli sono i figli.

Insomma, la questione è delicata e la gestione della didattica a distanza è tutt’altro che semplice. In questi giorni ho assegnato un compito per classe (che è il minimo, direi). Ma mentre in classe la correzione dei compiti è collettiva e porta via al massimo un’ora (ma il più delle volte molto meno), ora mi trovo 76 compiti da correggere e arrivano quasi tutti in massa, alla scadenza indicata.

E vogliamo parlare delle valutazioni? Come si fa a somministrare a distanza verifiche soggette a valutazione? Non sappiamo quanto tempo ci impiegano e l’organizzazione in tal senso è molto importante: se per un compito di latino concedo un’ora e a casa gli studenti impiegano il triplo del tempo, non posso valutare quel parametro particolare. Inoltre come facciamo a sapere se le verifiche a distanza vengono svolte senza aiuti? Impossibile.

Ma accanto a tutte le questioni di ordine tecnico, quello che manca a tutti, docenti e studenti, in questo periodo, è quel mondo di relazioni che la scuola costituisce al di là dei doveri cui ogni componente può rispondere attraverso la didattica a distanza. E’ vero che a volte le relazioni sono difficili, faticose. Ma è anche vero che la comunicazione asettica (rimanendo in tema…) attraverso fogli elettronici e messaggi on line non può sostituire la comunicazione interpersonale dal vivo.

«Non c’è speranza di gioia ad eccezione che nelle relazioni umane.» (Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)

[immagine da questo sito]

TUTTO QUELLO CHE VORRESTI SAPERE SUL NUOVO ESAME DI STATO (#MATURITÀ2019) E ANCORA NON SAI


L’Esame di Stato 2019 è ormai alle porte. Un esame che porta con sé delle novità che, a quanto pare, sono ancora sconosciute a molti candidati (secondo un sondaggio di Skuola.net). Certamente c’è una più che giustificata apprensione e molti pensano di non essere preparati abbastanza, specialmente per il colloquio. Effettivamente le informazioni a riguardo sono state tutt’altro che tempestive e non pochi dubbi sono stati effettivamente sciolti, nonostante le rassicurazioni del ministro del MIUR Marco Bussetti.

Viste le novità, in questo blog sono state aggiornate le pagine dedicate all’Esame di Stato. Ecco le informazioni che potete trovare:

La storia dell’esame di “maturità”, con tutte le novità di quest’anno;

I contenuti e l’organizzazione del colloquio;

Le novità concernenti la prima prova scritta (c’è anche una pagina dedicata alla Tipologia A e una in cui sono riportate le tracce proposte nelle due simulazioni nazionali);

Il nuovo calcolo del credito scolastico;

Le indicazioni su come calcolare il voto finale .

[L’articolo è in aggiornamento]

#MATURITÀ2019: TUTTE LE NOVITÀ E… NUOVE PREOCCUPAZIONI

Sembra essere proprio tormentato il “nuovo” Esame di Stato che gli studenti di quinta dovranno affrontare tra pochi mesi. Tante novità che, seppur con le buone intenzioni che non si possono mettere in dubbio (anche Matteo Renzi aveva varato la #buonascuola con le migliori intenzioni, o no?), non danno l’idea di una “riforma” vera e propria, piuttosto trasmettono quella di un rattoppamento e raffazonamento dell’esistente tanto per non smentire l’obiettivo dell’attuale governo che fin da subito si è autoproclamato “governo del cambiamento”.

Già dalla scorsa estate il ministro del Miur Marco Bussetti aveva preannunciato alcuni “cambiamenti”: via l’Alternanza scuola-lavoro che non è più vincolante per l’ammissione all’esame (ma rimarrà nel curriculum seppur con un nome diverso e minor numero di ore obbligatorie), via la terza prova scritta per far posto alle prove nazionali elaborate dall’Invalsi, anch’esse non vincolanti però obbligatorie, via il saggio breve dalla prima prova scritta, via la tesina come introduzione al colloquio, rivisitati tutti i punteggi del credito formativo per dare il giusto rilievo al percorso scolastico fatto dagli allievi dalla terza classe in poi. Già preannunciata e ora confermata anche la rivoluzione della seconda prova, detta “mista”, giusto per aggiungere un “cambiamento” che altro non è che una nuova preoccupazione per studenti e docenti.

Attraverso un comunicato via You Tube – come si conviene a un “governo del cambiamento” che vuole avvicinarsi ai giovani – il ministro Bussetti ha diramato pochi giorni fa gli ultimi dettagli riguardo alle prove scritte e relativi commissari interni ed esterni. Con largo anticipo, ci tiene a precisare.

Vediamo in che cosa consistono questi “cambiamenti” (in particolare, mi riferisco al liceo scientifico, scuola in cui insegno, ma alla fine dell’articolo troverete tutti i link utili per gli altri istituti). Dal momento che non riesco proprio a essere oggettiva, distinguerò i dati dalle opinioni contrassegnando queste ultime con il corsivo.

1. L’alternanza scuola-lavoro. Per i maturandi di quest’anno scolastico rimarrà obbligatorio il monte ore già stabilito (200 per lo scientifico) pur non essendo vincolante per l’ammissione all’esame. Il ministro tiene a precisare che “una parte dell’orale sarà dedicata all’alternanza, che è un potente strumento di orientamento e di acquisizione di competenze trasversali”. Esclusa, tuttavia, l’illustrazione dell’esperienza in sostituzione della tesina, ormai relegata in soffitta, come primo approccio al colloquio. Per gli studenti che ora frequentano la classe terza, non si chiamerà più Alternanza scuola-lavoro ma “Percorsi per le Competenze Trasversali”. L’acronimo PCT risulta impronunciabile ma è sempre meglio di ASL che, per i non addetti ai lavori, rimandava al vecchio ente di assistenza sanitaria.

2. Le prove Invalsi del quinto anno. Forse pochi ricorderanno che già l’ex ministro Mariastella Gelmini aveva annunciato l’abolizione del “quizzone (nomignolo indecoroso affibbiato dai giornalisti alla terza prova che, nel 90% dei casi, non era affatto un quiz a crocette ma una prova seria e piuttosto impegnativa) in favore di una prova nazionale per rendere maggiormente omogenea la valutazione degli studenti nelle scuole di tutta la penisola. Correva l’anno 2011 e se dobbiamo dare un merito al nuovo governo, possiamo elogiarlo per la memoria lunga e anche, forse, per la volontà di creare una continuità con l’ex governo guidato da Forza Italia.
Le prove nazionali non saranno parte integrante dell’Esame di Stato 2019, come avrebbe voluto la Gelmini, ma verranno somministrate nel mese di marzo (classi non campione: dal 4 al 30 marzo 2019; classi campione: dal 12 al 15 marzo) in modalità CTB e verteranno su tre materie: italiano, matematica e inglese (reading e listening). Per quest’anno, come già detto, non costituiscono requisito di ammissione all’esame e non vi sarà l’obbligo di recuperarle nel caso di assenza. Sono previsti strumenti compensativi e dispensativi per gli allievi BES. La valutazione delle prove sarà inserita nel curriculum dello studente. (CLICCA QUI per vedere degli esempi delle prove)

3. La prima prova scritta. La prova di italiano rimane comune a tutti gli indirizzi. Le tracce saranno sette complessivamente, suddivise in tre tipologie: due tracce per la tipologia A (analisi e interpretazione di un testo letterario, in prosa o poesia, a partire dall’Unità d’Italia fino a tutto il Novecento); tre tracce per la tipologia B (testo argomentativo da analizzare, interpretare e commentare) inerenti ai seguenti ambiti: artistico, letterario, storico, filosofico, scientifico, tecnologico, economico e sociale; due tracce per la tipologia C (simile all’ex tipologia D, prevede la trattazione “libera” su un argomento con eventuale testo di appoggio).
Alcune osservazioni: al di là delle critiche mosse all’abolizione del tema storico (scelto ogni anno da poco più dell’1% degli studenti), le conoscenze in ambito storico possono essere indispensabili per lo svolgimento della tipologia B, anche se nella rosa delle tre tracce proposte, per una questione puramente aritmetica, non possono essere inseriti tutti e 8 gli ambiti. Tuttavia, è possibile se non altamente probabile che alcune conoscenze storiche siano imprescindibili per lo svolgimento della tipologia C.
Ampio spazio viene concesso all’argomentazione (nelle tipologie B e C) che nel vecchio “saggio breve” poteva quasi passare inosservata se l’utilizzo dei testi a corredo era comunque originale.

4. La seconda prova scritta mista. Dato che le preoccupazioni non erano già abbastanza numerose alla luce di tali novità, il Miur ha stabilito che anche la seconda prova scritta dovesse subire una rivoluzione. Non più l’opzione latino-greco (che era anche intuibile vista l’alternanza annuale quasi scontata) ma una prova mista che comprenda entrambe le discipline per i licei classici. E se ciò non bastasse, non più soltanto traduzione ma anche analisi e confronto tra testi, tipologie, autori e contesti… un bel po’ di carne al fuoco, non c’è che dire. Seppure personalmente io sia a favore di questo tipo di prova, credo che ci voglia un bel po’ di allenamento per poterla svolgere bene, e pochi mesi, intensi anche dal punto di vista dello svolgimento dei programmi, sono davvero insufficienti. Ciò vale anche per la seconda prova mista proposta allo scientifico dove alla già temuta matematica (ma se scegliete il liceo scientifico perché tutta ‘sta paura della matematica?) si aggiunge la temutissima fisica. Una prova mista che si preannuncia difficile non solo perché gli allievi non ne hanno mai svolte di simili (consideriamo pure il fatto che non sempre la cattedra di Matematica e Fisica è affidata a un unico docente) ma anche perché le ore curricolari di fisica, seppur presente nel piano di studi dalla prima a partire dal riordino dei licei voluto dall’ex ministro Gelmini, sono decisamente troppo poche rispetto al monte ore di matematica.

5. Il colloquio. Come già detto, è stata eliminata la tesina che dava l’avvio all’esame orale e, contrariamente a quanto previsto dalla #buonascuola, non si parte dalla relazione sull’esperienza di ASL, anche se l’argomento verrà trattato comunque dai maturandi in questa fase d’esame, preferibilmente con l’ausilio di un prodotto multimediale. La novità dell’ultima ora che risulta più sconvolgente è la proposta di tre tracce d’avvio, chiuse in tre buste, che la commissione preparerà e tra cui lo studente dovrà operare la sua scelta. Le tracce proporranno analisi di testi, documenti, esperienze, progetti, problemi, tenuto conto del percorso svolto dagli allievi. Un avvio d’esame sullo stile dell’ultima prova che i concorrenti, chiusi in cabina, dovevano sostenere nell’indimenticabile quiz Rischiatutto condotto da Mike Bongiorno negli anni Settanta. Se la terza prova scritta non era propriamente un “quizzone”, ecco che l’idea del quiz viene rispolverata in una fase d’esame, l’orale, in cui lo studente certamente non avrà una marcata predisposizione al rischio.
Altra novità: una parte del colloquio riguarderà le attività effettivamente svolte nell’ambito di “Cittadinanza e costituzione”, sempre tenendo conto delle indicazioni fornite dal Consiglio di classe sui percorsi fatti. Ora, se l’intenzione di proporre questa “materia”, di cui è responsabile sempre l’ex ministro Gelmini (un “governo del cambiamento” particolarmente ispirato da Marystar), è certamente buona, non altrettanto buona né omogenea potrebbe essere in tal senso la preparazione degli allievi. Infatti, nel proporre l’insegnamento di questa disciplina (in sostituzione della vecchia educazione civica, complementare all’insegnamento della storia solo sulla carta), ci si è dimenticati di assegnarla a un docente specifico, preparato in un ambito che sconfina nel Diritto, grande assente nei piani di studio dei licei più importanti. Quindi, affidare alla buona volontà dei singoli – quasi sempre in assenza di veri percorsi trasversali, come dovrebbe essere – l’onere di impartire questo insegnamento, non è di fatto garanzia della buona preparazione degli allievi e nemmeno di una preparazione unitaria. D’altra parte, ogni scuola organizza delle attività complementari nell’ambito dell’educazione alla legalità e alla pace, proponendo delle esperienze molto valide, ma esse non sempre sono comuni a tutte le classi. Penso al “Viaggio della Memoria” nei campi di concentramento organizzato annualmente nel mio liceo ma che interessa solo un’esigua parte degli allievi i quali, al colloquio, avranno la possibilità di parlare di un’esperienza altamente formativa godendo di un vantaggio su altri compagni della stessa classe. Mi viene in mente anche il viaggio organizzano in Sicilia, con l’associazione “Addio Pizzo”, ma che non interessa tutte le classi in quanto per i viaggi di istruzione c’è il paletto dell’80% di adesioni e non sempre si raggiunge questa quota. Ne consegue che in qualche quinta i maturandi potranno fare bella figura raccontando l’esperienza fatta, a scapito di altre che non hanno partecipato.

6. L’attribuzione dei punteggi. La valutazione del diploma rimane in 100esimi (sufficienza 60/100) ma con criteri di distribuzione diversi. Innanzitutto, l’eliminazione di una prova scritta viene compensata in parte con il passaggio dai 15esimi ai 20esimi nella valutazione delle due prove rimaste. I 5 punti di scarto, a mio parere, potevano essere aggiunti ai crediti, ma il ministro Bussetti ha voluto rivoluzionare tutto, abbassando il punteggio del colloquio (da 30 a 20 punti) e incrementando a dismisura quello dei crediti (da 25 a 40). A questo punto, un esame che, fra scritti e orale, forniva ben 75 punti su 100, viene ridimensionato a soli 60 punti contro i 40 derivati dalla somma dei crediti che gli studenti accumulano negli ultimi tre anni. Sebbene ritenga corretto che nel voto di diploma si tenga conto del percorso fatto dagli studenti negli ultimi tre anni (perché non includere, allora, nei 40 punti anche il biennio?), non mi pare giusto che, senza il dovuto preavviso, ci rimettano quei ragazzi che non hanno brillato nei due anni precedenti ma che avrebbero certamente potuto fare di più con un incentivo di tal specie.
Sono state diffuse dal Miur delle tabelle per la conversione dei punteggi accumulati tra il terzo e il quarto anno e il nuovo punteggio per il quinto. (CLICCA QUI)

Per concludere, alcuni argomenti di interesse.

Le simulazioni delle prove scritte.
Il ministro Bussetti ha annunciato che verranno somministrate le simulazioni nazionali delle prove scritte. Ecco le date: per la prima prova (comune a tutte le scuole) il 19 febbraio e il 26 marzo; per la seconda prova (diversa nei vari indirizzi di studio) il 28 febbraio e il 2 aprile.
Con un’apposita circolare saranno fornite alle scuole tutte le indicazioni operative. Nel frattempo il Ministero ha già pubblicato, nel mese di dicembre, alcuni esempi di traccia, sia per la prima che per le seconde prove. (per ulteriori informazioni CLICCA QUI)

Esempi di prima prova (diffusi dal Ministero):
esempio tipologia – a

esempio1 tipologia – b

esempio2 tipologia – b

esempio tipologia – c

La Commissione d’esame.
La Commissione rimane mista: tre membri interni e tre esterni più il presidente che è sempre esterno. Il Miur ha già comunicato le materie affidate ai commissari esterni (CLICCA QUI)

Per chi fosse interessato alla lettura di diverse opinioni (autorevoli) sulla prima prova scritta, rimando ad alcuni articoli pubblicati sul sito laletteraturaenoi.it:

La riforma della prima prova dell’Esame di Stato /1: come cambia l’approccio alla letteratura

La riforma della prima prova dell’Esame di Stato /2: la scrittura alla (prima) prova

La riforma della prima prova dell’esame di Stato /3. Tra continuità e positive innovazioni

Luca Serianni sulla riforma della prima prova esc

Le tracce e gli indizi. Riflessioni sugli esempi di prima prova

CLICCANDO QUI potete trovare alcuni esempi di prove Invalsi.

RISULTATI #MATURITÀ2018: PROMOZIONI E LODI IN AUMENTO SPECIALMENTE AL SUD. IL “CASO PUGLIA”

Il MIUR ha diffuso i risultati relativi all’Esame di Stato del II ciclo. Il 99,6% dei maturandi è stato promosso, contro il 99,5% di un anno fa. Lieve aumento anche per le lodi: sono l’1,3%, un anno fa erano l’1,2%.

Anche la percentuale dei promossi con una votazione superiore a 70/100 ha registrato un aumento passando dal 62,5% dello scorso anno al 64,4%. In diminuzione, invece, i punteggi sotto il 70: il 27,8% delle maturande e dei maturandi ha conseguito una votazione tra il 61 e il 70, fascia di voto che nel 2017 era stata conseguita dal 29%. I 60 scendono al 7,8%, rispetto all’8,5% del 2017.

Gli allievi che hanno meritato il punteggio massimo e la lode sono complessivamente 6.004. In termini di dati assoluti, le Regioni con il più alto numero di lodi sono Puglia (1.066), Campania (860) e Lazio (574). Guardando al rapporto percentuale tra diplomati con lode e popolazione scolastica territoriale, in Puglia ha conseguito il voto massimo il 3% delle maturande e dei maturandi.

Gli studenti che hanno ottenuto le votazioni più alte sono i liceali: il 2,2% ha ottenuto la lode, l’8% ha conquistato il 100, l’11,4% tra 91 e 99, il 22,9% tra 81 e 90. Nei Licei, a primeggiare tra le votazioni più alte è, ancora una volta, il Classico.

Risultati complessivamente più modesti sono stati registrati nei Tecnici e nei Professionali dove, tuttavia, sono aumentati i 100 e lode.

Nemmeno quest’anno si placano le polemiche che riguardano i voti più alti al sud, nonostante nelle rilevazioni nazionali Invalsi la situazione appaia capovolta. Ad esempio, in Lombardia, che supera mediamente la media italiana nelle rilevazioni nazionali, le lodi non superano lo 0,5 % mentre in Campania e Sicilia, agli ultimi posti nelle rilevazioni, sono tre volte tanto (1,4 % e 1,3%). Ma è il “caso Puglia” a destare maggiori perplessità.

La Puglia non è proprio il fanalino di coda per quanto riguarda i risultati dei test Invalsi. La regione sta appena sotto la Campania ma precede di due posizioni la Sicilia. Tuttavia, i risultati non brillanti nei test affrontati dagli studenti che hanno terminato il secondo anno della scuola secondaria di secondo grado sono poco conciliabili con l’exploit di lodi in Puglia, ben tre volte tanto la Lombardia che nelle rilevazioni ottiene risultati vicini alla media europea, così come tutto il nord della penisola.

Si è spesso puntato il dito contro la maggior propensione dei docenti del sud a elargire valutazioni generose. Se così fosse, il prossimo anno gli studenti del quinto si troveranno in difficoltà dovendo affrontare, prima dell’esame di Stato, i test Invalsi. Infatti, com’è noto, questi test, pur non facendo parte dell’esame di Stato, rappresentano la condizione indispensabile per essere ammessi all’esame. Ciò fa pensare che gli studenti pugliesi non avranno la possibilità di primeggiare e fare incetta di lodi. Infatti, anche lo studente con un curriculum eccezionale dovrà fare i conti con la prova Invalsi e la lode potrebbe allontanarsi dall’obiettivo finale.

Di contro, il record di lodi registrato quest’anno a Milano potrebbe non essere casuale ma risponderebbe a una precisa strategia operata dai docenti per mettere i propri studenti nella condizione di ottenere il massimo dei voti: se in Puglia e nelle altre regioni del sud i professori sono “larghi di manica, anche i docenti milanesi si sono adeguati e non hanno centellinato più i nove e i dieci in pagella durante tutto il corso di studi. Non dimentichiamo che i crediti scolastici del triennio hanno costituito, fino a quest’anno, un “tesoretto” di 25 punti sui cento totali, a condizione però di avere una media almeno dell’8 durante tutto il triennio senza neanche un 7. In questo modo, alla fine conquistare la lode è stato più facile per gli studenti milanesi.

Ma il prossimo anno la questione cambierà: con l’obbligatorietà della prova Invalsi alla fine del corso di studi che avrà il compito di misurare la preparazione dei ragazzi, anche l’esame di Stato, senza la tesina e la terza prova e con la valutazione dell’alternanza scuola lavoro, sarà più serio e si confida in una maggiore omogeneità dei risultati, da nord a sud.

[fonti: Tuttoscuola.com; lagazzettadelmezzogiorno.it e infodata.ilsole24ore.com; immagine da questo sito]

#MATURITÀ2019: ADDIO TERZA PROVA, BENVENUTI (?) TEST INVALSI

Da quando è nata, nel 1997 con la riforma dell’Esame di Stato del II ciclo, l’hanno bistrattata chiamandola impropriamente “quizzone”. In realtà credo che in poche scuole superiori in così tanti anni sia stata proposta la terza prova a crocette (risposte chiuse), preferendo la formula dei “quesiti a risposta singola” (tipologia b) che è tutt’altro che semplice. Infatti, pur considerando che non esiste una terza prova “ministeriale” uguale per tutte le scuole o per ogni indirizzo, questo terzo scritto è sempre stato il più temuto dai maturandi.

La finalità della terza prova, secondo il D.M. n. 429 del 20 Novembre 2000, è quella di «accertare le conoscenze, competenze e capacità acquisite dal candidato, nonché le capacità di utilizzare e integrare conoscenze e competenze relative alle materie dell’ultimo anno di corso, anche ai fini di una produzione scritta, grafica o pratica». Ciò significa che le domande riguardano tutto il programma di quattro o cinque materie del quinto anno, a seconda della scelta di ciascuna commissione (circa 10-15 quesiti, due o tre per ciascuna disciplina, che prevedono una risposta chiara e sintetica con un numero di righe da rispettare). Tutt’altro che semplice.

Con il prossimo anno scolastico la terza prova non ci sarà più. Le prove scritte rimarranno due (Italiano per tutte gli istituti e una materia caratterizzante a seconda del tipo di scuola e indirizzo) ma i ragazzi iscritti al quinto anno dovranno affrontare, prima dell’esame, i nuovi test elaborati dall’InValsi (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione) che da molti anni ormai ha il compito di testare il livello di apprendimento degli studenti italiani che frequentano scuole di ogni ordine e grado.

Il nuovo Esame di Stato del II ciclo è descritto nel decreto legislativo approvato il 7 aprile 2017 e contempla anche altri cambiamenti: l’attribuzione del credito scolastico che passa da 25 a 40 punti; l’ammissione all’esame anche con delle insufficienze (a patto che la media sia 6); il colloquio che inizierà non più con la famigerata testina pluridisciplinare ma con una relazione e/o un elaborato multimediale sull’esperienza di alternanza scuola-lavoro svolta nell’arco del secondo biennio e del quinto anno. Anche l’attribuzione dei punteggi per le prove scritte e per l’orale cambierà: 20 punti per ciascuna (mentre ora le tre prove scritte “fruttano” fino a 45 punti e il colloquio fino a 30). È più che evidente che una parte considerevole del punteggio finale (100/100) è data dal credito scolastico il quale costituisce, in un certo senso, il “tesoretto” che ciascun allievo riuscirà a mettere da parte nell’arco dei tre anni, una volta ultimato il biennio obbligatorio.

Tornando ai test InValsi, lo svolgimento delle prove nazionali sarà obbligatorio e costituirà un vincolo per l’ammissione all’esame, pur non influendo sul voto finale. L’esito delle prove, che presumibilmente si svolgeranno a dicembre (almeno stando alle voci che circolano), verrà riportato sui documenti allegati al Diploma. Le materie oggetto dei test saranno italiano, matematica e inglese.

Di più non è dato sapere, anche se alcune università riportano nei loro siti delle simulazioni su cui i maturandi possono esercitarsi.

Pare strano, tuttavia, che con il cambio ai vertici di Viale Trastevere nulla sia cambiato rispetto a quanto deciso dalla cosiddetta #buonascuola. Qualche mese fa, infatti, lo stesso Istituto Nazionale aveva ammesso, al termine del monitoraggio nazionale, che occorrono politiche scolastiche differenziate in base alle esigenze del territorio e alle tipologie di scuole. Proporre, dunque, i test nazionali proprio al quinto anno della scuola superiore, per di più con il vincolo per l’ammissione (anche se non si parla di superamento delle stesse), appare un controsenso in quanto essi andranno a sostituire l’unica prova non nazionale, predisposta dalle commissioni tenendo conto delle simulazioni fatte in classe durante il quinto anno.

A questo proposito, così commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief:

«Ci saremmo certamente aspettati modifiche che rimpolpassero, in assoluto, lo spessore della scuola superiore di secondo grado. Sarebbe stato quindi più opportuno qualificare il titolo di studio, elevandone la qualità complessiva. Questo, avrebbe contribuito anche a spazzare via, una volta per tutte, i periodici tentativi di cancellazione del valore legale del titolo di studio: è una questione di primaria importanza, perché in tal modo si dà il giusto valore all’impegno degli studenti e si risolleva, anche a livello di considerazione sociale, l’operato di docenti e personale Ata. Anziché sulla verifica caso per caso, si è voluto puntare, invece, sulla logica dell’uniformità a tutti i costi

Ma c’è un’altra considerazione da fare. La terza prova serviva a testare la preparazione dei maturandi su un certo numero di discipline che i candidati erano costretti a studiare. I test InValsi verteranno su tre materie: italiano, matematica e inglese. Per quanto riguarda l’italiano, essendoci già la prima prova all’esame, il test personalmente mi sembra ridondante. Per quanto concerne la matematica, non è chiaro se i test saranno uguali per tutte le scuole superiori, ma per gli studenti dello scientifico si potrebbe trattare di una “passeggiata” rispetto ai contenuti dell’attuale seconda prova. Infine, per l’inglese è importante che il test si proponga la finalità di certificare, in convenzione con enti certificatori accreditati, le abilità di comprensione e uso della lingua inglese in linea con il Quadro Comune di Riferimento Europeo per le lingue, ma non è specificato il livello (B2 è il minimo che si possa chiedere alla fine della scuola superiore). Si sa, poi, quale sia il reale livello di conoscenza dell’inglese da parte degli studenti italiani. Magari con il bonus cultura (se Bussetti lo confermerà) potranno fare qualche corso accelerato in una scuola privata…

Dopo queste considerazioni, è dunque legittimo chiederci: la nuova #maturità sarà un altro dei pasticciacci brutti di Viale Trastevere?

[fonti: teleborsa.it; scuolaonline.com; orizzontescuola.it; immagine da questo sito]

#MATURITÀ2019: CHE COSA RESTERÀ DELLA PRIMA PROVA?


Archiviate le prime due prove scritte dell’Esame di Stato 2018 (cui si aggiunge la terza prova che si svolgerà il 25 giugno e sarà l’ultima), sorge spontanea una domanda: che cosa resterà della prima prova?

La prova di Italiano, lo ricordo, è comune a tutte le scuole. Dalla riforma del 1997 voluta dall’allora ministro Luigi Berlinguer con la legge 425, il classico “tema” è stato sostituito da varie tipologie testuali. Gli studenti che affronteranno la “maturità” nell’estate del 2019 sosterranno un esame diverso, sia per quanto concerne gli scritti sia per ciò che riguarda il colloquio orale. Anche l’attribuzione dei punteggi sarà differente rispetto agli attuali criteri e verrà dato ampio spazio alle attività di Alternanza scuola-lavoro il cui monte ore è obbligatorio per tutti e varia a seconda della tipologia della scuola superiore frequentata.

La “riforma” dell’Esame di Stato del II ciclo è stata voluta dal governo Renzi ed è regolamentata dalla legge 107/2015 (in particolare dal Decreto legislativo 62/2017 [art. 17, comma 5]), la cosiddetta “Buona scuola” che di buono ha poco o nulla, difetti tanti. Ma non è di questo che voglio parlare perché è mia intenzione, per ora, concentrarmi sulla prima prova.

Ci sono state, nei mesi precedenti, alcune anticipazioni da parte dell’ormai ex ministro Valeria Fedeli ma di preciso si sa ben poco. Un affidabile contributo è quello del professor Luca Serianni che è a capo della commissione che ha riformulato gli Esami di Stato del I e II ciclo. In merito alla prima prova dell’esame di “maturità” si è limitato a dire che sono previsti dei cambiamenti, anche se sarà mantenuta l’analisi di un testo letterario che in un primo momento sembrava destinata a scomparire. Tuttavia, secondo Serianni, si punterà all’«accentuazione che si deve partire dall’unità d’Italia, non concentrarsi sul Novecento». Ciò mi sembra saggio considerato che il programma di italiano al quinto anno è immenso e presentare all’esame autori come Magris o Bassani (oggetto della tipologia A di quest’anno) è un azzardo.

Se in un primo momento anche il saggio breve sembrava destinato ad essere archiviato, la commissione del MIUR ne ha confermato la presenza anche al prossimo Esame di Stato. Il professor Massimo Palermo, docente all’università per stranieri di Perugia, anch’egli membro della commissione ministeriale, ha anticipato che i lavori sono orientati verso una più chiara distinzione tra articolo di giornale e saggio breve, evitando un accumulo di materiali per le tracce (il cosiddetto dossier), riducendone il numero. Anche perché, come sottolinea Serianni, «lo studente cade nella tentazione di fare un collage, ma alla fine delle superiori deve dimostrare di aver imparato a ragionare con la propria testa».

Questo è quanto. Nulla si dice circa le altre tipologie presenti attualmente (C, tema storico, e D, tema “d’ordine generale”) che paiono quindi destinate a essere messe in soffitta.

Io non so voi che leggete ma io personalmente rimango con i dubbi di prima. Questo dire e non dire mi sembra un modo per rimandare qualsiasi decisione, lasciando in sospeso noi docenti (che però dobbiamo programmare le attività del prossimo anno e sapere quindi quali siano le scelte migliori anche in vista dell’esame finale), mentre gli studenti che hanno appena terminato il quarto anno rimangono disorientati senza avere molte certezze su ciò che li attende.

[fonti: Orizzonte Scuola, youreducation]

COME REAGISCONO I GENITORI DI FRONTE ALLA BOCCIATURA DEL FIGLIO?


Una domanda banale, se volete. Basterebbe una risposta: “Male” e io avrei finito di scrivere il post.

Ma la questione è molto più complessa perché le reazioni sono varie e cambiano a seconda del sentimento che fa da propulsore: rabbia, dolore, frustrazione, sconforto, desolazione, vergogna, sensazione di impotenza o di fallimento, incapacità di accettare un torto o, per meglio dire, quello che si ritiene tale. Potrei continuare ma tutti i sentimenti che animano i genitori, almeno nell’immediatezza della notizia della bocciatura di un figlio, portano a uno stato d’animo che si può sintetizzare così: impossibilità di considerare ottimisticamente ciò che accadrà in futuro. Il “prima”, con tutto il bagaglio di responsabilità anche personali, scompare di botto per lasciare il campo libero a un “dopo” che non sembra presagire nulla di buono. Come quando si percepisce una catastrofe imminente.

Non c’è nulla di catastrofico nel perdere un anno di scuola. Lo so, è difficile crederlo, ma è così. So già che qualcuno obietterà: “Brava, tu stai dall’altra parte…”. Certo, ma sto dall’altra parte da talmente tanti anni che un’idea su questo spinoso argomento me la sono fatta e cerco solo di trasmettere un messaggio positivo a quei genitori che ora soffrono, ne sono consapevole, ma che sbagliano quando pensano che un anno di scuola buttato al vento possa essere motivo di una frustrazione così grande. E sbagliano, certi genitori, a lasciare quasi del tutto esclusi i figli che si trovano ad essere “vittime di questa sciagura”, che dovrebbero stare al centro della loro attenzione e, invece, spesso vengono messi in un angolino in attesa che mamma e papà “elaborino il lutto”. Come se il dolore fosse tutto loro e dovesse trovare sfogo prendendosela, ad esempio, con la scuola, i docenti, il sistema che non funziona.

Sono finiti i tempi in cui l’ex ministro Mariastella Gelmini, con estrema soddisfazione, inneggiava alla scuola che boccia:

«Siamo tornati ad una scuola che non promuove tutti. E che distingue tra persone che studiano e persone che non studiano. Tra persone che si comportano bene e persone che non si comportano bene. Una scuola che promuove tutti non è una scuola che fa il bene del ragazzo.» (LINK)

Correva l’anno 2009 e i dati degli scrutini finali avevano registrato un aumento consistente delle non ammissioni all’Esame di Stato di II grado, delle bocciature in generale e anche delle bocciature dopo l’esame (3000 studenti in più rispetto all’anno precedente).

Confesso che allora mi trovavo completamente d’accordo con la Gelmini. Tanto da non tollerare la lezioncina che, da tutt’altro genere di pulpito, arrivava dal professor Umberto Veronesi (che si riferiva, però, solo alla bocciatura degli studenti prossimi alla maturità):

«Io sono convinto che il fallimento, o la «sconfitta finale», se vogliamo, non sia dei ragazzi bocciati, ma della scuola, intesa come sistema formativo ed educativo nel suo insieme.» (LINK)

Quella di Veronesi fu una conclusione molto riduttiva, tipica di chi non passa nove mesi in un’aula scolastica.

Più condivisibili mi apparvero allora le parole di Marco Rossi Doria che aveva preso parte alla diatriba, pur concentrandosi sull’aspetto educativo in relazione ai comportamenti errati degli studenti, e che con le aule scolastiche ha una certa dimestichezza:

«La scuola riprenda pure a bocciare ma fornisca anche maggiori possibilità a ciascuno. E la politica la smetta di sottovalutare la fatica e la complessità del compito che la scuola si assume ogni giorno e di lesinare denaro. Perché a imparare si impara ovunque. Ma non c’è un altro posto dove si può dar senso a quel che si apprende, dove le generazioni convivono fuori della famiglia e dove genitori e insegnanti possono mettersi intorno a un tavolo e ricostruire, insieme, le funzioni educative.» (LINK)

Perché tra le due posizioni appare più sensata quella di Rossi Doria? Proprio per il fatto che mette in primo piano i rapporti scuola-famiglia, la condivisione delle responsabilità. Ogni professore che si vede costretto a bocciare un allievo, se ha un minimo di coscienza ed è consapevole del lavoro svolto, condivide con i genitori di quell’allievo lo stesso senso di frustrazione, di impotenza, di fallimento. Insomma, bocciare non piace a nessuno (o quasi… non metto in dubbio che ci siano ancora dei docenti sadici) ed è fondamentale che una bocciatura, come male estremo proprio per il bene dello studente/figlio, non veda contrapposti su differenti schieramenti la scuola e la famiglia, l’un contro l’altro armati.

Sono cambiati i tempi, dicevo. Le statistiche dimostrano che si boccia sempre meno. Lo si fa in casi estremi, quando le lacune in più discipline sono tali da compromettere il proseguimento degli studi. In questi casi perdere un anno non è un male ma un bene, a patto che la decisione dei docenti venga rispettata e condivisa dalle famiglie.

Quale può essere, dunque, la soluzione? Cercare di superare assieme il momento difficile, senza il palleggiamento di responsabilità cui a volte si assiste in questi casi.

Senza contare che certe reazioni non giovano a nessuno. Usare violenza, come le cronache di questi giorni riportano, oltre a non essere la soluzione rappresenta un messaggio negativo nei confronti dei ragazzi stessi. L’educazione e il rispetto che insegniamo a scuola sono del tutto vanificati da comportamenti irrazionali che, se negli intenti dovrebbero servire a difendere i figli da soprusi o torti (sempre presunti, ovviamente), danneggiano oltremodo l’azione educativa della scuola e ne denotano l’assenza in famiglia. Quale idea di giustizia si offre ai ragazzi nel momento in cui si cerca di risolvere il contenzioso a suon di botte?

Nemmeno reazioni apparentemente più pacifiche, come per esempio un ricorso alle vie legali, può essere una soluzione. Servirebbe solo a dare ai ragazzi l’illusione di poter essere difesi sempre, a prescindere dalle responsabilità personali. Ma nella vita sappiamo bene che le cose stanno diversamente.

Una bocciatura non è mai inaspettata, non è un fulmine a ciel sereno. Specialmente ora, grazie al registro elettronico, le famiglie sono puntualmente informate sul profitto dei figli, le comunicazioni arrivano in tempo reale, mettendo in primo piano sia le difficoltà sia gli strumenti che la scuola offre per superarle. Purtroppo gli insegnanti non sono dotati di bacchetta magica in grado di convertire i 4 o 5 in 6 e nemmeno i giudici hanno questo potere. Tutt’al più vanno a caccia di qualche vizio di forma e, nel caso in cui sfortunatamente lo trovino, ciò non cambia la sostanza.

Nemmeno far credere ai giovani che la forma abbia più valore della sostanza sembra una soluzione. Certamente non è una buona lezione di vita.

[immagine tratta da questo sito]

IL BUSINESS DELLE LEZIONI PRIVATE SI PUO’ EVITARE. ECCO COME

lezioni private
Non è la prima volta che affronto l’argomento (leggi QUI). Già nel 2012 lo SNALS aveva proposto, prima al ministro Gelmini e poi a Profumo, di permettere ai docenti di dare lezioni private intramoenia, esattamente come è possibile che i medici in servizio in ospedale ricevano i pazienti all’interno della struttura pubblica in regime privato.

Ora questa proposta, che approvo pienamente, mi pare più che mai urgente.

Come si sa, nel 1995 vennero aboliti i cosiddetti esami di riparazione alle superiori. Allora questa decisione fu giustificata dalla volontà di mettere in crisi il mercato delle lezioni private e contrastare, quindi, il lavoro nero dei prof che le impartivano. Ma il Decreto ministeriale n. 80 del 3 ottobre 2007 (firmato dall’allora ministro dell’Istruzione Fioroni) che ha introdotto la “sospensione del giudizio” a giugno e l’obbligo di saldare i debiti formativi entro l’inizio del successivo anno scolastico, ha di fatto ripristinato l’antico. Cambia la forma ma non la sostanza.

Secondo quanto si legge in un articolo pubblicato sulla rivista specializzata La tecnica della Scuola, un sondaggio effettuato dalla Fondazione Einaudi sul mercato delle ripetizioni private, rivela un giro d’affari che si aggira intorno agli 810 milioni circa di euro e che grava sul bilancio di una famiglia italiana per 1620 euro all’anno. Infatti il 90% delle lezioni private non sono dichiarate al fisco.

Così conclude la relazione:

Come Fondazione Luigi Einaudi crediamo che le lezioni private devono essere regolarizzate, accompagnando la regolamentazione da un incentivo fiscale mirato.
Tuttavia, pur riconoscendo la libertà di scelta da parte di studenti e famiglie, crediamo che un numero così alto di studenti che prendono lezioni private nel tempo trascorso dopo l’attività scolastica regolare, dimostra il fallimento del sistema scolastico attuale e l’inadeguatezza della didattica, dei programmi, e spesso anche degli insegnanti.

Se da una parte appoggio la vecchia proposta del sindacato della scuola di regolamentare il “giro” di lezioni private facendole tenere dai docenti (ovviamente su libera adesione e non ai propri allievi, cosa vietata anche se, a volte, tollerata) nelle scuole stesse, dall’altra devo fare una riflessione su quanto dichiarato dalla Fondazione Einaudi circa l’inadeguatezza della didattica, dei programmi, e spesso anche degli insegnanti.

Prima domanda: perché le famiglie sono disposte a svenarsi, con la consapevolezza di favorire l’evasione fiscale da parte degli insegnanti, per mandare i propri figli a “ripetizione”?

Personalmente mi arrabbio quando vengo avvertita dai genitori che il proprio figlio è seguito da un insegnante privato. Tuttavia posso capire che nel rapporto “uno a uno” ci siano dei vantaggi che le classi numerose (26-28 allievi) precludono. Anche se si fa costantemente il ripasso dei contenuti, ci si esercita in classe e si cerca di venire incontro alle difficoltà di tutti, è ben difficile capire quali siano le difficoltà di ciascuno.

Spesso capita che un ragazzo insufficiente non abbia il coraggio di ammettere di non aver capito, rinunci a chiedere chiarimenti anche perché teme di essere preso in giro dagli altri, oppure ha paura di essere etichettato come “stupido” dall’insegnante stesso. E’ palese che ogni studente conosce il docente che ha di fronte e anche il clima che si respira in aula.
In casi come quello descritto, qualche lezione privata può essere risolutiva.

D’altro canto, se l’allievo insufficiente non si impegna, non sta attento in classe, non si esercita a casa, la presenza di un docente tutto per lui può sollecitare l’attenzione del momento, può anche risolvere qualche problema, ma se l’atteggiamento non muta, poco gioverà allo studente il sacrificio economico della famiglia.

Seconda domanda: perché mai, nonostante le scuole (mi riferisco ovviamente alle superiori) abbiano l’obbligo di organizzare attività di recupero durante l’anno, spesso affiancate da periodi di “pausa didattica” in cui ogni docente è tenuto ad intervenire in classe per colmare le lacune e venire incontro alle difficoltà degli allievi, molte famiglie rinunciano a questa opportunità preferendo mandare i ragazzi a ripetizione?

A volte può sembrare snobismo, altre semplicemente incuria. Se le condizioni economiche lo consentono, i genitori preferiscono affidare i figli alle cure di un insegnante privato (non sempre qualificato, tra l’altro). In altri casi, gli impegni extrascolastici dei figli (il più delle volte sportivi), oppure la lontananza della scuola dal proprio domicilio e la scomodità dei mezzi pubblici che hanno orari poco agevoli, spingono le famiglie a firmare le “liberatorie”, rinunciando al servizio offerto gratuitamente dagli istituti.

Parlo per esperienza, naturalmente, e mi riferisco alla realtà che conosco, insegnando in un liceo cittadino frequentato da molti studenti che vivono a distanza di molti chilometri dalla scuola, in paesini sperduti poco serviti dai trasporti pubblici.

Terza domanda: perché capita che i ragazzi che vengono indirizzati ai corsi o agli sportelli organizzati per il recupero, non ottengano i risultati sperati, costringendo le famiglie a porre rimedio ricorrendo alle ripetizioni private?

Sempre per esperienza posso dire che molto spesso succede che gli allievi frequentino i corsi e/o gli sportelli ma che mantengano lo stesso atteggiamento passivo, quando non di disturbo, che assumono in classe durante le ore curricolari. Giocherellano con il cellulare (che viene regolarmente ritirato e consegnato in presidenza, come avviene al mattino), parlottano, arrivano senza materiale (né libri né quaderni né fotocopie consegnate dall’insegnante) e senza aver svolto le attività assegnate.
I genitori di questi ragazzi li difendono osservando che, presentarsi a scuola nel pomeriggio, dopo un’intensa (?) mattinata di lezione, è molto faticoso e certamente non facilita la concentrazione. Le dimenticanze, poi, sono giustificate con la grande quantità di libri e quaderni che già devono portare per le lezioni mattutine, quindi lo zaino è stracolmo e non può contenere altro materiale. Sta di fatto che nella maggior parte dei casi, i libri e i quaderni li hanno già utilizzati la mattino e che le fotocopie di per sé non pesano tanto e occupano poco spazio.

Questi stessi genitori, poi, firmano le giustificazioni per le assenze pomeridiane e, adducendo come pretesto la scarsa efficacia delle attività di recupero (sic!), informano i docenti di essere stati costretti a mandare i figli a lezione. Inutile dire che, nella quasi totalità dei casi (in riferimento a quanto descritto sopra), quegli allievi non colmeranno comunque le lacune.

Detto questo, per tornare alla relazione della Fondazione Luigi Einaudi, io non credo che tutte le colpe debbano essere attribuite all’inadeguatezza della didattica, dei programmi, e spesso anche degli insegnanti. Non voglio assolvere tout court l’istituzione scolastica, perché sono consapevole che i programmi necessitino di una revisione, che la didattica in alcuni casi (non nella maggioranza, comunque!) lasci a desiderare e che ci siano insegnanti (anche qui credo non si tratti della maggior parte di essi) inadeguati. Tuttavia mi pare semplicistica la conclusione della Fondazione Einaudi, soprattutto perché ignora (o almeno credo) le dinamiche da me descritte. Come sempre, i conti non si devono fare senza l’oste.

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