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SCUOLA: GLI ARGOMENTI DI DISCUSSIONE ESTIVI

Come ogni estate il dibattito sulla scuola è acceso. Negli anni i social l’hanno amplificato ma a ben vedere gli argomenti di discussione sono rimasti identici.

Ormai la frequentazione dei social mi incoraggia sempre meno ad aggiornare questo blog: molto più comodo e veloce esprimere il mio parere attraverso Twitter. A volte le discussioni sono molto animate ma gli argomenti “estivi” non cambiano. Vediamo quali sono, escludendo le “vacanze dei prof” su cui sorvolo volentieri perché ogni tentativo di chiarire che le “vacanze” degli studenti non coincidono con le “ferie” degli insegnanti è sempre stato fallimentare. Tuttavia, se vi fa piacere, vi invito alla lettura di questo post in cui mi soffermo sul significato delle due parole “ferie” e “vacanze”.

1) I compiti delle vacanze

Due sono gli orientamenti:

  1. I compiti vanno assegnati perché le vacanze estive si prolungano per tre mesi e i bambini/ragazzi hanno bisogno di tenersi in allenamento
  2. Niente compiti perché le vacanze sono vacanze, appunto, lasciamo che i bambini/ragazzi se ne stiano in pace.

C’è anche un terzo orientamento, quello dei maestri o dei prof sognatori e poetici. Loro non assegnano compiti ma attività gratificanti, perlopiù ludiche, da svolgere preferibilmente con la famiglia. Si spazia dalle passeggiate nei campi per avvicinarsi alla natura, alla contemplazione del tramonto in riva al mare, per finire con la compilazione di un diario in cui annotare queste magnifiche ed estasianti esperienze.

Tralasciando i consigli poetici, invito alla lettura di questo post del 2014.

2) Le vacanze estive troppo lunghe

Strettamente legato al precedente, anche l’argomento “vacanze estive” è motivo di discussione accesa ogni estate. Anche in questo caso gli orientamenti sono due:

  1. Non è giusto che i docenti abbiano tre mesi di vacanza pagati
  2. Gli studenti fanno troppe vacanze e le famiglie non sanno cosa fare dei figli durante il lungo periodo

Sul primo punto taccio, come ho già scritto nella parte introduttiva.

Quanto al secondo punto, la protesta delle famiglie è oggetto di disapprovazione in quanto chi vive la scuola ogni giorno sa bene che le 14 settimane di vacanza degli studenti non equivalgono a un minor numero di giorni di lezione rispetto agli altri Paesi della UE. Varia la distribuzione delle settimane di vacanza ma in Italia i giorni di lezione obbligatori sono 200, il numero più alto nell’ambito dei Paesi europei.

Ne ho parlato qui e, sebbene siano passati 9 anni (l’articolo è del 2014), le cose non sono cambiate molto. Anche le polemiche sono sempre quelle.

3) I debiti formativi (ossia quelli che ancora qualcuno ostinatamente continua a denominare “esami di riparazione” o “esami per i rimandati a settembre”)

Parliamo ovviamente delle scuole superiori (secondarie di secondo grado, secondo la dicitura corretta) dove gli esami non esistono da un bel po’; chi non raggiunge la sufficienza in una o più materie a giugno ha il giudizio sospeso e deve recuperare le insufficienze. Si chiamano debiti formativi e il loro superamento è regolamentato autonomamente da ciascun istituto nei tempi e nelle modalità. Nella maggior parte dei casi ormai da qualche anno si tende a organizzare i recuperi nell’ultima settimana di agosto. In qualche caso il recupero avviene a luglio, in altri le prove di accertamento slittano ai primi di settembre. Le cose vanno così da quando l’allora ministro Fioroni firmò il DM 80/2007 e nulla è stato modificato negli anni a seguire.

Quest’estate il dibattito è stato infiammato dalla presunta volontà del ministro del MIM, Giuseppe Valditara, di cambiare le carte in tavola e intimare lo svolgimento delle prove di recupero dei debiti dal 16 agosto in poi ed entro la fine del mese. Una “decisione” che avrebbe messo in discussione le ferie dei docenti, specialmente quelli impegnati negli esami che difficilmente avrebbero potuto godere dei 32 giorni di ferie (più 4 per le festività soppresse) cui hanno diritto. Tuttavia, leggendo bene la circolare del ministro, si capisce che la normativa era rimasta quella di sempre e che volendo gli “esami” si sarebbero potuti svolgere anche all’inizio di settembre, purché entro il giorno d’inizio delle lezioni, che varia da regione a regione e financo da scuola a scuola, grazie all’autonomia.

Niente di nuovo sotto il sole di luglio, insomma. Basta leggere qui (post pubblicato nel 2011).

4) L’onere per le famiglie delle lezioni private

Anche questo argomento è strettamente legato al punto precedente. Nonostante le scuole offrano la possibilità di frequentare corsi di recupero, le famiglie sono perlopiù orientate verso le lezioni private. Da un’indagine promossa dall’“Osservatorio ripetizioni private” di Ripetizioni.it è emerso che circa un quarto degli alunni di scuole medie e superiori si rivolge agli insegnanti privati, non specificatamente d’estate ma durante tutto l’anno (anche per scongiurare i debiti…).

Il problema connesso a questa abitudine riguarda anche gli stessi insegnanti. Il business delle ripetizioni è, infatti, molto lucroso. Chi ha tempo e voglia può effettivamente ricavarne un bel guadagno, prevalentemente in nero, arrotondando così lo stipendio che, diciamolo, è tra i più bassi d’Europa e non rende merito agli studi universitari, master e specializzazioni richiesti per ricoprire questo ruolo.

Questo mercato con un po’ di buona volontà è facilmente evitabile. Lo spiego qui (articolo del 2016).

5) La bocciatura

Affrontare una bocciatura non è mai semplice, e ciò vale sia per gli studenti sia per le famiglie. Negli ultimi anni, però, si è assistito a un aumento di ricorsi al Tar da parte di genitori e studenti incapaci di comprendere che la bocciatura non è mai facile nemmeno per i docenti i quali devono prendere questa decisione la quale, nella maggior parte dei casi, si basa su valide motivazioni, prima tra tutte la non adeguata preparazione dello studente alla frequenza con profitto della classe successiva. Non a caso, in termini tecnici, la “bocciatura” è chiamata “non ammissione alla classe successiva”.

All’inizio di luglio ha tenuto banco, nelle discussioni sui social, il caso di una studentessa di Trento la quale, nonostante le 5 insufficienze, ha fatto ricorso al Tar perché non ammessa all’esame di Stato (o “maturità” come si tende a dire ancor oggi). Riammessa dal tribunale amministrativo, la ragazza ha affrontato senza successo le prove suppletive ed è stata bocciata dopo l’orale.

Anche in passato si sono verificati dei clamorosi insuccessi nell’ambito dei ricorsi al Tar. Per esempio, una sentenza del 2014 non solo dava ragione ai docenti ma costituiva una sorta di schiaffo morale ai genitori i quali, secondo i giudici, avevano manifestato stupore di fronte al giudizio conclusivo emesso nei confronti del loro figliuolo e avevano mancato nel dovere di vigilare costantemente sul loro comportamento e andamento scolastico, al fine di apprestare, in caso di necessità, tempestivi e idonei interventi correttivi o di sostegno.

Ai genitori delusi dalla bocciatura del figlio o della figlia consiglio la lettura di questo post datato giugno 2018.

6) Il voto di condotta

Negli ultimi anni la stampa ha messo in evidenza degli episodi di bullismo verso i compagni e/o aggressione nei confronti degli insegnanti da parte di allievi particolarmente discoli (per usare un eufemismo). Sotto accusa, nella maggior parte dei casi, la scarsa educazione ricevuta in famiglia ma, secondo me, in situazioni come quelle citate giocano un ruolo importante anche il contesto e i modelli che i ragazzi e le ragazze seguono. Il fatto, poi, che attraverso i social episodi così gravi siano diffusi senza scrupoli da giovani e giovanissimi a caccia di like, ha certamente amplificato il problema.

Due sono stati, durante questi mesi, gli episodi messi in risalto dalla stampa e inevitabilmente rimbalzati sui social.

Il primo riguarda il sedicenne che ha ferito in modo grave la sua insegnante di italiano al liceo scientifico Alessandrini di Abbiategrasso ed è stato espulso e bocciato con il 5 in condotta, anche in presenza di buone valutazioni nel profitto. I genitori hanno preannunciato il ricorso al Tar ma finora non è stato reso pubblico alcunché a riguardo. Sta di fatto che con il 5 in condotta è prevista la bocciatura, anche se la media dei voti è buona (DM 5/2009).

Il secondo caso ha visto come protagonisti dei ragazzini che, in una scuola di Rovigo, a ottobre hanno sparato alla loro insegnante con una pistola a pallini e, nonostante ciò, sono stati promossi con il 9 in condotta. L’azione era stata ripresa con un telefonino e postata sui social. Ciò ha indignato il ministro Valditara che ha fatto riconvocare il Consiglio di Classe; in questa nuova riunione i 9 sono stati abbassati, con buona pace di tutti. In realtà, a mio parere, questa azione di forza ha creato un pericoloso precedente.

Al di là di questi singoli episodi, a mio parere la questione del voto di condotta deve essere riaffrontata. Da parte sua Valditara ha preannunciato che chi avrà 6 nel comportamento dovrà recuperare “a settembre” (vedi punto 3) in Educazione Civica. Peccato che questa non sia una materia a se stante (le 33 ore obbligatorie sono distribuite su più insegnamenti e riguardano molti ambiti) e che il 6 costituisca di fatto il voto minimo per la sufficienza. I cosiddetti debiti si danno con voti inferiori al 6, ne consegue che la proposta del ministro sia irricevibile e possa dar adito a numerosi ricorsi al Tar. A meno che non si voglia condonare qualche 5, a seconda della gravità dei fatti e del momento in cui sono accaduti (se nel primo o nel secondo periodo dell’as.), e riconvertirlo in “debito” al posto della bocciatura. La questione mi sembra molto controversa.

La mia riflessione, però, vuole prendere in esame la valutazione della condotta nella scala decimale, al pari delle materie di insegnamento. Abbiamo detto che il 5 corrisponde all’insufficienza e il 6 è il voto minimo per la sufficienza, come è sempre stato. Il voto di condotta fa media come gli altri e dovrebbe avere, quindi, un valore simile agli altri voti presenti in pagella. Ma se da un lato le valutazioni nella diverse discipline raramente arrivano al 10, perché invece i 10 in condotta fioccano come neve a gennaio? E perché si guarda con sospetto chi merita 8 nel comportamento? Un 8 in Latino o Matematica è forse un brutto voto?

Insomma, la discussione è piuttosto lunga quindi invito alla lettura di questo post pubblicato nel 2020.

7) I risultati dei test Invalsi

Non poteva mancare, come argomento del dibattito estivo, quello sui test Invalsi. L’istituto, infatti, dopo la fine delle lezioni ogni anno pubblica i primi risultati facendo una panoramica generale, cui seguirà nei mesi prossimi il feedback destinato alle scuole. I titoli dei quotidiani sono stati più o meno simili: «In italiano e matematica insufficiente uno studente su due». Ciò ha scatenato la protesta degli insegnanti poiché, leggendo il rapporto ufficiale sul sito dell’istituto, risulta chiaro che le cose stanno messe un po’ diversamente rispetto a quanto fatto credere dalla stampa.

Non voglio tediare nessuno entrando nei dettagli, ma invito a leggere questo post scritto nel 2012 in cui mi chiedevo a cosa servano i test se nessuno li sa leggere per poterne trarre un qualche beneficio a favore di studenti e docenti. Me lo chiedo ancora.

8) La presunta demotivazione dei docenti perché pagati poco

Anche questo è per certi aspetti un argomento legato al precedente. Secondo la vox populi i docenti italiani temono i test Invalsi perché gli scarsi risultati sarebbero un chiaro segnale della loro impreparazione e/o della scarsa motivazione dovuta all’esiguo stipendio percepito.

In primo luogo chiarisco che i test non hanno lo scopo di valutare l’abilità dei docenti bensì rilevano la qualità dell’apprendimento. Voi direte: vabbè, se hanno insegnanti scarsi avranno anche risultati scarsi. Ragionamento opinabile perché nella dinamica insegnamento-apprendimento vengono messi in campo fattori di rilevante importanza come per esempio: il numero degli studenti per classe, la presenza di L 104 e/o DSA, la presenza di studenti non italofoni o che comunque non conoscono bene la lingua, il bacino d’utenza in relazione alle condizioni socio-economiche delle famiglie... il discorso è troppo ampio per essere sintetizzato.

In secondo luogo, si deve tener conto del fatto che spesso gli studenti, sapendo che il risultato dei test non ha alcuna rilevanza sul profitto, li eseguono svogliatamente e in fretta, senza prestare la dovuta attenzione alle domande e a volte, convinti di aver capito quanto richiesto, sbagliano semplicemente perché non hanno letto bene le consegne, non perché non sanno leggere o comprendere ciò che leggono. Mi riferisco in particolare alle prove di Italiano ma anche per svolgere bene i test di matematica bisogna prestare attenzione alle richieste.

Quanto allo stipendio degli insegnanti, è chiaro a tutti che è molto modesto e non restituisce dignità non solo agli insegnanti che si impegnano ma anche al titolo di studio richiesto – da anni la laurea è un requisito anche nella scuola primaria – per insegnare. Tutti i ministri che si sono avvicendati in viale Trastevere hanno preso atto che chi insegna guadagna poco, anche in considerazione dei numerosi oneri che questa professione impone. Tutti hanno dichiarato che gli stipendi dovrebbero essere allineati a quelli dei colleghi europei (a me viene da ridere pensando che in Germania, per fare un esempio, i docenti guadagnano più del doppio di noi) ma nessuno ha fatto molto. Contratti scaduti e rinnovati dopo molti anni, arretrati forfettari che non tengono conto realmente dell’importo dovuto, aumenti irrisori. Però gli insegnanti, pur malpagati, non si tirano indietro e fanno il loro dovere, almeno la maggioranza, con dedizione e piena consapevolezza della responsabilità che grava su di loro: l’istruzione e la formazione delle generazioni future.

Altre, non lo stipendio, sono le cause che possono portare se non alla demotivazione quantomeno a un certo scoraggiamento. Lo spiegavo qui all’allora ministra Giannini. Correva l’anno 2014 ma i problemi evidenziati allora sono, a mio parere, rimasti immutati.

Concludo questa carrellata scusandomi per i numerosi link. Spero di aver sollecitato la vostra curiosità spingendovi alla lettura se non di tutti i post almeno di quelli che ritenete più interessanti.

Buona estate a tutti!

[le immagini provengono da questo blog o da marisamoles.wordpress.com. Nel caso provengano da siti non linkati o siano coperte da copyright, prego contattarmi per e-mail]

SCUOLA: IL #GREENPASS DELLA DISCORDIA

Com’è noto, dal primo settembre i docenti – e il personale ATA – potranno recarsi a scuola solo previa esibizione del famigerato #greenpass. Uno strumento legittimo se ne consideriamo l’utilizzo ai fini ricreativi (per recarsi al cinema, teatro, musei…) o commerciali (per poter consumare al chiuso nei bar e ristoranti) ma altamente discriminatorio nel momento in cui il green pass viene richiesto per recarsi sul luogo di lavoro e soltanto a scuola, per giunta. Analoga richiesta, infatti, non riguarda gli impiegati degli enti amministrativi locali, chi lavora in ambito commerciale o ha un impiego in aziende private. Non riguarda nemmeno i parlamentari che si ritrovano a centinaia in un luogo chiuso dove stazionano a volte per ore. Dirò di più: pare che la percentuale degli onorevoli e senatori della Repubblica italiana vaccinati siano circa il 25% del totale.

In Italia, allo stato attuale, l’obbligo vaccinale interessa solo il personale sanitario. Nonostante ciò, c’è ancora una percentuale di medici, infermieri e OOSS non vaccinata e solo di recente (rispetto al decreto che risale ad aprile) si è iniziato a prendere provvedimenti per chi ancora non ha assolto all’obbligo imposto.

A scuola, invece, di fatto nessuno è obbligato a vaccinarsi per poter svolgere le proprie mansioni. Eh sì, perché il #greenpass non impone l’obbligo alla vaccinazione. Infatti, l’alternativa è fare un tampone ogni 3 giorni e, in caso di negatività, chiunque può mettere piede all’interno dell’edificio scolastico per lavorare. Quindi, chi non sottostà alle regole, dopo 5 giorni di assenza – non perché non voglia andare al lavoro ma perché non può – sarà sospeso dal servizio senza stipendio fino a quando non si metterà in regola.

Certo, a rigor di logica tutto parrebbe perfetto. C’è una “legge” (in realtà un decreto, pur essendo in vigore dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, deve essere convertito in Legge dal Parlamento entro 60 giorni), se non la si rispetta l’infrazione deve essere sanzionata. Se io, per esempio, mi reco in un locale al chiuso senza il certificato e nessuno mi controlla, posso essere sanzionata da parte delle Forze dell’Ordine esattamente come il gestore del locale. Posso, tuttavia, scegliere di non “fare la furba” e rinunciare al caffè con le amiche o al pranzo con i parenti.

Però il caso del personale scolastico è diverso: io docente non posso scegliere se recarmi a scuola oppure no, devo presentarmi al lavoro altrimenti vengo sospesa dal servizio ecc. Dunque, io posso pagare la multa una volta perché non ho seguito le regole recandomi al bar o al ristorante sprovvista del #greenpass, però nel momento in cui voglio svolgere il mio lavoro, ciò mi viene impedito fino al momento della regolarizzazione (o mi vaccino oppure faccio un tampone ogni 3 giorni).

Altra questione. Se il “sacrificio” dei docenti è una questione morale e civica, perché il #greenpass non si estende a tutti i lavoratori in ogni ambito? La commessa che sta 8 ore all’interno del supermercato e viene a contatto con centinaia di clienti può non essere vaccina. La stessa cosa vale per il cameriere che serve le consumazioni al bar o lavora al ristorante dove io, come cliente, devo esibire il certificato. Idem per l’operaio che lavora in fabbrica o l’impiegato che si relaziona con il pubblico. Mi si dirà: un docente è a contatto con molti studenti, in un’aula spesso sovraffollata, è responsabile della loro salute, è un obbligo morale quello di vaccinarsi per dare un buon esempio. Teoricamente il ragionamento non fa una piega però…

L’obbligo del #greenpass per il personale della scuola e non per gli studenti è un’assurdità, visto che stiamo parlando di una percentuale minima, circa il 10%, rispetto al totale degli studenti (il 90% rimanente). Verrebbe da pensare che l’obbligo per il personale scolastico sia rivolto ad arginare i contagi non per salvaguardare la salute dei ragazzi ma per evitare ricoveri in TI e in altri reparti ospedalieri, data anche l’età piuttosto elevata del personale docente. Quindi la sicurezza degli studenti non c’entra proprio nulla.

Perché, dunque, per scongiurare la #DAD (questo è il problema… la scuola in presenza a tutti i costi) non si impone anche ai discenti che possono essere vaccinati l’obbligo del #greenpass? E’ vero che i più giovani rischiano di meno se si ammalano di Covid-19, la maggior parte è asintomatica, non ha bisogno di cure e non rischia di occupare le TI e i reparti covid. Ma è anche vero che proprio gli asintomatici sono i più pericolosi a livello di diffusione del contagio. Quindi, sul totale delle persone presenti a scuola, il 10% dei docenti vaccinato (poi sappiamo che la vaccinazione non dà immunità perché ci possono essere positivi anche tra i vaccinati) dovrebbe essere responsabile della salute del 90% di studenti, per la maggior parte non vaccinata? Se parliamo di senso civico, perché non dare una bella lezione agli adolescenti (più che altro alle famiglie) istituendo l’obbligo del #greenpass anche per loro? Certo, in questi giorni c’è un appello rivolto ai più giovani affinché si vaccinino, ma è un appello, nulla di più.

A luglio il generale Figliuolo aveva dichiarato di voler attendere il 20 agosto per fare il quadro della situazione circa la vaccinazione del personale della scuola, facendo appello, nel frattempo, a quella esigua percentuale che non aveva aderito alla campagna di vaccinazione. Pur considerando delle differenze tra le varie regioni e la difficoltà nel reperire i dati dal momento che l’iniziale canale preferenziale è stato poi sostituito dalle fasce d’età, si parlava del 20% circa di persone che non aveva ancora fatto la prima dose del vaccino. Perché mai, dunque, il 6 agosto si è deciso di istituire l’obbligo del green pass per entrare a scuola dal 1. settembre? La famosa immunità di gregge non ha più valore?

La proposta di Figliuolo mi sembrava saggia. Andare con i piedi di piombo, in certe situazioni, è consigliabile. Sì, perché a volte i conti si fanno senza l’oste…

Poniamo che quella piccola percentuale di docenti e ATA ancora non vaccinata alla data del 6 agosto si sia fatta persuadere. Immagino che tutti abbiano almeno tentato di prenotarsi entro breve tempo ma non in tutti i luoghi si riesce a ottenere un appuntamento da un giorno all’altro. A volte si aspettano due-tre settimane, specialmente ora che, con la faccenda del green pass necessario per le vacanze, i centri sono stracolmi. Un docente, dunque, deve essere particolarmente fortunato a ricevere la prima dose entro il 16 agosto per poter ottenere il #greenpass in tempo per la ripresa dell’anno scolastico. Infatti, la certificazione verde si ottiene a partire dal 14° giorno successivo all’inoculazione del vaccino.

Altro paradosso: proprio per sensibilizzare i più giovani che frequentano le scuole (12-17 anni pare essere la fascia meno protetta), in questi giorni si sta proponendo di permettere ai ragazzi di accedere agli hub anche senza prenotazione. Quindi, i docenti che devono vaccinarsi (sempre che non vogliano fare un tampone ogni 3 giorni) devono pregare Dio, la Madonna e tutti i Santi per ottenere un appuntamento in tempo utile. Gli studenti per i quali non vige l’obbligo, acquisiscono tale diritto anche senza prenotazione. Loro che non rischiano una sanzione se non provvisti di #greenpass e che non hanno necessità di recarsi a scuola il 1. settembre.

Non appare strano che in questi giorni si siano levate le proteste non solo da parte dei sindacati (tutti contrari all’introduzione della certificazione) ma anche dei Dirigenti Scolastici. Infatti, qualora non facciano gli opportuni controlli, rispondono in prima persona e possono essere sanzionati con una multa fino a 1000 euro.

Nonostante l’Associazione nazionale presidi abbia fin da subito caldeggiato l’obbligo vaccinale per il personale (attenzione: obbligo non green pass), ora si assiste a una levata di scudi contro il decreto che fa gravare sui singoli istituti l’onere del controllo, più adatto ai funzionari di polizia che ai dirigenti scolastici. Senza contare che mancano i fondi per assumere personale deputato a tale incarico (il DS non esegue in prima persona il controllo ma delega… mi pare ovvio) e la richiesta è di almeno 8000 impiegati di segreteria in più negli istituti di ogni ordine e grado. In compenso, sono stati stanziati 358 milioni di € per coprire con le supplenze i posti “lasciati liberi” dal personale non in regola.

A proposito di supplenti, anche loro potranno prendere servizio solo se in possesso di certificato. Certamente quelli “storici” si saranno premuniti ma i più giovani, magari appena laureati che sperano di poter fare qualche mese di supplenza con la MAD, come faranno? Forse ci hanno già pensato perché frequentatori più assidui di bar e ristoranti, fra brunch e apericena.

Infine, last but not least, tutta questa storia del #greenpass obbligatorio a me pare sinceramente un elemento distrattivo rispetto a quelle che sono le reali esigenze per una scuola in presenza sicura e duratura. Dopo due anni di pandemia, ancora nulla si è fatto per eliminare le classi-pollaio, per aumentare gli spazi e ristrutturare tanti edifici scolastici italiani che si trovano ai limiti della fatiscenza, per aumentare gli organici (le assunzioni straordinarie del personale Covid, comunque insufficienti, sono destinate a coprire solo il periodo fino al 31 dicembre, con la fine presunta dello stato di emergenza), dotare le aule dei sistemi di ventilazione e purificazione dell’aria indispensabili per poter affrontare le stagioni più fredde. Sembra che gel, mascherine (ma solo quando il distanziamento non è possibile…) e finestre aperte per 10 minuti ogni ora siano tutto ciò che basta per avere un ambiente sanificato all’interno degli edifici scolastici. Perché tanto c’è la vaccinazione

Dice bene Mario Rusconi, responsabile dell’Anp per il Lazio: «Il Green Pass deve essere esteso a tutte le persone adulte che frequentano la scuola: genitori, fornitori, esperti, collaboratori.»

Abbiamo tempo fino al 6 ottobre per chiarirci le idee. Nel frattempo il Parlamento dovrà decidere quali correttivi introdurre al decreto prima della conversione in Legge. Ciò non toglie che il primo settembre è dietro l’angolo e sulla ripresa della scuola la confusione regna sovrana. Quest’anno, se possibile, ancora di più.

[fonti: Tecnica della scuola; Repubblica.it; huffingtonpost.it; le immagini presenti sono contrassegnate di libero utilizzo, Licenza Creative Commons]

#COVID19: COME AVVERRÀ LA RIAPERTURA DELLE SCUOLE A SETTEMBRE?


Se dovessi rispondere in modo onesto alla domanda posta dal titolo potrei dire: non lo sappiamo. E potrei chiudere qui il post, il più breve nella storia di questo blog.

Visto che da settimane leggo proteste provenienti da ogni dove (genitori e no) riguardo al fatto che sono riprese varie attività (bar, ristoranti, spiagge, palestre… oltre a tutte le attività commerciali) ma la scuola è rimasta chiusa, inesorabilmente fino al termine previsto dai calendari regionali, sento l’esigenza di chiarire alcuni fatti, anche di natura legale, che non permettono di equiparare la scuola, pubblica o privata che sia, a qualsiasi attività economica.

La scuola non interessa nessuno, tanto non produce nulla in termini economici.

Questa è la prima affermazione cui vorrei controbattere. La scuola, in realtà, produce qualcosa che non può essere monetizzato: la cultura, l’istruzione, l’educazione di bambini e ragazzi su cui l’istituzione ha delle grosse responsabilità. Spero siano passati i tempi in cui quel politico che non voglio nemmeno nominare disse che con la cultura non si mangia. Certo, se la consideriamo in senso stretto è vero, ma la cultura permette a chiunque di potersi preparare e formare per il mestiere o la professione che da adulto svolgerà. La scuola non è un fast food, un mangia e fuggi, ha bisogno dei suoi tempi. La scuola e l’università sono luoghi in cui si semina e si raccoglie, ma soprattutto luoghi in cui si prepara quel buon raccolto per cui ciascuno, con impegno e dedizione, ha lavorato.
Quindi, se la scuola è rimasta chiusa non è perché non produce o perché a nessuno interessa il suo buon funzionamento. La sospensione delle attività didattiche in presenza (questo è il modo corretto di interpretare la “chiusura delle scuole” di ogni ordine e grado a causa del Coronavirus) è stata una decisione dolorosa ma quanto mai necessaria. La tutela della salute degli studenti e di tutto il personale scolastico è un dovere, sancito dalla Costituzione. L’articolo 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Cos’è la scuola se non una collettività?

Sì, ma la Costituzione deve garantire anche il diritto allo studio.

Vero, tant’è che, sebbene la DAD sia partita in sordina, grazie alla buona volontà di migliaia di scuole che si sono subito attivate soprattutto per non perdere il contatto con gli studenti, per non lasciarli soli e per non dare l’idea che la sospensione delle lezioni potesse essere considerata vacanza, poi con il D.P.C.M. del 4 marzo 2020 è diventata attività obbligatoria. Scelta discutibile, è vero, considerando che non c’era stata la dovuta formazione dei docenti, la DAD non è prevista dal CCNL, non era accessibile a tutti (sto parlando anche dei docenti che non sono obbligati per contratto ad avere pc, webcam, connessione efficiente a casa propria), senza parlare dei problemi di privacy che il Garante ha pensato di liquidare al più presto con l’obbligo da parte delle famiglie di firmare la liberatoria.
Tutto ciò deve far pensare che la scuola non si è mai fermata. Ciò è confermato dal fatto che l’O.M. 11 del 16 maggio 2020 chiarisce che le attività svolte in DAD dovevano essere regolarmente valutate, pur con l’obbligo di promuovere tutti gli studenti. Cos’altro sarebbe stato possibile fare? Annullare un anno scolastico, danneggiando chi si è sempre impegnato e ha continuato a farlo con senso di responsabilità? Se davvero si fosse optato per l’annullamento dell’a.s. 2019/20, allora si sarebbe violato l’articolo 34 della Costituzione che garantisce il diritto allo studio.

Il Covid19 ormai non è più un problema, a settembre si può tornare in classe anche senza rispettare distanziamento e protocolli di sicurezza.

Questa è un’affermazione sbagliata e quantomai arrogante. Gli italiani, sempre pronti a esprimersi sul campionato di calcio, criticando le scelte di allenatori e arbitri, all’improvviso sono diventati esperti virologi.
Anche se i contagi sono in diminuzione, le terapie intensive fortunatamente si stanno svuotando e, nonostante la ripresa di molte attività, non si è vista una nuova esplosione come ventilato dagli stessi esperti, il virus c’è e non sappiamo quale potrà essere l’evoluzione nei prossimi mesi. Ciò non significa che dobbiamo vivere nel terrore, ci mancherebbe. Ma sottovalutare un nemico invisibile come il Covid19 è da irresponsabili.
Nel mondo la pandemia non si è affatto fermata (vedi Brasile, in generale l’America Latina, l’India, il recente nuovo focolaio in Germania) e, anche se certi esperti (purtroppo sono in grande disaccordo quindi non si sa davvero a chi credere) affermano che il virus si sia attenuato per motivi climatici, come l’innalzamento delle temperature, non sappiamo cosa succederà in autunno. Riaprire le scuole senza restrizioni, cosa comunque sconsigliata dallo stesso CTS, potrebbe portare, entro qualche settimana, a una nuova chiusura che metterebbe in seria difficoltà non solo la scuola stessa (la DAD, tanto vituperata, dovrebbe essere nuovamente ripresa) ma anche le famiglie che, di punto in bianco, si troverebbero nuovamente in emergenza con i figli a casa. E si sa, la scuola fa comodo come babysitting…

Oltre a ciò, non si può sottovalutare la responsabilità dei Dirigenti Scolastici che devono garantire la tutela della salute del personale docente e non docente e, soprattutto, degli studenti, valutando i rischi e mettendo in atto adeguate misure di protezione per evitare la diffusione del Coronavirus nelle classi. Quindi, la questione ha un carattere legale affatto trascurabile.

Hanno riaperto bar, ristoranti, palestre, teatri, cinema… solo la scuola non riapre.

Ed eccoci all’obiezione che personalmente odio di più. In primo luogo, perché sembra che siano i docenti a non voler riprendere le lezioni regolari. Non c’è nulla di più falso, anche perché la DAD è costata talmente tanta fatica che tutti noi vorremmo ritornare in aula, davanti ai nostri 26-28-30 allievi, se non di più, e abbandonare le lezioni a distanza che ci hanno visti impegnati per tre mesi davanti al pc, a volte 12 ore al giorno, 7 giorni su 7.
In secondo luogo perché chi si esprime in quei termini, non capisce che la scuola è un servizio che viene offerto ai cittadini e comprende ben 10 anni di frequenza obbligatoria. Quindi, è un servizio che lo Stato deve garantire come diritto allo studio e nello stesso tempo è un dovere per i bambini e i ragazzi fino al compimento del 16° anno di età.
Non mi risulta che bar, ristoranti, palestre, teatri e cinema, solo per fare alcuni esempi, prestino un servizio statale per di più obbligatorio nei confronti di minorenni. Insomma, se uno vuole farsi un aperitivo, mangiare una pizza, tenersi in forma, godersi uno spettacolo teatrale o cinematografico può farlo come libera scelta, nessuno lo obbliga. La scuola, invece, è obbligatoria.
Non solo, nei bar, ristoranti ecc. non si entra in massa, tutti nello stesso momento, tant’è vero che in quasi tutti i casi (forse ad esclusione dei bar) è necessaria una prenotazione, proprio per evitare la folla di persone che si riversa in quei luoghi nello stesso momento.
A scuola, quando suona la campanella, di solito la lezione inizia per tutti e ci sono scuole che hanno più di 1000 iscritti, qualcuna anche più di 2000. Chi obietta mi deve spiegare come si può far entrare in sicurezza una tale massa di persone, senza creare assembramenti.
Mettiamo pure che si risolva il problema con l’entrata scaglionata (che già di per sé comporta una dilatazione dell’orario scolastico con classi che iniziano e finiscono la mattinata in orari diversi, con ripercussioni evidenti anche sull’orario dei docenti), una volta che 28-30 allievi fanno ingresso in aula, come si fa a garantire il distanziamento previsto dai protocolli del CTS?

Mascherine no, plexiglas no, metà classe no… tutti questi no, che paiono alquanto imperativi, non sono accettabili.

Partendo dalla considerazione che le classi intere non possono fare ingresso a scuola come se nulla fosse successo, dividere le classi a metà appare la soluzione più logica. Non servirebbero né mascherine né divisori in plexiglas, basterebbe la distanza giusta a prevenire i contagi. Naturalmente con tutta una serie di precauzioni: consumare la merenda al banco perché la “libera circolazione” degli studenti nelle aree comuni imporrebbe l’uso della mascherina (come avviene nei luoghi chiusi anche adesso) e mangiare con addosso la mascherina sarebbe impresa ardua, la sanificazione dei servizi ogni volta che vengono usati, l’obbligo di arieggiare spesso le aule (come la mettiamo con finestre che spesso stanno su per miracolo?), di passare l’igienizzante su cattedra, sedia, pc di classe, cancellino… ogni volta che un docente finisce la lezione, oltre al fatto che evidentemente le entrate e le uscite debbano essere scaglionate. Tutto ciò comporterebbe un aumento di personale ausiliario che pare il MI abbia già previsto. Fortunatamente, aggiungo, visto che in un primo tempo sembrava che la pulizia fosse un atto dovuto per ciascun docente.

Metà classe significa il doppio dei docenti? Nossignori, di assumere personale docente, se non per il turn over, non se ne parla.

A parte il fatto che se io ho seguito per 4 anni un gruppo classe, non mi andrebbe di lasciarne metà nelle mani di un altro insegnante, né credo che ciò farebbe piacere ai ragazzi. Che faccio? Li scelgo uno ad uno, mi prendo i migliori? Oppure i più deboli che hanno bisogno di una guida sicura, da parte di chi li conosce già da tempo? Non è difficile capire che la soluzione non sarebbe ideale.

Metà classe significa che ci daranno il doppio delle aule?

Su questo vorrei glissare perché mi viene da ridere. I Dirigenti Scolastici da tempo invocano più spazi, proprio in previsione di un ritorno in aula non regolare. Purtroppo, però, lo Stato non può intervenire direttamente e delega Comuni, UTI, enti locali dai quali provengono, almeno per quanto ne sappia, le proposte più variegate e stravaganti. Potete andare a fare lezione in qualche teatro, cinema, stadio, padiglione della Fiera… Ora, non voglio sembrare schizzinosa o irriconoscente nei confronti di tanta buona volontà, ma tali proposte comportano dei problemi almeno per due motivi: logistici e pratici. Innanzitutto, bisogna vedere se gli enti proprietari sono disposti a una riconversione semi-permanente degli spazi messi a disposizione. In secondo luogo, quanto costerebbe tutto ciò? A chi spetterebbero gli oneri? A queste domande non ho una riposta, purtroppo. È tutto molto complicato.

Molte delle soluzioni proposte non tengono in alcun conto il problema logistico. Avere una succursale, sebbene provvisoria, a 8-10 km dalla sede centrale comporterebbe non solo delle difficoltà nella gestione dell’orario dei docenti e del loro trasferimento da una sede all’altra (insomma, non siamo mica obbligati ad avere un’automobile…) ma sarebbe complicato spostarsi anche per gli stessi studenti, specialmente i pendolari che nemmeno conoscono bene la città in cui ha sede la scuola. Senza contare che, almeno per l’utenza, sarebbe indispensabile la collaborazione da parte delle aziende dei trasporti che, a quanto ne sappia, non sono nemmeno tanto disponibili a ritoccare gli orari, tant’è che molti studenti hanno dei permessi permanenti di entrata posticipata e uscita anticipata proprio a causa dei mezzi di trasporto. Ovviamente sto parlando della realtà in cui vivo, non so quali siano le problematiche delle altre città, specie le più grandi.

Fate quello che volete ma basta con la Didattica a distanza!

Ecco l’ultima fastidiosa obiezione che giocoforza ho dovuto lasciare alla fine, dopo aver tentato di spiegare per quali motivi la ripresa a settembre sarà un vero rompicapo.
Riprendiamo in considerazione il fatto che le classi saranno quasi inevitabilmente divise a metà. Di ciò dobbiamo ringraziare i governi del passato che, a suon di tagli, hanno creato le cosiddette classi-pollaio e accorpato scuole per risparmiare sugli stipendi di dirigenti e docenti. Più allievi per classe significa meno docenti e quindi meno stipendi da pagare; accorpare le scuole significa diminuire il numero di dirigenti. Un bel risparmio.
Mai come in questo periodo, a causa del Covid19, ci si è resi conto di quanto sia stato deleterio operare tagli indiscriminati su Sanità e Scuola (a questo proposito vi invito alla lettura di un interessante editoriale di Guido Tonelli, pubblicato tempo fa sul Corriere della Sera). Oggi ne stiamo pagando le conseguenze e la soluzione, se per la Sanità in parte è stata trovata con l’assunzione straordinaria di personale medico e paramedico, sembra che per la Scuola non sia sentita come necessità impellente: in fondo, non salviamo vite

Quindi, se metà classe starà in aula, l’altra metà (con la dovuta turnazione) dovrà seguire le lezioni a distanza. Qualunque sia il modello di didattica mista che ogni scuola sceglierà, la DAD non potrà scomparire, almeno non dalle scuole secondarie di secondo grado. Le linee guida divulgate ieri dal Ministro dell’Istruzione “salvano”, almeno questo è l’intento, solo i bambini delle primarie. Per il resto, dovremo arrangiarci ed è necessario che i genitori si mettano il cuore in pace.

L’atteggiamento assunto dal Ministero, che viene letto come “arrangiatevi, fate quel che potete”, non è del tutto illogico. Lo Stato non conosce le varie realtà scolastiche e, anche per ciò che riguarda l’aspetto sanitario, le regioni possono avere situazioni diverse, quindi proporre un modello uguale per tutte le scuole del territorio nazionale sarebbe assurdo. Diciamo che la proposta di soluzioni diverse avrebbe potuto essere argomento di discussione fin da subito, almeno dal momento in cui era chiaro che non saremmo tornati a scuola entro giugno. La latitanza del Governo c’è stata, inutile negarlo. Ora possiamo solo attendere gli eventi, facendo tesoro dell’esperienza e sperando che agli errori del passato ora si possa porre rimedio guardando al futuro.

Sarà una lunga estate e per nulla tranquilla, temo.

[immagine da questo sito]

UN BILANCIO SULLA DIDATTICA A DISTANZA


L’emergenza coronavirus ha costretto la scuola italiana a fare i conti con una metodologia didattica mai sperimentata prima, almeno non in modo esclusivo. La didattica digitale, infatti, è nata per accompagnare quella tradizionale non per sostituirla. Di punto in bianco è venuta a mancare la presenza a scuola, la condivisione degli spazi, a volte troppo stretti e solo ora tutti iniziano a rendersene conto (gli addetti ai lavori lo sanno da molto tempo), il bello e il brutto della vita scolastica fatta di “gioie e dolori”, di inevitabili attriti ma anche di empatia. La didattica non è una scienza esatta, ognuno la interpreta come vuole o anche come può. “Ho fatto il possibile” si dice spesso, ma è bene ricordare che i margini di miglioramento ci sono sempre.

La “buona volontà” è uno dei mezzi attraverso il quale spesso si veicolano i saperi. Tanta buona volontà, da parte dei docenti, ha permesso di praticare la DaD, anche senza una formazione specifica. Ma anche gli studenti erano impreparati e sono stati costretti a metterci tutta la loro “buona volontà”, anche se non tutti. E pure fra i docenti ci sarà stato qualcuno meno impegnato, tanto lo sapevamo fin dall’inizio, o quasi, che l’anno si sarebbe concluso con “tutti promossi”, a risarcimento parziale di quell’incidente di percorso che si è rivelata essere l’emergenza Covid19. Per qualcuno, anzi tanti, molto più di un incidente ma in questa mia riflessione vorrei affidarmi a quel #tuttoandràbene che è stato il motto della reclusione forzata imposta dal diffondersi del contagio, oltre a ogni limite immaginabile.

Per una volta, dopo la rimozione della pedana avvenuta nella maggior parte delle aule scolastiche, docenti e discenti si sono ritrovati sullo stesso piano: davanti al pc o tablet, a volte davanti allo smartphone che è l’unico dispositivo che i ragazzi, e molte famiglie, ritengono davvero utile, ognuno a casa propria. Camerette, studi con librerie traboccanti di libri, forse mai letti, sale da pranzo, cucine, armadi (sì, quelli che si trasformano in postazioni d’ufficio senza occupare tanto spazio), sgabuzzini, sottotetti con travi a vista, giardini o terrazze (con l’aumento della temperatura) hanno fatto da sfondo a tante videolezioni che, in qualche modo, hanno tentato di salvare il salvabile. Un anno scolastico disgraziato che, solo davanti a concerti improvvisati dai terrazzini e inno nazionale cantato a squarciagola, ha avuto la parvenza di qualcosa di più di un semplice “ci rivediamo a settembre”. Forse.

Video è la parola che ha caratterizzato le nostre vite per il lungo periodo di reclusione forzata (scusate ma lockdown a me non piace). Videoconferenze, videochiamate con amici e parenti per non perdersi di vista, video prodotti dagli insegnanti per spiegare le regole (secondo la metodologia della flipped classroom), video prodotti dagli studenti per dimostrare le competenze digitali che andavano valutate.

Video è il verbo latino che significa “vedo”. Eppure io ho visto davvero poco. Le telecamere erano spesso spente per non rallentare la connessione, così non sapevo mai cosa succedesse dietro le quinte. Quando, alla fine della lezione, notavo qualcuno stazionare sulla piattaforma Meet, comprendevo che dietro a una telecamera spenta si possono fare un sacco di cose, perdendo la cognizione del tempo.

Audio è un altro verbo latino che significa “ascolto”. Eppure io ho ascoltato ben poco. I microfoni spesso spenti, per non far sentire giustamente gli strilli dei fratellini o le urla di madri esasperate da una permanenza entro le mura domestiche che non è un’abitudine per chi non fa la casalinga, ma spenti anche per poter fare una telefonata in tranquillità o semplicemente per non rispondere a una domanda dei prof. Non potete immaginare la tempestività con cui i microfoni si rompevano, eppure erano perfettamente funzionanti fino a un attimo prima. “Non so perché” era la risposta di rito, rigorosamente scritta in chat.

L’audio degli insegnanti è, al contrario, sempre rimasto acceso. A beneficio dei discenti, certo, ma anche esposto a orecchie indiscrete. Quale genitore ha mai chiesto di entrare in aula durante le lezioni? Nella cameretta del figlio, però, ci è entrato senza bussare e senza chiedere il permesso. Anche se nessuno ha nulla da nascondere – insomma, se in classe c’è qualcuno che legge il giornale o smanetta con il cellulare, con le poche ore a disposizione per la DaD non credo che si sia divertito a perdere tempo, piuttosto i refrattari si saranno semplicemente rifiutati di fare i videocollegamenti, visto che non hanno costituito un’esclusiva tra gli strumenti messi in atto – può essere poco gradita una supervisione non autorizzata da parte delle famiglie.

Cos’è davvero successo durante le videolezioni al di là del monitor? Nella maggior parte dei casi non lo sappiamo. Ma nel momento in cui siamo stati obbligati a valutare questo percorso i dubbi sono stati tanti. Come valutare le competenze chiave europee senza poter distinguere tra chi non ha partecipato per problemi tecnici (soprattutto la connessione che in certe zone è scadente oppure a causa dell’utilizzo in contemporanea di più dispositivi, da parte di altri componenti della famiglia per lavoro o studio) e chi invece non ne ha proprio avuto voglia? Come giustificare il ritardo nella consegna dei compiti se non sappiamo distinguere tra varie scuse accampate e poco impegno? Come obbligare chi non vuole partecipare a una lezione dialogata per timidezza o anche perché non vuole farsi sentire dai familiari? Come comprendere se i risultati sono stati scadenti per mancanza di impegno oppure per la mancata comprensione di certi argomenti? E’ già molto difficile che qualche allievo chieda apertamente spiegazioni in classe, figuriamoci nel contesto della videolezione.

Insomma, la valutazione rappresenta uno dei nodi, se non il più importante, da sciogliere prima di poter affermare che la Didattica a Distanza potrebbe diventare prassi nell’educazione, seppur accompagnata dalla didattica in presenza.

Finora ho riflettuto immaginando una completa disponibilità da parte degli studenti a seguire la DaD, avendone i mezzi e mettendoci o meno tutto l’impegno possibile. Che dire degli altri? Di chi non ha potuto rimanere in contatto con la “scuola a distanza”, nonostante i milioni di € stanziati dal MI, sempre troppo tardi comunque. Si parla di 1.600.000 fra bambini e ragazzi per i quali la DaD ha probabilmente coinciso con un anticipo delle vacanze estive. Con tanto di promozione assicurata.

Ci sono in Italia delle realtà scolastiche difficili in cui, nonostante l’impegno di dirigenti e docenti, già in tempi normali è complicato stabilire relazioni soddisfacenti con le famiglie. La mancanza di motivazione è a monte, la latitanza è la regola e con le lezioni a distanza è venuto a mancare anche quel contatto tra scuola e famiglia, fatto di incontri in presenza, che non sempre ha successo. Ma almeno si tenta.

La Dad non ha rimosso gli ostacoli, ne ha creati altri. Tecnologici ma non solo.

La maggior parte degli allievi che hanno una famiglia alle spalle e che trovano dentro di sé una forte motivazione per non rimanere indietro, si è adeguata a questa nuova modalità senza traumi, anzi, considerando soprattutto il lato positivo che deriva dall’acquisizione di una maggiore autonomia nello studio e senso di responsabilità. Tre mesi li hanno fatti crescere più che non un intero anno. Ricordate le competenze chiave europee? “Imparare ad imparare” è senz’altro la competenza in cui un buon numero di studenti si è cimentata ottenendo anche un discreto successo. Ma chi non ha voglia di imparare, neppure se accompagnato e preso per mano, quanti stimoli può avere per farlo da solo?

Nonostante il “tutti promossi”, con la dispersione scolastica si dovrà fare i conti. E non mi riferisco solo a chi dalla Dad non è nemmeno stato raggiunto. Parlo anche di quegli allievi che, pur in presenza di lacune grandi come baratri, sono stati promossi, non importa se con il 6 o il 5 o il 4, e dovranno fare i conti con una preparazione che non permetterà loro di proseguire gli studi nella classe successiva, dovendo recuperare le materie insufficienti, nere o rosse che siano, e nello stesso tempo stare al passo con i nuovi programmi. Immagino che da parte di questi allievi non ci sia la consapevolezza delle difficoltà cui andranno incontro. Per loro la promozione è ciò che conta, poi si vedrà.

Concludo questa lunga riflessione (nonostante abbia cercato di essere sintetica…) facendo una considerazione: la DaD ha davvero per certi versi creato le condizioni ideali per praticare la flipped classroom, la “scuola capovolta” che costringe gli studenti a gestire la propria autonomia nell’apprendimento. Però dalle faccette sciupate di molti allievi e allieve che ho potuto osservare per i saluti finali, ho avuto l’impressione che più che flipped le classi siano state shakerate. Insomma, da un giorno all’altro li abbiamo messi in un mixer, li abbiamo scossi un po’, a volte con successo altre volte apparentemente senza esito alcuno, e forse il cocktail che ne è uscito deve raggiungere la consistenza giusta. Forse abbiamo sbagliato ricetta.

Una cosa è certa: solo il rientro in aula permetterà a tutti i nodi di venire al pettine. Poi cercheremo, se potremo e come potremo, di correre ai ripari.

[immagine da questo sito]

LA SCUOLA (A DISTANZA) AI TEMPI DEL #CORONAVIRUS


L’emergenza COVID-19, in atto ormai da più di due settimane in alcune regioni italiane, e che negli ultimi giorni ha coinvolto tutta la penisola nella sospensione delle attività didattiche (non chiusura, è bene sottolinearlo), ha costretto famiglie, studenti e docenti a rivedere il loro rapporto con la scuola. Cosa si sta facendo? Cosa si può o si deve fare? Come si deve gestire la didattica a distanza? In che modo reagiscono le famiglie a questa novità? In che modo gli studenti?

Chiariamo subito che mi limiterò a parlare delle scuole secondarie di secondo grado la cui gestione dell’emergenza è sicuramente più semplice perché gli “utenti” (che brutta parola!) sono ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18-19 anni, quindi gestibili facilmente. Il discorso è senz’altro diverso per le scuole frequentate dai più piccoli (dal nido alla primaria, passando per la scuola materna) perché le scuole sono anche il luogo in cui i figli passano molte ore al giorno, agevolando la loro gestione in famiglia. Ma anche le famiglie degli alunni che frequentano la scuola media sicuramente ora si trovano in difficoltà, visto che l’età dei ragazzi è ancora troppo giovane per poterli lasciare da soli a casa.

Insomma, per quanto non ami descrivere la scuola come un parcheggio, bisogna ammettere che l’emergenza in atto può comportare seri problemi di custodia dei piccoli. Non tutti i nonni sono disponibili, non tutte le mamme fanno le casalinghe, non sempre è facile trovare delle babysitter e comunque si tratta di un costo aggiuntivo cui molti genitori non possono far fronte.

Il governo in questi giorni sta cercando di venire incontro a queste difficoltà (contributo per il babysitting, congedi parentali…) ma sappiamo tutti che il welfare in Italia non è minimamente paragonabile ai Paesi del nord Europa, quindi è meglio non aspettarsi nulla di veramente efficace né tanto meno di risolutivo.

Tuttavia, con questo post vorrei soffermarmi sulla didattica a distanza che il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina ha caldamente raccomandato negli ultimi giorni. Un’intera pagina del sito ministeriale è dedicata all’emergenza #coronavirus (LINK).

Nel DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 4 marzo 2020 (QUI potete leggere l’intero documento) si legge:

I dirigenti scolastici attivano, per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità.

La differenza tra questo Decreto e gli altri pubblicati nelle settimane scorse, riguardanti solo alcune regioni italiane, è che la dicitura “possono attivare…” per i dirigenti diventa un obbligo (“attivano”). Naturalmente ciò non significa che tutti i docenti debbano attivarsi per la didattica a distanza o, per meglio dire, non sono obbligati a mettere in atto particolari strategie utilizzando chissà che strumenti tecnologici. Infatti, un insegnante in teoria può limitarsi ad assegnare dei compiti da svolgere e degli argomenti da studiare dal manuale in adozione (anche in modo autonomo), utilizzando il registro elettronico (ormai credo sia una realtà diffusa in tutte le scuole) oppure comunicando con le famiglie attraverso la posta elettronica.

Ora mi chiedo: se un docente (non dimentichiamo che in Italia l’età media supera i 50 anni) non ha dimestichezza con chissà quali strumenti tecnologici, è comunque costretto a imparare in fretta e senza un’adeguata formazione? Direi di no. Quindi chi si limita a comunicare “le cose da fare” agli studenti o ai genitori, credo possa assolvere al compito che gli è stato affidato.

In questo caso, però, non si tratta di didattica a distanza.

La didattica a distanza, infatti, è molto complessa. Sul web sono reperibili strumenti di vario tipo, più o meno accessibili a tutti. Molte scuole utilizzano la piattaforma Gsuite che offre la possibilità di sfruttare risorse utili (Classroom, Meet, Hangouts) ma non tutti sono in grado di usarle. [maggiori informazioni QUI]

C’è anche da mettere nel debito conto il fatto che non tutte le famiglie hanno un pc o una connessione (soprattutto efficiente), perché ormai quasi tutti usano lo smartphone con la connessione offerta dal gestore telefonico che ha comunque dei limiti e in qualche caso è costosa. Aggiungiamo il fatto che molti genitori non vorrebbero vedere i propri figli tutto il giorno connessi e non sempre riescono a controllare che essi svolgano davvero le attività assegnate e non si perdano in giochi poco istruttivi. Questo timore è tanto più grande quanto più piccoli sono i figli.

Insomma, la questione è delicata e la gestione della didattica a distanza è tutt’altro che semplice. In questi giorni ho assegnato un compito per classe (che è il minimo, direi). Ma mentre in classe la correzione dei compiti è collettiva e porta via al massimo un’ora (ma il più delle volte molto meno), ora mi trovo 76 compiti da correggere e arrivano quasi tutti in massa, alla scadenza indicata.

E vogliamo parlare delle valutazioni? Come si fa a somministrare a distanza verifiche soggette a valutazione? Non sappiamo quanto tempo ci impiegano e l’organizzazione in tal senso è molto importante: se per un compito di latino concedo un’ora e a casa gli studenti impiegano il triplo del tempo, non posso valutare quel parametro particolare. Inoltre come facciamo a sapere se le verifiche a distanza vengono svolte senza aiuti? Impossibile.

Ma accanto a tutte le questioni di ordine tecnico, quello che manca a tutti, docenti e studenti, in questo periodo, è quel mondo di relazioni che la scuola costituisce al di là dei doveri cui ogni componente può rispondere attraverso la didattica a distanza. E’ vero che a volte le relazioni sono difficili, faticose. Ma è anche vero che la comunicazione asettica (rimanendo in tema…) attraverso fogli elettronici e messaggi on line non può sostituire la comunicazione interpersonale dal vivo.

«Non c’è speranza di gioia ad eccezione che nelle relazioni umane.» (Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)

[immagine da questo sito]

10 IN CONDOTTA: TUTTI MERITATI?

Gennaio, andiamo. E’ tempo di scrutinare.

D’Annunzio mi scuserà per la citazione, forse impropria e certamente un po’ distorta, della sua celebre poesia I pastori. Mi è parsa adatta al momento dell’anno scolastico che, credo nella gran parte delle scuole italiane, è dedicato alla valutazione degli allievi alla fine del primo periodo didattico. Insomma, è tempo di scrutini.

Fra pochi giorni gli studenti avranno in mano (si fa per dire perché ormai di cartaceo non c’è quasi più nulla nella pubblica amministrazione… si chiama dematerializzazione) la loro pagella e dovranno fare i conti, forse, con risultati al di sotto delle aspettative e impegnarsi per il recupero delle insufficienze. I più fortunati potranno, invece, rallegrarsi nel vedere premiato il loro impegno nello studio.

C’è, tuttavia, un voto che, pur essendo nella maggior parte dei casi positivo, a volte scontenta i genitori: il voto di condotta.

Credo tutti sappiano che con il decreto ministeriale n° 5 del 16 gennaio 2009 il voto di condotta è stato allineato con gli altri voti, «concorrendo alla valutazione complessiva degli studenti» (in parole semplici: «fa media»). Forse, però, non è ancora chiaro a tutti che si tratta di una valutazione che dovrebbe, almeno nelle intenzioni del legislatore, essere trattata al pari degli altri voti, considerando gli stessi parametri che portano a valutare il livello raggiunto da ciascun allievo: negativo (obiettivi non raggiunti) o positivo (sufficiente, buono, ottimo, eccellente).

Dovrebbe, dicevo, e il condizionale non solo è d’obbligo ma deve essere sottolineato. Dovrebbe perché in realtà non è.
Vi spiego perché.

Ho dedicato a questo argomento che mi sta molto a cuore diversi post su questo blog e su “Scuola di vita”, blog del Corriere.it. All’inizio, rimanevo sconcertata dalle reazioni improprie di qualche genitore che chiedeva giustificazione dell’8 in condotta (sui 7 stendo un velo pietoso).

Nella mia riflessione parto da una semplice domanda: qualche genitore si è mai lamentato di un 8 in Latino o Matematica (faccio riferimento al liceo scientifico in cui insegno da più di 25 anni)? Mai. L’8 è indubbiamente un bel voto, di cui andare fieri. Naturalmente il 9 e il 10 sono valutazioni di cui essere ancora più orgogliosi, però l’8 non è da disprezzare.

Ma allora, per la condotta cosa cambia?

Ve lo dico io: sul voto di condotta aleggia ancora quella sorta di “onta” che derivava all’allievo/a – e alla sua famiglia – dall’8. Con il 7, addirittura, un tempo il malcapitato (si fa per dire perché un comportamento non adeguato non “capita” ma deriva da fatti inequivocabilmente intenzionali) doveva sostenere l’esame di “riparazione” a settembre in tutte le materie, indipendentemente dai risultati positivi ottenuti. In altre parole: hai studiato, sì, ma non ti sai comportare. La scuola, infatti, non è solo un luogo in cui si imparano tante cose, belle o meno belle, interessanti o noiose, utili o meno utili. La scuola è anche il luogo in cui si formano i cittadini di domani. La scuola è l’ambiente eletto per la formazione e l’educazione, oltreché per l’istruzione vera e propria.

Dal 2009, grazie allo zelo dell’ex ministro del MIUR Mariastella Gelmini, con un 5 in condotta si viene bocciati. Cinque è inequivocabilmente un voto negativo ma non troppo, almeno rispetto alla valutazione delle altre materie. Eppure, se leggiamo le motivazioni che possono portare alla bocciatura per il 5 in condotta, abbiamo l’impressione che il soggetto sia praticamente pronto per il riformatorio.

In 10 anni di 5 non ne ho mai visti, mentre i 6 sono stati forse due, comminati per gravissimi motivi, quale infrazioni ai regolamenti, comportamenti irrispettosi, assenze ingiustificate (leggi “marine”) e altre amenità che dovrebbero far pensare quasi all’impossibilità di recupero. Come dire che se valuto la preparazione in Latino con un 6, l’allievo/a in questione sia completamente a digiuno nella mia materia. E invece no, non dico che sappia tradurre perfettamente un testo di Cicerone, ma almeno è in grado di comprenderlo e commentarlo, seppur con qualche difficoltà e con l’aiuto da parte mia.

Ma allora, ripeto, per la condotta cosa cambia?

Dirò di più: da quel lontano 2009 ho notato la sempre maggior tendenza a elargire i 9 e i 10. Mentre un tempo (per esempio sei anni fa, quando ho scritto l’articolo per il Corriere.it) il voto standard era l’8, ora si è passati al 9. Non posso dire che gli 8 in Latino di un tempo siano diventati 9, forse in qualche caso sì, ma non in tutti i casi.

L’allievo/a è tranquillo/a ed educato/a, segue le lezioni, non fa quasi mai assenze (quindi gode di ottima salute… un parametro alquanto discutibile, a mio parere), non partecipa attivamente ma non disturba e, almeno apparentemente, si interessa a ciò che accade sotto i suoi occhi e a ciò che percepisce con le sue orecchie, qualche volta aiuta i compagni in difficoltà (con la massima discrezione…), porta tutti i materiali utili a seguire le lezioni e presta generosamente il suo manuale a chi l’ha lasciato a casa. Ed è subito 10.

A mio parere un 10 in condotta vale molto di più. Il 10 rappresenta l’eccellenza, se non sbaglio. Dovrebbe essere un premio per studenti modello che, al di là degli obblighi e delle convenzioni, si spendono maggiormente per appropriarsi dei contenuti attraverso l’approfondimento personale, per esporre il proprio punto di vista critico attraverso la partecipazione attiva alle lezioni, per sviluppare la capacità di creare autonomamente percorsi inter-pluridisciplinari e per valorizzare tutte le “banalità” che sono oggetto di studio quotidiano in classe.
Questi sono di norma i parametri di cui teniamo conto nella valutazione delle discipline scolastiche, è vero, ma cosa cambia se dobbiamo valutare la condotta?

Solo il mio parere, intendiamoci. E, nonostante non sia d’accordo con il progressivo innalzamento del voto di condotta, posso capire le motivazioni, specie quelle dei Dirigenti Scolastici. In fondo sono loro a doversi sorbire le proteste delle famiglie per un 8 che non viene considerato alla stessa stregua degli altri voti, sono loro a dover fare i conti con una società in cui la valutazione di una prestazione è messa in relazione con la persona, ciò che è e non ciò che realmente fa e come lo fa.

Mio/a figlio/a è educato, se non ha 10 vuol dire che non sono un buon genitore. Questa è l’errata premessa (che in fondo è anche conclusione perché su certe cose non si può discutere) che porta a non considerare la valutazione della condotta alla stessa stregua delle discipline scolastiche. Ciò per me rappresenta il fallimento di quel provvedimento (122/2009) di cui è autore Max Bruschi, lo stesso che, nel commentare il mio articolo su “Scuola di vita”, si è espresso nei miei confronti dicendo “Ha colto in pieno lo spirito della norma”.

Giusta o sbagliata che sia, è una norma e dovrebbe valere per tutti. Ciò non è. Nel constatare il passo indietro, mi torna alla mente la mia maestra che, forse troppo stanca per spiegare (aveva la sua età… anche se probabilmente, era più giovane di me ora…) o semplicemente svogliata, a volte ci sottoponeva al “gioco del silenzio”.

Noi bambine, costrette a rimanere immobili per non so quanto tempo, con la bocca tappata fino al far diventare bianche le labbra, le braccia ben serrate attorno allo schienale della sedia e il capo inclinato all’indietro il più possibile, tanto che con i capelli riuscivo a toccare la seduta (ah, beata gioventù con la cervicale in ottima salute!), dovevamo dimostrare di essere brave e di meritare il 10 in condotta.

Siamo tornati davvero così indietro?

[Immagine da questo sito.]

A MONFALCONE TROPPI STRANIERI IN CLASSE: BAMBINI DIROTTATI ALTROVE. MA IL TETTO DEL 30% ESISTE ANCORA


Ha fatto scalpore la notizia che il sindaco di Monfalcone (Gorizia), Anna Maria Cisint, abbia fissato un tetto del 45% alla presenza di bambini stranieri nelle scuole della prima infanzia cittadine. Gli alunni esclusi saranno “dirottati” su altri plessi tramite un servizio di scuolabus gratuito. La convenzione è stata sottoscritta da due istituti comprensivi della città – l’«Ezio Giacich» e il «G. Randaccio» – con il Comune, che fissa un tetto massimo per la presenza di bambini stranieri nelle classi della materna che verranno formate a settembre.

La decisione è stata presa a causa della presenza massiccia di stranieri a Monfalcone. Negli ultimi anni si è registrato un incremento dei figli di immigrati fino ad arrivare a un rapporto di 1 a 1. Quindi nelle scuole monfalconesi, specialmente d’infanzia e primarie, un alunno su due è figlio di immigrati. La situazione per quanto riguarda l’immigrazione a Monfalcone è molto particolare in quanto lo stabilimento Fincantieri dà lavoro a operai di cento etnie diverse, in prevalenza provenienti da Bangladesh e Romania. Gli stranieri costituiscono 1/5 della popolazione, la percentuale più alta in regione (dati relativi al 2016).
Per far fronte alle aumentate esigenze, l’Ufficio scolastico regionale ha già autorizzato l’apertura di due nuove sezioni della scuola dell’infanzia, con la nomina di quattro nuovi insegnanti. Ma non sono stati sufficienti: le domande per bambini non italiani sono vicine al 60% del totale.

La notizia ha ormai fatto il giro della penisola ed è riportata dai maggiori quotidiani nazionali. In 24 ore la questione è approdata in Parlamento con l’interrogazione urgente della senatrice dem Tatjana Rojc che chiede se non vi siano «palesi violazioni degli articoli 2 e 3 della Costituzione».

Non avrebbe fatto di certo tanto scalpore questa presa di posizione se in qualche modo non avesse messo uno contro l’altro dei rappresentanti della Lega, partito a cui appartengono sia il ministro del MIUR Bussetti sia la stessa prima cittadina di Monfalcone. Per completare il terzetto, lo stesso vice premier Matteo Salvini si è dichiarato favorevole all’iniziativa della Cisint, mentre il ministro Bussetti no, appoggiato dal ministro per la Famiglia Fontana, anch’egli leghista.

Da parte sua Bussetti ha rassicurato i genitori dei bambini “esclusi”: «Mi sono informato con gli uffici provinciali i quali hanno dato la possibilità di attivare 2 classi in più e comunque siamo sulla soglia in percentuale richiesta dalla norma». La prima cittadina Cisint ha invece chiesto all’amministrazione di Fincantieri che la società si faccia carico anche di garantire un servizio di scuola dell’infanzia alle famiglie dei lavoratori stranieri.

In difesa di Cisint e della convenzione stipulata coi dirigenti scolastici è intervenuto il presidente leghista del Fvg Massimiliano Fedriga osservando: «Quando ci sono classi con il 90% di bambini stranieri non si fa integrazione». A Monfalcone, ha ricordato, «il 22% della popolazione è straniera». «Cisint – continua Fedriga – si è interfacciata anche con l’Ufficio scolastico per cercare di trovare le migliori soluzioni, penso però che l’alternativa non sia fare classi in cui c’è il 90% o il 100% di bambini stranieri».

Questa in sintesi la notizia sui cui sviluppi cercherò di tenere aggiornati i lettori. Ora la mia personale riflessione.

Nel 2009 l’allora ministro del MIUR Marialstella Gelmini aveva fissato il tetto del 30% per l’inserimento in classe di allievi stranieri. Chiaramente con le dovute deroghe (infatti, come nel caso attuale di Monfalcone, ci sono zone in Italia con un’affluenza di bambini stranieri molto elevata), anche se si sono registrati dei casi assurdi (di uno in particolare parlai QUI) in cui non furono concesse deroghe nemmeno nel caso in cui i bambini “stranieri” fossero nati in Italia, o arrivati qui da piccolissimi, che avessero frequentato la scuola materna nel nostro Paese e che in casa parlassero solo l’Italiano.

E’ più che evidente che, trattandosi di scuola primaria o secondaria, il discorso è diverso. Nel “caso Monfalcone” i bambini “dirottati” altrove sono piccolissimi, poiché si parla di iscrizioni alla scuola dell’infanzia. Spesso nelle famiglie di immigrati si mantiene l’uso della lingua materna nella comunicazione quotidiana e per i figli l’ambiente scolastico rimane l’unico luogo in cui potersi relazionare con adulti e coetanei imparando la lingua italiana la quale, essendo l’idioma parlato nel Paese ospitante la famiglia, si presume diventerà la loro lingua. Proprio per questo è importante, come osserva il Presidente della regione Friuli – Venezia Giulia Fedriga, che le classi non siano formate esclusivamente da stranieri.

Se la norma prevede il tetto del 30% e il sindaco Cisint ha fissato una percentuale più alta e prossima alla metà dei componenti totali della classe, a me personalmente sembra una cosa saggia perché, invece di creare “classi ghetto”, può favorire meglio l’integrazione dei bambini in questione, anche a costo del piccolo disagio del trasporto in paesi limitrofi. Trattandosi di Monfalcone (cittadina con poco più di 28mila abitanti) posso assicurare che il disagio sarebbe davvero trascurabile, poco più di 15 minuti di percorso con lo scuolabus.

[fonti: Il Corriere e Il Piccolo immagine da questo sito]

AGGIORNAMENTO DEL POST 18/07/2018

Come promesso, aggiorno i lettori sulla vicenda dei bambini esclusi da alcune delle scuole dell’infanzia di Monfalcone.

Il sindaco Anna Maria Cisint non fa alcun passo indietro, anche se ha promesso che per il prossimo anno il tetto scenderà al 40%. Con queste parole difende la sua posizione:

«già la Regione Veneto prima e il Comune di Venezia poi hanno adottato un protocollo simile al nostro, incassando perfino il plauso del Prefetto. Quindi l’unica vera differenza è che lì, con un tetto del 30% di stranieri in classe, i firmatari sono stati applauditi come promotori dell’integrazione, mentre qui, col 45%, siamo stati tacciati di razzismo». Aggiunge, poi, un parere da madre: ««Da mamma – spiega – non trovo giusto che i bambini monfalconesi fuggano in altri comuni. Nel 2016 erano 90, ora sono la metà».

Sono 79, per la maggior parte stranieri, i bambini rimasti fuori dalle scuole dell’infanzia monfalconesi ma nei paesi limitrofi, assicura Cisint, i posti ci sono:«Ho appreso di molti posti liberi negli asili dei Comuni vicini: 30 a San Canzian, 20 a Staranzano, 18 a Ronchi, 15 a Fogliano. Come mai nessuno si offre di accogliere i 79 bimbi rimasti fuori?».

Sulla vicenda sono intervenuti anche i sindacati, CGIL in testa, decisi a dar battaglia alla prima cittadina della città isontina. Il segretario regionale Flc-Cgil Adriano Zonta spiega così la presa di posizione del suo sindacato:

«Si ravvisano irregolarità che a nostro avviso possono sfociare sul penale, ma sarà la magistratura a decidere. Noi invieremo l’esposto anche al Garante dei Minori e al Miur. […] i bimbi non possono essere messi in mezzo, né ci può essere discriminazione».

Allo stesso tempo Zonta non esclude che si possa trovare un accordo: « È vero, come dice Cisint, che tutti i soggetti vanno interessati, compresa l’azienda, ma non con la filosofia del “Si arrangi Fincantieri”». Da 3 anni si avevano i dati demografici, come mai non si è pensato a risolvere prima il problema dell’esubero? Siamo disponibili a discutere, ma l’accordo va ritirato: urge un tavolo sul dimensionamento scolastico».

In attesa di incontrare il direttore dell’Ufficio scolastico regionale del Friuli- Venezia Giulia Igor Giacomini e il senatore Mario Pittoni della Lega, la Cisint non esclude la formazione di classi – ponte ovvero «spazi in cui i bimbi stranieri possano apprendere esaustivamente la lingua italiana così quando saranno pronti potranno essere inseriti in aula con gli altri».

Quindi, come volevasi dimostrare, si torna a parlare di classi – ponte.

[fonte: Il Piccolo]

LA BOCCIATURA NON È UNA PUNIZIONE, È MOLTO DI PIÙ. PAROLA DI MAMMA


Mi ha colpito molto la lettera che una mamma ha scritto per ringraziare gli insegnanti del figlio 17enne, al penultimo anno del liceo, per la bocciatura inflitta al giovane che, secondo questa madre onesta e obiettiva, non ha studiato, non si è impegnato e nonostante i tentativi dei docenti, non ha voluto produrre neanche la minima sufficienza.

Nella lettera (non ho trovato la fonte ma è stata pubblicata sul sito oggiscuola.com) la signora non solo si schiera apertamente dalla parte dei docenti tanto da dire di voler stringere la mano a chi l’ha bocciato, ma si scaglia anche contro le altre madri, soprattutto quelle che su Whatsapp scrivono che quell’insegnate è cattiva, l’altra dispettosa, un altro crudele, senza considerare quanta fatica facciano ogni giorno i docenti che hanno a che fare con una banda di scalmanati come sono i nostri figli. È talmente onesta questa signora da ammettere di aver difficoltà a gestire un solo ragazzo e quindi non si sente di condannare nessuno per la bocciatura di Antonio, ritenendolo unico responsabile.

La parte della lettera che mi ha colpita maggiormente è quella in cui la mamma di Antonio scrive:

Io non sono un avvocato, un ingegnere come tante delle mamme degli amici di Antonio, sono un’umile casalinga e non mi interessa cosa faccia la professoressa di italiano in casa sua, m’importa che badi a mio figlio e si occupi della sua istruzione. Antonio è giovane, è brillante, gli bastano 10 minuti per imparare un’intera pagina e nonostante ciò per un intero anno ho dovuto lottare affinché si mettesse con la testa sui libri e ho trovato delle amiche nel mio percorso: le insegnanti di mio figlio che mi hanno aiutata a comprendere la verità e cioè che la scuola è un’esperienza bellissima ma costa fatica.

Tutto ciò che questa donna scrive è ampiamente condivisibile da chi svolge questa professione bellissima ma faticosa, esattamente come la scuola deve essere per gli studenti. Le parole della mamma di Antonio, che definisce la bocciatura non una punizione ma un’esperienza che serve a capire che nella vita tutto si paga a caro prezzo e che la fatica è fondamentale per conseguire i risultati, sono la testimonianza più bella di quella collaborazione scuola-famiglia che non deve essere intesa come asettico enunciato che compare sul modulo da firmare (il cosiddetto patto di corresponsabilità) ma come strategia comune e condivisa perché la scuola sia davvero bellissima per gli alunni, seppur faticosa.

Più volte mi sono occupata di questi argomenti, della bocciatura e del fatto che la scuola debba essere anche palestra di vita. Fa piacere che chi sta dall’altra parte, sebbene parte lesa, sia d’accordo con me.

Per concludere, non posso che fare un amaro confronto con quest’altra madre, incapace di guardare in faccia la realtà e di aiutare il figlio. Sono passati tanti anni, non conosco il “seguito della vicenda” ma spero che Mario abbia trovato la giusta strada da percorrere nella vita.

LETTERA DI UNA PROFESSORESSA A UNA CATTIVA MADRE

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Dopo la lettera del papà di Mattia che si vantava di non aver fatto svolgere i compiti delle vacanze al figlioletto, eccone un’altra, questa volta scritta da una madre: la dott.ssa Francesca Romana Tiberi, psicologa, laureata in Scienze della Formazione.

Ne riporto il testo pubblicato sulla rivista on line Orizzonte Scuola:

Sono una cattiva madre perché non costringo mia figlia a estenuanti pomeriggi di compiti.

Sono una cattiva madre perché non presto abbastanza attenzione alle note di demerito che le insegnanti danno a mia figlia per non aver finito i compiti.

Sono una cattiva madre perché quando è malata non le faccio recuperare tutti i compiti persi.

Sono una cattiva madre perché la domenica non si studia… potrei continuare ore, sono una cattiva madre lo so, ma so anche di essere la migliore mamma che mia figlia possa avere perché a me interessa che lei sia felice e che ami imparare!

Non permetterò a nessun insegnante di far odiare lo studio e la conoscenza a mia figlia, a costo di esser giudicata irresponsabile!

Ed ecco la mia replica.

Cara signora Francesca Romana,

che Lei sia una cattiva madre lo ha ammesso, quindi non sarò io a doverglielo dire. Tuttavia, da insegnante, non posso esimermi dal fare qualche osservazione sulle Sue parole che ritengo molto gravi, considerando anche il fatto che Lei, a quanto pare, di professione fa la psicologa.

Lei, quando aveva l’età di Sua figlia, non ha mai passato estenuanti pomeriggi di compiti? Non so quanti anni abbia ma credo che, con il passare del tempo, i compiti assegnati a scuola siano sempre di meno. O forse Lei aveva una madre altrettanto cattiva? Non so, può essere. Ad ogni modo, mi sembra che Lei sia sopravvissuta a un così grave flagello.

Non Le pare logico, inoltre, che quando un bambino si assenta perché malato, i compiti servano a recuperare le lezioni perse? O al limite, se proprio l’argomento trattato in classe non è chiaro, non Le pare logico rivolgersi all’insegnante e pregarlo/la di perdere un po’ di tempo a rispiegare la lezione, in modo che Sua figlia, e i suoi compagni, ne possano trarre beneficio?

Lei davvero crede che la felicità di un bambino si misuri in base al tempo che, durante la domenica, può sottrarre all’esecuzione delle attività assegnate? Ma se anche così fosse, non ci sarebbe nulla di male, a patto che se ne parli con gli insegnanti, quelle persone così cattive e insensibili che hanno come unico scopo quello di rendere infelici le povere creature (oppure i genitori che si sentono in dovere di seguire passo passo i figli nell’esecuzione dei compiti, sostituendosi a loro, se è il caso).

C’è una circolare ministeriale del 1969 (precisamente la n. 177 del 14 maggio di quell’anno) che così recita:
“Questo Ministero è venuto nella determinazione di disporre che agli alunni delle scuole elementari e secondarie di ogni grado e tipo non vengano assegnati compiti scolastici da svolgere o preparare a casa per il giorno successivo a quello festivo, di guisa che nel predetto giorno non abbiano luogo, in linea di massima, interrogazioni degli alunni, almeno che non si tratti, ovviamente, di materia, il cui orario cada soltanto in detto giorno”.

Anche se con l’autonomia scolastica le vecchie circolari (mai abrogate, tra l’altro) non hanno più un ruolo prescrittivo, la cosa più logica sarebbe quella di mettersi a tavolino e discutere con il consiglio di classe (o interclasse alle elementari), serenamente, senza far valere diritti inesistenti (trascorrere in pace la domenica … io, insegnante, lavoro sempre) ma semplicemente arrivare ad un accordo tra le parti. Ad esempio, se i “compiti della domenica” sono assegnati il mercoledì, nessuno impone di eseguirli per il lunedì successivo proprio la domenica.

Lei, che è anche psicologa, davvero crede che impedendo a Sua figlia di fare i compiti – con le conseguenti note di demerito che da cattiva madre ignora, senza pensare che l’effetto su Sua figlia non è esattamente edificante – la renda una bambina felice e vogliosa di imparare? Imparare cosa? A fare la furba? A sottrarsi ai doveri che, una volta cresciuta, non potrà evitare? E come affronterà la vita di domani che impone obblighi cui non possiamo sottrarci? Allora per Sua figlia non ci saranno note di demerito ma qualche calcio nel fondoschiena. Ha presente il mondo del lavoro? Magari no, magari è una libera professionista e fa quel che vuole. Magari non lo è e ha trovato il modo di vivere felice senza dover fare ciò che le sembra scomodo, insignificante e anche alquanto dannoso.

Lei è davvero convinta che siano i docenti a far odiare la scuola, con tutti quegli obblighi che minano il diritto alla felicità di bambini e bambine, torturati da orchi e streghe che nemmeno nelle fiabe?

Lei crede di essere ritenuta un’irresponsabile. A mio modesto avviso, Lei non lo è, non solo quello, almeno. Nemmeno la ritengo una cattiva madre. Credo solo che sia Lei, non gli orchi e le streghe, a vivere in una fiaba.

Quando ne uscirà, si renderà conto che interferire in modo irrazionale nelle questioni didattiche può solo essere deleterio per Sua figlia. Forse allora se ne pentirà. Ma di certo non avrà insegnato alla bambina a vivere assumendosi delle responsabilità. Non è aggirando gli ostacoli che si cresce ma superandoli.

Ah già, Lei è una psicologa. Non ha bisogno di lezioni.

(La lettera è stata pubblicata anche su Orizzonte Scuola)

[immagine da questo sito]

LA GENERAZIONE DEI NEET: TUTTA COLPA DELLA SCUOLA?

PREMESSA
Avevo inviato questo post oltre un mese fa alla redazione del Blog “Scuola di Vita” del Corriere.it con cui da più di due anni collaboro. Non avendo ricevuto risposta, ho deciso di pubblicarlo qui. In passato avevo trattato questo argomento in due post, uno sul blog principale e uno su queste pagine. Questo articolo è un sunto dei due precedenti con i doverosi aggiornamenti.
Buona lettura!

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In Italia si chiamano “né né”, proprio perché non hanno un impiego né seguono alcun percorso di studio. Oggi si predilige la denominazione «Neet» (acronimo inglese di «Not [engaged] in Education, Employment or Training»), importando come spesso capita un’etichetta anglosassone. Se nel 2009 i giovani “né né” nel nostro Paese erano 270 mila, esclusivamente nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 19 anni, nel 2013, sempre secondo l’ISTAT, la percentuale degli under 35 in questa condizione sfiorava i 4 milioni.

A distanza di tre anni, come ci informa Dario Di Vico sul Corriere, è apparentemente migliorata, ma la fascia d’età è ristretta agli under 29: ora i giovani Neet sono 2 milioni e 300mila, ma i dati sono riferiti alla fascia di età tra i 15 e i 29 anni. Secondo l’indagine “Ghost”, 1 milione di Neet è disoccupato, ovvero in attesa di un’occupazione a breve termine, mentre gli «inattivi totali» raggiungono quota 600 mila.

Ma cosa fa questo esercito di “inoccupati”? Alcuni svolgono attività di volontariato, altri si dedicano allo sport, altri ancora sono impegnati in lavoretti come ripetizioni, baby sitting o comunque lavori a intermittenza con i quali i giovani non riescono a raggiungere una professionalità da spendere in futuro.

Insomma, pare che non tutti facciano parte della generazione degli “sdraiati”, come li definisce Michele Serra nell’omonimo libro. Anzi, i più frustrati sono i laureati (1 su 10) che davvero non avrebbero voglia di stare con le mani in mano, dato che si sono impegnati e hanno speso del tempo frequentando l’università. In questa classifica sconfortante, se vogliamo dir così, seguono i diplomati (5 su 10) che, tuttavia, non ritengono utile continuare gli studi, e quelli che non sono nemmeno arrivati al diploma di scuola media superiore (4 su 10).

Poiché questo è un blog che tratta di scuola ed è rivolto anche alle famiglie, vorrei soffermarmi a riflettere proprio su questo 40% di giovani che sono in possesso del solo diploma di terza media.

Sarebbe semplice dire che questi giovani sono degli indolenti, che non sanno attribuire il giusto valore all’istruzione o, più in generale, alla cultura. Facile puntare il dito sulle famiglie che non sono in grado di trasmettere loro questo tipo di valore e che accettano, la maggior parte delle volte loro malgrado, una situazione degna di essere chiamata parassitismo. Sarebbe scontato e banale affermare che se non hanno voglia di studiare, non li si può costringere; quante volte di fronte ai figli che non s’impegnano a scuola, i genitori tuonano con la solita frase trita e ritrita “allora vai a lavorare”. Magari trovassero lavoro, questi “inetti”!

Quando si parla di insuccesso negli studi dobbiamo tenere presente l’influenza di vari fattori: l’ambiente scolastico che il ragazzo non trova confacente, la famiglia che non ha gli strumenti per aiutarlo, le amicizie che rappresentano sempre più l’unico modello da seguire, soprattutto perché più comodo, essendo libero da obblighi che condizionano il comportamento. Mi spiego meglio: frequentando gli amici, un giovane innanzitutto non è giudicato, non ha regole da rispettare se non quelle condivise all’interno del gruppo, quasi mai impegnative a livello culturale e formativo, poi è libero di esprimere il suo disagio senza incorrere in rimproveri che addossino la responsabilità a lui solo, infine non ha bisogno di comportarsi in modo non spontaneo con il timore di essere censurato.
Il ruolo della famiglia è fondamentale, è vero, ma non è l’unica forza in ambito educativo. Spesso il “gruppo” funge da punto di riferimento e, guarda caso, non sono mai i modelli positivi ad essere trainanti.

Al di là degli stimoli che possono arrivare dalla famiglia, e talvolta anche dalla scuola, non si può escludere che il ragazzo che si trova in difficoltà alla fine segua istintivamente quelli come lui, arrendendosi alla conclusione semplicistica, ma assai condivisa tra “simili”, «la scuola non fa per me».

Per superare l’impasse è indispensabile la collaborazione scuola-famiglia, ma come sappiamo il rapporto tra le due parti è spesso tutt’altro che idilliaco. Da una parte la famiglia addossa alla scuola la responsabilità dell’insuccesso negli studi del proprio figlio, dall’altra gli insegnanti sostengono che la famiglia non si occupi del figlio e che se il ragazzo è un testone, non si applica, non segue i consigli, non c’è nulla da fare: somaro è, somaro rimarrà.

Naturalmente non si può evitare di fare i conti con l’autostima del ragazzo.
Al di là di un atteggiamento strafottente (così efficacemente descritto da Michele Serra nel libro citato), tipico di chi sfida gli adulti facendo credere che «lui sa quello che fa e non ha bisogno che qualcun altro glielo dica», spesso dietro questa ostentata sicurezza si cela una scarsissima autostima. Ovvero, facendo credere che l’insuccesso scolastico nemmeno lo sfiori, lo studente nasconde la mancanza di fiducia che ha dentro di sé.
Compito della scuola sarebbe comprendere questo tipo di situazione e trovare, assieme alla famiglia, un modo per guidare il ragazzo in un percorso di crescita che lo porti a superare la sfiducia in sé. Certo, per un adolescente è più facile gettare la spugna, rinunciare a modificare una situazione è più comodo; tuttavia, se gli adulti lo aiutassero a comprendere la causa del suo insuccesso e lo guidassero ad un miglioramento personale, quindi non solo relativo allo studio ma soprattutto relativo al suo rapporto con se stesso, ci potrebbe essere una speranza.

Non dimentichiamo, però, che molti ragazzi così fragili rifiutano di farsi consigliare dagli adulti, siano essi genitori o insegnanti.

La convinzione che il mondo del lavoro possa essere affrontato con minore impegno –solo perché non ci sono interrogazioni e compiti in classe-, per giunta con un tornaconto economico, è la molla che porta, poi, a lasciare la scuola per cercare un impiego. Ma anche quando trovano un posto, ben presto questi ragazzi comprendono che in qualsiasi mestiere sono richieste delle competenze che, se non ci sono, bisogna apprendere. L’impegno e la volontà sono imprescindibili così come il rispetto delle regole, pur diverse da quelle imposte dall’istituzione scolastica, è assolutamente dovuto. In breve, di fronte a questi ulteriori ostacoli, i ragazzi che appartengono alla “generazione dei né né” pensano di poter mollare il lavoro come hanno fatto con la scuola e di cercare altro. Peccato, però, che non ci sia questa grande offerta ed ecco che ragazzi come questi hanno un’unica possibilità: ingrossare le fila della già ben nutrita schiera dei loro simili.

Secondo Eurydice, in Italia dal 2009 al 2014 la percentuale dei cosiddetti early leavers è scesa dal 19% al 15%. Forse si potrebbero accorciare le distanze tra il nostro e gli altri Paesi europei se ci fosse una maggiore collaborazione tra scuola e famiglia, una sinergia in grado di rimuovere gli ostacoli e ridare fiducia ai giovanissimi, evitando un precoce abbandono scolastico.

[immagine da questo sito]