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LETTERA DI UNA PROFESSORESSA A UNA CATTIVA MADRE

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Dopo la lettera del papà di Mattia che si vantava di non aver fatto svolgere i compiti delle vacanze al figlioletto, eccone un’altra, questa volta scritta da una madre: la dott.ssa Francesca Romana Tiberi, psicologa, laureata in Scienze della Formazione.

Ne riporto il testo pubblicato sulla rivista on line Orizzonte Scuola:

Sono una cattiva madre perché non costringo mia figlia a estenuanti pomeriggi di compiti.

Sono una cattiva madre perché non presto abbastanza attenzione alle note di demerito che le insegnanti danno a mia figlia per non aver finito i compiti.

Sono una cattiva madre perché quando è malata non le faccio recuperare tutti i compiti persi.

Sono una cattiva madre perché la domenica non si studia… potrei continuare ore, sono una cattiva madre lo so, ma so anche di essere la migliore mamma che mia figlia possa avere perché a me interessa che lei sia felice e che ami imparare!

Non permetterò a nessun insegnante di far odiare lo studio e la conoscenza a mia figlia, a costo di esser giudicata irresponsabile!

Ed ecco la mia replica.

Cara signora Francesca Romana,

che Lei sia una cattiva madre lo ha ammesso, quindi non sarò io a doverglielo dire. Tuttavia, da insegnante, non posso esimermi dal fare qualche osservazione sulle Sue parole che ritengo molto gravi, considerando anche il fatto che Lei, a quanto pare, di professione fa la psicologa.

Lei, quando aveva l’età di Sua figlia, non ha mai passato estenuanti pomeriggi di compiti? Non so quanti anni abbia ma credo che, con il passare del tempo, i compiti assegnati a scuola siano sempre di meno. O forse Lei aveva una madre altrettanto cattiva? Non so, può essere. Ad ogni modo, mi sembra che Lei sia sopravvissuta a un così grave flagello.

Non Le pare logico, inoltre, che quando un bambino si assenta perché malato, i compiti servano a recuperare le lezioni perse? O al limite, se proprio l’argomento trattato in classe non è chiaro, non Le pare logico rivolgersi all’insegnante e pregarlo/la di perdere un po’ di tempo a rispiegare la lezione, in modo che Sua figlia, e i suoi compagni, ne possano trarre beneficio?

Lei davvero crede che la felicità di un bambino si misuri in base al tempo che, durante la domenica, può sottrarre all’esecuzione delle attività assegnate? Ma se anche così fosse, non ci sarebbe nulla di male, a patto che se ne parli con gli insegnanti, quelle persone così cattive e insensibili che hanno come unico scopo quello di rendere infelici le povere creature (oppure i genitori che si sentono in dovere di seguire passo passo i figli nell’esecuzione dei compiti, sostituendosi a loro, se è il caso).

C’è una circolare ministeriale del 1969 (precisamente la n. 177 del 14 maggio di quell’anno) che così recita:
“Questo Ministero è venuto nella determinazione di disporre che agli alunni delle scuole elementari e secondarie di ogni grado e tipo non vengano assegnati compiti scolastici da svolgere o preparare a casa per il giorno successivo a quello festivo, di guisa che nel predetto giorno non abbiano luogo, in linea di massima, interrogazioni degli alunni, almeno che non si tratti, ovviamente, di materia, il cui orario cada soltanto in detto giorno”.

Anche se con l’autonomia scolastica le vecchie circolari (mai abrogate, tra l’altro) non hanno più un ruolo prescrittivo, la cosa più logica sarebbe quella di mettersi a tavolino e discutere con il consiglio di classe (o interclasse alle elementari), serenamente, senza far valere diritti inesistenti (trascorrere in pace la domenica … io, insegnante, lavoro sempre) ma semplicemente arrivare ad un accordo tra le parti. Ad esempio, se i “compiti della domenica” sono assegnati il mercoledì, nessuno impone di eseguirli per il lunedì successivo proprio la domenica.

Lei, che è anche psicologa, davvero crede che impedendo a Sua figlia di fare i compiti – con le conseguenti note di demerito che da cattiva madre ignora, senza pensare che l’effetto su Sua figlia non è esattamente edificante – la renda una bambina felice e vogliosa di imparare? Imparare cosa? A fare la furba? A sottrarsi ai doveri che, una volta cresciuta, non potrà evitare? E come affronterà la vita di domani che impone obblighi cui non possiamo sottrarci? Allora per Sua figlia non ci saranno note di demerito ma qualche calcio nel fondoschiena. Ha presente il mondo del lavoro? Magari no, magari è una libera professionista e fa quel che vuole. Magari non lo è e ha trovato il modo di vivere felice senza dover fare ciò che le sembra scomodo, insignificante e anche alquanto dannoso.

Lei è davvero convinta che siano i docenti a far odiare la scuola, con tutti quegli obblighi che minano il diritto alla felicità di bambini e bambine, torturati da orchi e streghe che nemmeno nelle fiabe?

Lei crede di essere ritenuta un’irresponsabile. A mio modesto avviso, Lei non lo è, non solo quello, almeno. Nemmeno la ritengo una cattiva madre. Credo solo che sia Lei, non gli orchi e le streghe, a vivere in una fiaba.

Quando ne uscirà, si renderà conto che interferire in modo irrazionale nelle questioni didattiche può solo essere deleterio per Sua figlia. Forse allora se ne pentirà. Ma di certo non avrà insegnato alla bambina a vivere assumendosi delle responsabilità. Non è aggirando gli ostacoli che si cresce ma superandoli.

Ah già, Lei è una psicologa. Non ha bisogno di lezioni.

(La lettera è stata pubblicata anche su Orizzonte Scuola)

[immagine da questo sito]

TUO FIGLIO E’ STATO BOCCIATO? NIENTE DRAMMI

scrutiniAttuale, ahimè, il tema che ho scelto per l’ultimo post pubblicato sul blog del Corriere.it “Scuola di Vita”. Cosa fare – e non fare – quando un figlio viene bocciato? Prima regola: niente drammi.
Come sempre riporto in parte l’articolo e vi invito a leggerlo interamente sul sito del Corriere.it.

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Nel percorso scolastico di molti ragazzi si è costretti a superare lo scoglio di una bocciatura. Senso di impotenza, fallimento, ingiustizia, frustrazione, vergogna sono alcuni dei sentimenti che spesso nascono da una situazione che di per sé non è tragica e deve, invece, portare ragazzi e famiglie ad una riflessione: che cosa non ha funzionato?

La risposta più gettonata è: si è trattato di un’ingiustizia. L’atteggiamento vittimistico, che molte volte caratterizza maggiormente i genitori che non gli studenti stessi, è certamente il più conveniente. Addossare agli altri delle responsabilità significa, in fondo, assolversi da qualsiasi colpa. Ma è davvero il modo migliore per affrontare un piccolo incidente di percorso?

Una volta, per segnalare la necessità di ripetere l’anno si usava il verbo “bocciare”. Si tratta di un verbo preso in prestito dal gioco delle bocce nel quale ogni giocatore si prefigge di raggiungere un solo scopo, per accaparrarsi il punto: urtare una boccia con la propria allontanandola dal boccino. Ecco che la parola diventa sinonimo di “respingere”, tant’è che il “bocciato” veniva generalmente definito “respinto”, allontanato dall’obiettivo principale di ogni studente: quello di superare l’anno scolastico.

Oggi, nel linguaggio scolastico comune, si utilizza la formula “non ammesso alla classe successiva”. Una perifrasi elegante – lo sarà, poi? – per evitare un termine tanto orribile come “bocciato”. Ma in fondo non cambia la sostanza: se nel percorso di studi ci si allontana dal’obiettivo, inevitabilmente non si può proseguire la “partita”.

Considerando che le bocciature nella scuola primaria e secondaria di primo grado sono davvero rare e devono essere concordate con le famiglie, focalizziamo la nostra attenzione sulla scuola superiore. Da qualche anno anche il biennio degli istituti secondari di secondo grado rientra nella scuola dell’obbligo. A questo punto qualcuno si chiederà: se negli otto anni precedenti le bocciature sono rare, trattandosi di scuola dell’obbligo, perché nei primi due anni delle superiori i docenti tendono a bocciare con estrema facilità? Il punto è che le parole hanno un peso e solo una corretta connotazione ne completa il significato: scuola dell’obbligo, infatti, non significa “obbligo” da parte degli insegnanti di promuovere tutti. A maggior ragione se si tratta di ragazzi non più fanciulli, che dovrebbero essere in grado di scegliere una scuola che risponda alle proprie inclinazioni e che sia alla loro portata, considerati gli esiti del percorso scolastico precedente.

Le scuole superiori non sono tutte uguali. E’ vero che l’obbligatorietà del biennio stona con la variegata offerta formativa delle scuole di diverso tipo: si parte dal basso, dagli istituti professionali, passando per i tecnici e arrivando in alto, ai licei. Un biennio obbligatorio, a mio parere, dovrebbe essere unico. Con la possibilità di scegliere come materie elettive alcune discipline che meglio si conciliano con il percorso successivo. Ma questo è un altro discorso.

L’abbandono scolastico, specialmente in seguito ad una o più bocciature, è un “male” tutto italiano e interessa perlopiù proprio i primi anni della scuola superiore. Se nella maggior parte dei casi la colpa del fallimento viene attribuita all’istituzione scolastica, è anche vero che spesso, terminata la scuola media, gli alunni non sono in grado di fare la scelta giusta oppure sono talmente condizionati dalle famiglie che nutrono particolari ambizioni sui figli, senza tener conto delle reali competenze acquisite, da orientarsi verso i licei – le statistiche rilevano che uno studente su due sceglie proprio questo tipo di scuola superiore -, senza tenere nel debito conto l’impegno che un corso di studi liceale comporta e i prerequisiti che richiede per garantire il successo formativo.

Secondo la mia esperienza di docente al liceo, posso assicurare che la maggior parte delle volte la “bocciatura” è determinata da un mix micidiale: scelta errata – molte volte forzata- della scuola, elevate aspettative delle famiglie e ansia da prestazione provata dagli studenti che si sentono oppressi tra docenti che chiedono molto impegno e genitori che si aspettano troppo.

Di fronte alla “non ammissione alla classe successiva” bisognerebbe fare una riflessione seria, senza addossare ad altri la colpa del fallimento – i docenti perfidi o i genitori troppo autoritari che impongono le scelte – anzi, cercando di capire ciò che non ha funzionato e chiedersi se ci sia un’altra strada percorribile. A volte, una scuola meno impegnativa del liceo, per fare un esempio vicino alla mia esperienza, risulta molto più gratificante ed apre la strada al successo scolastico che si credeva irraggiungibile.

E a mamma e papà cosa conviene fare? Per prima cosa, niente drammi. Parlare serenamente con il proprio figlio (o figlia, anche se è vero che le ragazze sono più in gamba dei maschietti!) sul suo futuro, cercare, se è il caso, una strada alternativa oppure ragionare sugli errori commessi in modo da non incorrervi in futuro. Evitare, nel modo più assoluto, di cercare lo scontro con i docenti ritenuti responsabili della bocciatura.

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[immagine dal sito linkato; logo blog “Scuola di Vita” © Corriere.it]

L’amicizia su Facebook non si chiede: si negozia. Il racconto del rapporto tra genitori e figli in un ambiente connesso

Articolo molto interessante e utile.

la mutazione nella connessione

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La relazione tra genitori e figli è sempre complessa. Tanto più in un contesto comunicativo che vede la diffusione nella realtà quotidiana di strumenti di connessione permanente e lo sviluppo di una narrazione nei media informativi su giovani e Internet spesso suggestiva e fuorviante. Il fatto ad esempio di pensarli come “nativi digitali” porta a raccontarli come una generazione che ha come dato naturale una competenze per il digitale che noi non abbiamo, come una specie frutto di un adattamento darwiniano all’ambiente online. Il che si traduce spesso in una deresponsabilizzazione del mondo degli adulti che interviene solo quando si trova di fronte ad evidenti storture: cyberbullismo, sexting, hate speech, ecc.

Tutti concetti, tra l’altro, che trattiamo in modo a-problematico e non come fattori culturali di una relazione consistente tra online e offline che incide su un’unica vita, quella dei nostri figli (dovremmo provare a rileggere il sexting

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LE SETTE REGOLE PER UN BUON COLLOQUIO CON I PROF

colloqui con i prof

Un nuovo mio articolo (il quinto) pubblicato sul Blog “Scuola di Vita” del Corriere.it.
Si parla dei colloqui con gli insegnanti e delle buone regole per far sì che la collaborazione scuola famiglia sia davvero tale e non si riduca a uno scontro fra nemici. Una riflessione che nasce da una bozza che avevo preparato qualche tempo fa, mi pare un paio d’anni, per partecipare ad una trasmissione di TV 2000 cui ero stata invitata. Alla fine, la troppa distanza da Roma ha scoraggiato un po’ me e un po’ la redazione e quindi la partecipazione non c’è stata.
Come sempre posto qui di seguito l’inizio dell’articolo invitandovi a continuare a leggerlo su “Scuola di Vita”. Buona lettura.

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Una premessa è d’obbligo per evitare fraintendimenti: i colloqui con gli insegnanti, in ogni ordine e grado di scuola, rientrano in quelle «attività funzionali all’insegnamento» disciplinate dall’art. 29 del CCNL scuola 2006-2009. Il monte ore complessivo dovrebbe rientrare nelle 40 ore annue che includono, tuttavia, anche molte altre attività di vario genere.

Ciò va detto perché, in piena autonomia, ogni scuola stabilisce le modalità con cui si debbano svolgere i colloqui con le famiglie.

Non è scontato che il ricevimento sia settimanale (generalmente di un’ora) così come non è un obbligo per le scuole programmare i famosi ricevimenti generali pomeridiani che hanno una durata variabile tra le due e le quattro ore e generalmente sono due, uno per periodo (non ha senso, ormai, parlare di quadrimestre perché ogni istituto si organizza come meglio crede, prevedendo ad esempio un trimestre e un pentamestre).

Detto questo, si auspica comunque la più ampia collaborazione dei docenti perché le comunicazioni con le famiglie sono importantissime. Dipende, poi, dalla sensibilità di ognuno rendersi disponibile ad incontri extra, a seconda dell’urgenza del colloquio.

Perché la collaborazione scuola-famiglia porti ai risultati auspicati, io credo che ci siano delle regole da rispettare, da entrambe le parti logicamente. Per quanto riguarda i docenti, come già detto, al di là di ogni norma contrattuale, è un dovere implicito dimostrare collaborazione e disponibilità, specie in quelle situazioni «critiche» che vanno affrontate concertando le strategie e i rimedi da mettere in atto per superare eventuali criticità e fragilità.
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[immagine dal sito linkato; logo blog “Scuola di Vita” © Corriere.it]

NEW YORK: I CELLULARI A SCUOLA NON POSSONO NEMMENO ENTRARE


Nelle scuole italiane, si sa, l’uso dei cellulari durante le ore di lezione è vietato agli studenti e ai professori. In teoria sarebbe vietato anche durante l’intervallo e comunque entro il perimetro della scuola ma normalmente è tollerato, purché il telefonino non resti acceso in classe. Inoltre, l’utilizzo durante le verifiche è sanzionato con un provvedimento disciplinare deciso dal Consiglio di Classe.
L’unica occasione in cui i cellulari hanno divieto di accesso a scuola è durante le prove scritte dell’Esame di Stato. Tuttavia, se qualcuno lo porta con sé, viene invitato a lasciarlo al personale di sorveglianza per tutta la durata delle prove.

Negli Stati Uniti, invece, gli studenti a scuola con il cellulare non possono nemmeno entrare. A quanto pare solo in 88 istituti newyorkesi dotati di metal detector è possibile un controllo. In verità, il metal detector ha più la funzione di scongiurare il pericolo che i ragazzi portino in classe armi varie. E devono rinunciare non solo al mobile phone ma anche agli iPod e perfino agli iPad, per evitare che invece di ascoltare i professori i ragazzi passino le ore su Facebook e a chattare. Ma lasciarlo a casa non è proprio ammissibile perché significherebbe privarsi del telefonino e degli altri aggeggi tecnologici nel tempo di percorrenza tra casa e scuola. Allora che si fa? Lo si deposita nei furgoni posizionati allo scopo di fronte alla maggior parte degli istituti scolastici.

L’idea non è male soprattutto per i proprietari dei furgoni che riescono a trarne un buon profitto. Infatti il deposito per il cellulare costa un dollaro al giorno, non proprio una cifra irrisoria calcolando che sono migliaia i teenager utilizzano questo servizio. A conti fatti, in un anno a uno studente che porta con sé ogni giorno il telefonino, il deposito viene a costare circa 180 dollari.

Un’idea buona, se vogliamo, ma non esente da rischi: l’assalto al furgone. Nel Bronx, lo scorso giugno, alcuni teppisti hanno assalito un veicolo e rubato ben 200 cellulari. Secondo le statistiche della polizia di New York, nell’ultimo anno solo i furti legati agli iPhone hanno causato un aumento del 4% dei crimini nella metropoli.

E da noi un’idea del genere funzionerebbe? Probabilmente no visto che mi sembra molto difficile che sia varata una legge che imponga l’accesso a scuola senza telefonino o iPod. Susciterebbe, probabilmente, un’insurrezione generale … da parte dei genitori che vogliono sempre stare in contatto con i figli. Hai visto mai che succeda qualcosa durante il viaggio …

Ma i nostri genitori come facevano?

RICOMINCIA LA SCUOLA: 7 CONSIGLI ANTISTRESS PER LE MAMME DEI PIÙ PICCOLI

L’avvio dell’anno scolastico è quasi sempre accolto dai genitori dei più piccoli come una manna dal cielo. Infatti, è il periodo in cui, almeno per qualche ora al giorno, i figli sono “sistemati”. Attenzione, però: per i piccolini che stanno per essere inseriti nella scuola d’infanzia e per quelli appena un po’ più grandicelli che iniziano ora la scuola primaria questi sono giorni emotivamente stressanti. Inevitabilmente ne risentono anche i genitori, senza contare tutte le corse che si devono fare per gli acquisti, i libri da copertinare, i grembiulini (si usano ancora?) da sistemare, la cernita dei pastelli colorati da fare, gli zainetti, che stanno ancora lì in un angolo, ben chiusi con il contenuto delle cose che erano servite l’ultimo giorno, da lavare … insomma, non c’è da stare tranquilli nemmeno un po’. Ma come allontanare lo stress da inizio scuola?

Barbara Sgarzi, su Vanity Fair, elenca 7 simpatici consigli antistress. Eccoli:

1 Non correte Quando iniziano le interminabili vacanze estive, 200 giorni di scuola sembrano pochissimi. In realtà l’anno scolastico non è uno sprint, è una mezza maratona. Se arrivate al fatidico primo giorno senza aver terminato il corredo scolastico per il pupo o l’iscrizione a Tai Chi, non vi preoccupate. C’è tutto il tempo.

2 Informatevi almeno da tre persone diverse Soprattutto se state vivendo il delicato periodo dell’inserimento alla scuola materna o il passaggio tra materna ed elementare, non abbiate paura di chiedere più volte le informazioni che vi servono: orari, materiali da portare, riunioni, numeri di emergenza. Trasformatevi in reporter e collezionate almeno due fonti diverse per ogni notizia. Spesso divergono e ve ne servirà una terza per essere certe di avere l’informazione corretta

3 Non comprate tutto subito soprattutto se, vedi sopra, iniziate un nuovo percorso scolastico. Non fidatevi dei malefici foglietti fotocopiati che vi consegnano, con l’elenco dei materiali assolutamente necessari. Anche perché, secondo i dati della Federconsumatori, la spesa per il corredo scolastico passerà dai 461 euro dello scorso anno ai 488 di quest’anno (+6%). Meglio evitare acquisti inutili: prima di correre in cartoleria, al super o in merceria (ebbene sì: in merceria), parlate con qualche altra mamma. Scoprirete che siete l’unica ad aver preso sul serio, acquistato e realizzato la “fettuccia di tessuto sulla quale scrivere nome e cognome con apposita penna indelebile da fissare poi con ferro da stiro rovente”, per identificare ogni capo di abbigliamento portato a scuola (è una storia vera). Non fidatevi.

4 Tanto, avevo judo Si chiamano attività extrascolastiche. Si sfoggiano, tra una chiacchiera e l’altra (vedi punto seguente) più di una borsa griffata. A parole, tutti criticano l’iperattivismo imposto ai bambini; poi, appena gratti la superficie di genitore zen e illuminato, scopri che dei cinquenni, tra danza terapia, teatro gioco, espressione corporea, l’immancabile nuoto e un’arte marziale “per l’equilibrio psicofisico” hanno l’agenda di un atleta olimpico. Vedete voi. Io mi limitarei a due attività a settimana. E no, la lezione di prova gratuita non è una garanzia: dopo quella, sono sempre tutti entusiasti, ma la gioia scema già alla quarta lezione: “Non ne ho più voglia” e ci sarà poco da fare, anche se avete pagato un’iscrizione triennale.

5 Le altre mamme sono amiche Ok, questa non è facile. Se non siete particolarmente socievoli o, semplicemente, non volete frequentare qualcuno per obblighi sociali, fuggirete dai caffè davanti alla scuola (posto che ne abbiate il tempo, dopo aver scaricato il pupo alla velocità della luce per correre al lavoro) oppure alle chiacchiere all’uscita. Però servono. In primis per ottenere informazioni preziose, poi perché possono facilitare l’organizzazione dei pomeriggi e delle attività extrascolastiche. Ah sì: se avete fortuna, magari con qualcuna andate d’accordo davvero, e non solo perché è “la mamma di”.

6 Il network è importante Non quello lavorativo, per carità. Quello delle babysitter. Se non avete le solite nonne o zie o vicine di casa molto comprensive, se non c’è una Mary Poppins fissa, sappiate che dovrete contare su almeno tre babysitter. Una in carica per i pomeriggi, una di emergenza per le mattine di sciopero e febbri, una per la sera se la numero due vi desse buca.

7 Non lamentatevi la scelta di lavorare e avere una famiglia, oppure quella, opposta, di stare a casa a occuparvi dei figli, l’avete presa tempo fa, per amore o per forza. Inutile continuare a ripetere tutti giorni che l’alternativa sarebbe mille volte meglio.