L’obiettivo che mi prefiggo con questo blog è quello di venire incontro alle esigenze degli studenti, delle famiglie e dei docenti. Sarà, almeno nelle intenzioni, mirato a supportare gli studenti nello studio, ad informare le famiglie e gli studenti stessi sul mondo della scuola e ad instaurare un confronto con i colleghi docenti.

Oltre a scrivere dei post, è mia intenzione curare particolarmente la sezione “Pagine” (visibile in alto, sotto il titolo del blog e sulla barra laterale), per dare un aiuto agli studenti in difficoltà. La sezione è in continuo aggiornamento e quasi quotidianamente pubblico dei materiali utili e appunti vari relativi alle diverse discipline che insegno: Italiano, Latino, Storia e Geografia. Ho anche in previsione di pubblicare materiali didattici e non, relativi agli ambiti in cui mi sento maggiormente competente.

Inoltre, di particolare interesse per gli studenti e per i docenti i links visibili sulla barra laterale che, per il momento, sono suddivisi in tre sezioni: “Parlano di scuola” (siti di riviste specializzate e altri siti inerenti le attività del Ministero dell’Istruzione), “La normativa in un click” (alcune leggi in vigore nei diversi ambiti di specifico interesse per i docenti ma anche per gli allievi che vogliono “vivere” la scuola in modo consapevole) e “Links utili per chi studia” (per supportare gli studenti nello studio ma, in qualche caso, anche per venire incontro alle esigenze degli insegnanti).

Potete visitare anche l’altro mio blog (LINK), se vi fa piacere, e leggere QUI qualche notizia su di me.

Chi volesse mettersi in contatto via e-mail può scrivermi all’indirizzo: marisamolesblog@gmail.com.

Grazie della visita e buona navigazione.

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[immagine da questo sito; ULTIMO AGGIORNAMENTO 12 OTTOBRE 2011]

SCUOLA: VALDITARA DICE NO ALL’USO DELLO SMARTPHONE IN CLASSE MA LA DIDATTICA DIGITALE NON SI FERMERÀ

Immagine scaricata da questo sito

Fin dall’inizio del suo mandato il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha espresso la sua contrarietà sull’utilizzo dello smartphone in classe durante le lezioni. Nella circolare del 19 dicembre 2022 ribadisce quanto già contenuto in una precedente circolare ministeriale del 15 marzo 2007, n. 30, emanata dall’allora ministro Giuseppe Fioroni. In essa venivano diffuse le “linee di indirizzo ed indicazioni in materia di utilizzo di telefoni cellulari e di altri dispositivi elettronici durante l’attività didattica, irrogazione di sanzioni disciplinari, dovere di vigilanza e di corresponsabilità dei genitori e dei docenti”.

Nulla di nuovo, dunque. Valditara riafferma quanto già stabilito molti anni prima, giustificando la sua posizione contraria all’uso del cellulare in classe, a meno che non sia autorizzato dall’insegnante per scopi didattici, come «una generale norma di correttezza che, peraltro, trova una sua codificazione formale nei doveri indicati nello Statuto delle studentesse e degli studenti, di cui al D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249”; “l’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando, pertanto, un’infrazione disciplinare…».

Quindi la norma relativa all’uso degli smartphone durante le ore di lezione è contenuta nello Statuto delle Studentesse e degli studenti che però riguarda solo la scuola secondaria (nel DPR non è specificato il grado, tuttavia appare logico includere sia la secondaria di I grado – ex scuola media – sia le secondarie di II grado, ossia gli istituti superiori). Tale norma è valida per tutti gli istituti presenti sul territorio nazionale ma poi in ogni scuola esiste un Regolamento in cui possono essere incluse delle varianti.

In genere si parla di “utilizzo” e non di “possesso”, il che significa che gli allievi e le allieve possono entrare in classe con il cellulare. In alcune scuole gli stessi allievi e allieve sono invitati/e a consegnare al docente della prima ora il proprio dispositivo che poi verrà riconsegnato al termine delle lezioni (in alcuni casi è permesso l’uso durante la ricreazione). Tuttavia questa norma non è comune, così come in ogni regolamento del singolo istituto le sanzioni vengono stabilite in modo autonomo, sentito il parere del Collegio dei docenti e del Consiglio di Istituto. Per esempio, ho letto su alcuni siti regolamenti ancora in vigore che prevedono il “sequestro” del telefonino che poi verrà riconsegnato ai genitori convocati dal dirigente. Questa è un’operazione sconsigliata in quanto passibile di denuncia, come sottolinea l’avv. Marco Barone in questo articolo apparso su Orizzonte Scuola . L’avvocato, infatti, rileva che se il docente sequestra il cellulare a un allievo può essere perseguito per «appropriazione indebita ex art. 646 Cod. Pen., ma anche eccesso di potere/abuso d’ufficio». Ne consegue che tutto ciò che un insegnante può fare è scrivere una nota sul RE in cui si evidenzi l’inosservanza del regolamento, in seguito tale mancanza potrà essere sanzionata nei modi stabiliti dal regolamento d’istituto. Generalmente determina grave inosservanza l’utilizzo dello smartphone durante i compiti in classe e ancor più grave quando risulti palese che l’allievo in questione ha attinto dal web informazioni utili allo svolgimento del compito stesso.

Negli ultimi giorni il ministro Valditara ha annunciato una nuova stretta: il cellulare e il tablet saranno sconsigliati – attenzione, non vietati in modo perentorio – nelle scuole d’infanzia, nelle primarie e nelle secondarie di I grado. Sembrano essere quindi esclusi i licei e gli istituti di istruzione secondaria di II grado. La norma in via di definizione sarebbe motivata dalla considerazione che i dispositivi succitati costituiscono «un elemento di distrazione propria e altrui e di una mancanza di rispetto verso i docenti». Viene quindi ribadito il primo punto, già presente nelle circolari precedenti, ma con un’aggiunta che, a mio parere, non è affatto trascurabile: una mancanza di rispetto verso i docenti.

Le cronache degli ultimi mesi hanno, infatti, messo in evidenza quanto agli studenti e alle studentesse piaccia riprendere con il telefonino i professori nello svolgimento delle loro funzioni, a maggior ragione se nei loro confronti si assumono atteggiamenti di dileggio. Credo siano noti episodi gravi come quelli accaduti a Rovigo e ad Abbiategrasso. Probabilmente se a Rovigo i docenti si fossero premurati di ritirare i dispositivi all’inizio delle lezioni, per poi restituirli a fine mattinata, quantomeno non sarebbe stato diffuso il video dell’aggressione subita da parte dell’insegnante.

Ritengo che le intenzioni dell’attuale ministro siano dotate di buonsenso e che non abbiano come scopo la messa al bando dei dispositivi ai fini didattici, anche perché non si parla delle strumentazioni di cui le scuole sono dotate. Quando Valditara afferma che «il cellulare verrà di fatto vietato alle scuole dell’infanzia, alle elementari e alle medie anche per scopi didattici. E alle elementari e alle medie verrà suggerito di evitare l’uso del tablet» fa riferimento ai dispositivi personali (anche se dubito, in realtà, che i bambini delle scuole materne si presentino a scuola con lo smartphone). Insomma, quello che sarà vietato è il BYOD (Bring your own device) già previsto dal Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca “per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale”. Ora questa disposizione, vecchia di 8 anni, è decisamente superata e vi spiego perché.

Nel 2022 l’allora ministro Patrizio Bianchi annunciava una vera e propria rivoluzione digitale delle nostre scuole grazie ai fondi stanziati dal PNRR per il progetto denominato “Scuola 4.0”. Più di 2 milioni di euro saranno impiegati «per trasformare 100.000 classi tradizionali in ambienti innovativi di apprendimento e creare laboratori per le professioni digitali del futuro negli istituti scolastici del secondo ciclo.». Non solo, «fra risorse PNRR e altri fondi europei si tratta di 4,9 miliardi messi a disposizione per cablare aule, formare docenti, portare la banda ultra larga a scuola, sostenere la digitalizzazione di segreterie e pagamenti legati alle attività scolastiche, innovare gli spazi didattici.». Tali fondi interesseranno anche le scuole del primo ciclo, compresi gli «ambienti innovativi per la scuola dell’infanzia» per cui verranno spesi circa 250 milioni. E chi pensa che comunque ci saranno discriminazioni tra nord e sud si sbaglia: il 40% dei fondi stanziati sarà riservato  agli istituti scolastici delle Regioni del Mezzogiorno. Naturalmente ogni scuola deve presentare un progetto (anzi, i progetti sono già stati presentati per essere realizzati entro il 2025) che sarà esaminato e approvato, sempre che risponda ai requisiti. Ne consegue che la diffusione di tali innovazioni dipenda molto da come le scuole dimostreranno di voler utilizzare questi fondi.

Da ciò si evince che proibire – o sconsigliare – l’utilizzo dei dispositivi personali non pregiudica l’uso delle strumentazioni in dotazione delle scuole. Ormai in numerose aule scolastiche sono presenti le LIM (lavagne interattive multimediali) oppure le più moderne Digital Board attraverso le quali è possibile connettersi alla rete e che rappresentano uno strumento indispensabile per una didattica collaborativa e inclusiva.

La pandemia ci ha catapultati in un mondo sconosciuto ai più, però con la DAD (didattica a distanza) e la DDI (didattica digitale integrata) gli insegnanti hanno scoperto le grandi potenzialità di questa didattica innovativa cui ormai è impossibile rinunciare. La formazione – del tutto volontaria, lo sottolineo – ha contribuito alla diffusione di nuove metodologie maggiormente coinvolgenti e inclusive. Con le risorse del PNRR la scuola si avvia verso un futuro che corre veloce, basti pensare all’utilizzo dell’AI, una risorsa preziosa a patto che sia utilizzata dagli studenti in modo corretto. Per questo c’è bisogno di impegnarsi ancora di più nell’ambito dell’educazione digitale, già prevista da anni tra i 17 obiettivi dell’Agenda 2030, un piano sottoscritto da 193 Paesi delle Nazioni Unite.

Insomma, i divieti o i “consigli” di Valditara, che riguardano l’utilizzo dei dispositivi personali, non saranno certamente un ostacolo all’innovazione didattica attraverso il digitale. Ormai non è più possibile tornare indietro.

Altre fonti: La Repubblica; Orizzonte Scuola.

LA PROF IN PENSIONE

Finalmente è arrivato il momento che stavo aspettando con trepidazione da qualche anno: da oggi, 1. settembre 2023, sono ufficialmente una prof in pensione.

Molte volte ho immaginato questo momento. Gli ultimi anni sono stati difficili anche e soprattutto per alcuni miei problemi personali. Ho faticato tanto. A volte mi sono sentita incapace, sfiduciata e demotivata, ma mai ho smesso di amare il mio lavoro e di farlo con passione.

Nel mio cuore non smetterò mai di sentirmi un’insegnante e spero proprio di aver lasciato quel segno in almeno la metà delle centinaia di allievi e allieve che, dalla cattedra, ho osservato, incoraggiato, consolato valutato – ahimè – e amato. Non mi definirò mai un’ex insegnante ma un’insegnante in pensione, questo sì.

Nel mio servizio attivo, durato più di 38 anni, sono stata una delle tante e dei tanti che nel lungo periodo si è prodigata per fare del bene ai ragazzi e alle ragazze che le sono stati affidati, per dare loro una formazione e una cultura di cui, in futuro, non si debbano vergognare. Io sono una delle tante che ha sacrificato molto per la scuola, per migliorarsi e per far sì che la scuola stessa, se non gli insegnanti, poveretti loro, non cada sempre più in basso. L’ho fatto per lungo tempo gratis, facendo tanto volontariato, con la consapevolezza che la mia professione ha, e spero continui ad avere, una dignità al di là di qualsiasi stipendio e compenso accessorio.

Negli ultimi tempi si parla tanto di precariato e, nello stesso tempo, di una professione sempre meno ambita dai giovani. Io un po’ li capisco questi giovani. Quando ho iniziato io, il professore e la professoressa erano dei punti di riferimento, mai messi in discussione, sempre considerati dei professionisti seri e degni del massimo rispetto. Ora non è più così: qualsiasi cosa si faccia viene messa in discussione, compresa la valutazione che da sempre è considerata nostro appannaggio esclusivo – d’altronde è il compito primario della professione docente -, continuamente criticata da chi ignora la docimologia e il compito delicato che ci viene affidato. Siamo spesso sostituiti dai giudici dei tribunali amministrativi che non dovrebbero ribaltare i giudizi finali eppure lo fanno. Ciò è reso possibile dalla scarsa fiducia delle famiglie e dall’arroganza con cui i genitori – certamente non tutti – pretendono la promozione assicurata perché per loro conta solo questo, non la preparazione effettiva dei loro figli. Peccato, perché con quella preparazione poi dovranno affrontare gli studi successivi e il mondo del lavoro. Allora i nodi verranno al pettine, come si suol dire.

Guardandomi indietro, agli inizi della carriera, vedo un’insegnante piuttosto austera. Pensavo che un certo contegno autoritario mi avrebbe procurato la rispettabilità che credevo non fosse conciliabile con l’aria sbarazzina e spensierata che la mia giovane età mi avrebbe suggerito. Volevo essere come il mio prof di Latino e Greco, fin da subito il modello d’ispirazione, ma mi sbagliavo. I tempi erano cambiati, semplicemente. Insegnavo in una scuola media di montagna, gli alunni e le alunne provenivano da famiglie semplici e genuine, poco acculturate. Credevo che il mio compito principale fosse quello di ampliare i loro orizzonti e per farlo dovevo essere seria. La cultura, in fondo, è qualcosa di serio o no?

Quando una ragazzina di seconda mi fece notare che, al contrario della mia collega che insegnava in una classe parallela, non sorridevo mai e non offrivo mai loro le caramelle, mi fermai a riflettere. Da quel giorno cambiai, anche se l’anno successivo, vinto il secondo concorso, iniziai a insegnare negli istituti superiori. Ma trasmettere la mia passione per i Promessi sposi di Alessandro Manzoni, in un istituto tecnico industriale e per di più in una classe di 27 allievi tutti maschi, fu un’impresa disperata. Essendo in attesa del mio primo figlio, accolsi l’inizio della maternità obbligatoria come una sorta di benedizione.

Dopo due maternità ravvicinate ebbi il coraggio di prendere la terza abilitazione per insegnare nei licei. Ecco che, alle prese con la letteratura latina, l’analisi e la traduzione di un passo d’autore, ripresi in considerazione l’antico modello, il mio professore di Latino e Greco che, pur senza sorrisi, mi ha fatto amare così tanto le sue discipline. Insegnare Latino – il Greco era ormai per me un ricordo lontano – costituì una sorta di riscatto per non essere riuscita a laurearmi in Lingue, come avrei voluto. Le lingue classiche in fondo sono sempre lingue e portano con sé il fascino di antichi popoli che ancor oggi hanno tanto da insegnarci.

Negli ultimi 30 anni ho insegnato al liceo scientifico. Un periodo così lungo che necessariamente mi ha imposto di rinnovare la didattica, anche grazie alla collaborazione con i colleghi e le colleghe del mio dipartimento. L’insegnante non può né deve essere solo e isolato, convinto di sapere tutto e di non avere nulla da imparare. Per me la collaborazione è stata fin da subito una risorsa irrinunciabile e ringrazio i colleghi e le colleghe che, attraverso il confronto, mi hanno permesso di migliorare e di innovarmi. Grazie a ciò, ho potuto rendere più dinamico il mio lavoro perché, checché se ne dica, ripetere ogni anno le stesse cose nello stesso modo è molto comodo ma anche tanto noioso.

Negli ultimi quattro anni ho assunto il ruolo di coordinatrice del mio dipartimento, un compito faticoso e impegnativo che ho svolto con la stessa meticolosità e passione che ha caratterizzato sempre il mio lavoro di insegnante. Ma, al di là della fatica e degli inevitabili momenti di discussione e le divergenze tra alcuni di noi – d’altra parte non esiste un pensiero unico e la difficoltà di conciliare i diversi punti di vista fa parte del “gioco” – l’incarico mi ha dato tante gratificazioni. Lavorando a stretto contatto, ho allacciato amicizie che rimarranno sempre nel mio cuore.

Giunta alla fine della mia carriera, ringrazio la mia maestra Alberta, le professoresse Fulvia e Anna, i due Sergio, professori di Italiano, Latino e Greco che per me sono stati i veri Maestri. Assieme ai loro colleghi, che forse non hanno lasciato dentro di me una così vasta orma di sé, mi hanno accompagnato negli anni della mia infanzia e adolescenza e hanno fatto di me la persona ma soprattutto l’insegnante che sono.

Ringrazio soprattutto i miei allievi e le mie allieve perché se è vero che grazie a me (e ai miei colleghi, ovviamente) hanno imparato molte cose, soprattutto a divenire adulti consapevoli del ruolo che in futuro spetterà loro, anch’essi hanno insegnato a me tantissime cose. Perché il nostro lavoro senza di loro non esisterebbe. Mi viene in mente, a questo proposito, il racconto di Isaac Asimov “Chissà come si divertivano” in cui l’autore immagina la scuola del futuro fatta di macchine al posto delle persone. Così viene riportata la riflessione di Margie, la protagonista, sulle “vecchie scuole”:

«Stava pensando alle vecchie scuole che c’erano quando il nonno di suo nonno era bambino. Ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare. E i maestri erano persone…»

Ora anche a scuola sta per entrare l’intelligenza artificiale. Non stiamo parlando di macchine al posto dei maestri ma di uno strumento che può essere molto utile se usato con raziocinio. Il rischio, come sempre è accaduto di fronte alle novità tecnologiche, è che gli studenti e le studentesse utilizzino l’IA in modo inappropriato, cercando scorciatoie per impegnarsi di meno. Per scongiurare ciò, c’è ancora bisogno delle persone, di quei maestri che insegnino la strada giusta da percorrere.

Spero, nel mio piccolo, di aver contribuito almeno un po’ a indicare ai miei allievi e alle mie allieve, di ieri e di oggi, quella strada fatta di sacrifici, sì, ma anche di molte soddisfazioni.

SCUOLA: GLI ARGOMENTI DI DISCUSSIONE ESTIVI

Come ogni estate il dibattito sulla scuola è acceso. Negli anni i social l’hanno amplificato ma a ben vedere gli argomenti di discussione sono rimasti identici.

Ormai la frequentazione dei social mi incoraggia sempre meno ad aggiornare questo blog: molto più comodo e veloce esprimere il mio parere attraverso Twitter. A volte le discussioni sono molto animate ma gli argomenti “estivi” non cambiano. Vediamo quali sono, escludendo le “vacanze dei prof” su cui sorvolo volentieri perché ogni tentativo di chiarire che le “vacanze” degli studenti non coincidono con le “ferie” degli insegnanti è sempre stato fallimentare. Tuttavia, se vi fa piacere, vi invito alla lettura di questo post in cui mi soffermo sul significato delle due parole “ferie” e “vacanze”.

1) I compiti delle vacanze

Due sono gli orientamenti:

  1. I compiti vanno assegnati perché le vacanze estive si prolungano per tre mesi e i bambini/ragazzi hanno bisogno di tenersi in allenamento
  2. Niente compiti perché le vacanze sono vacanze, appunto, lasciamo che i bambini/ragazzi se ne stiano in pace.

C’è anche un terzo orientamento, quello dei maestri o dei prof sognatori e poetici. Loro non assegnano compiti ma attività gratificanti, perlopiù ludiche, da svolgere preferibilmente con la famiglia. Si spazia dalle passeggiate nei campi per avvicinarsi alla natura, alla contemplazione del tramonto in riva al mare, per finire con la compilazione di un diario in cui annotare queste magnifiche ed estasianti esperienze.

Tralasciando i consigli poetici, invito alla lettura di questo post del 2014.

2) Le vacanze estive troppo lunghe

Strettamente legato al precedente, anche l’argomento “vacanze estive” è motivo di discussione accesa ogni estate. Anche in questo caso gli orientamenti sono due:

  1. Non è giusto che i docenti abbiano tre mesi di vacanza pagati
  2. Gli studenti fanno troppe vacanze e le famiglie non sanno cosa fare dei figli durante il lungo periodo

Sul primo punto taccio, come ho già scritto nella parte introduttiva.

Quanto al secondo punto, la protesta delle famiglie è oggetto di disapprovazione in quanto chi vive la scuola ogni giorno sa bene che le 14 settimane di vacanza degli studenti non equivalgono a un minor numero di giorni di lezione rispetto agli altri Paesi della UE. Varia la distribuzione delle settimane di vacanza ma in Italia i giorni di lezione obbligatori sono 200, il numero più alto nell’ambito dei Paesi europei.

Ne ho parlato qui e, sebbene siano passati 9 anni (l’articolo è del 2014), le cose non sono cambiate molto. Anche le polemiche sono sempre quelle.

3) I debiti formativi (ossia quelli che ancora qualcuno ostinatamente continua a denominare “esami di riparazione” o “esami per i rimandati a settembre”)

Parliamo ovviamente delle scuole superiori (secondarie di secondo grado, secondo la dicitura corretta) dove gli esami non esistono da un bel po’; chi non raggiunge la sufficienza in una o più materie a giugno ha il giudizio sospeso e deve recuperare le insufficienze. Si chiamano debiti formativi e il loro superamento è regolamentato autonomamente da ciascun istituto nei tempi e nelle modalità. Nella maggior parte dei casi ormai da qualche anno si tende a organizzare i recuperi nell’ultima settimana di agosto. In qualche caso il recupero avviene a luglio, in altri le prove di accertamento slittano ai primi di settembre. Le cose vanno così da quando l’allora ministro Fioroni firmò il DM 80/2007 e nulla è stato modificato negli anni a seguire.

Quest’estate il dibattito è stato infiammato dalla presunta volontà del ministro del MIM, Giuseppe Valditara, di cambiare le carte in tavola e intimare lo svolgimento delle prove di recupero dei debiti dal 16 agosto in poi ed entro la fine del mese. Una “decisione” che avrebbe messo in discussione le ferie dei docenti, specialmente quelli impegnati negli esami che difficilmente avrebbero potuto godere dei 32 giorni di ferie (più 4 per le festività soppresse) cui hanno diritto. Tuttavia, leggendo bene la circolare del ministro, si capisce che la normativa era rimasta quella di sempre e che volendo gli “esami” si sarebbero potuti svolgere anche all’inizio di settembre, purché entro il giorno d’inizio delle lezioni, che varia da regione a regione e financo da scuola a scuola, grazie all’autonomia.

Niente di nuovo sotto il sole di luglio, insomma. Basta leggere qui (post pubblicato nel 2011).

4) L’onere per le famiglie delle lezioni private

Anche questo argomento è strettamente legato al punto precedente. Nonostante le scuole offrano la possibilità di frequentare corsi di recupero, le famiglie sono perlopiù orientate verso le lezioni private. Da un’indagine promossa dall’“Osservatorio ripetizioni private” di Ripetizioni.it è emerso che circa un quarto degli alunni di scuole medie e superiori si rivolge agli insegnanti privati, non specificatamente d’estate ma durante tutto l’anno (anche per scongiurare i debiti…).

Il problema connesso a questa abitudine riguarda anche gli stessi insegnanti. Il business delle ripetizioni è, infatti, molto lucroso. Chi ha tempo e voglia può effettivamente ricavarne un bel guadagno, prevalentemente in nero, arrotondando così lo stipendio che, diciamolo, è tra i più bassi d’Europa e non rende merito agli studi universitari, master e specializzazioni richiesti per ricoprire questo ruolo.

Questo mercato con un po’ di buona volontà è facilmente evitabile. Lo spiego qui (articolo del 2016).

5) La bocciatura

Affrontare una bocciatura non è mai semplice, e ciò vale sia per gli studenti sia per le famiglie. Negli ultimi anni, però, si è assistito a un aumento di ricorsi al Tar da parte di genitori e studenti incapaci di comprendere che la bocciatura non è mai facile nemmeno per i docenti i quali devono prendere questa decisione la quale, nella maggior parte dei casi, si basa su valide motivazioni, prima tra tutte la non adeguata preparazione dello studente alla frequenza con profitto della classe successiva. Non a caso, in termini tecnici, la “bocciatura” è chiamata “non ammissione alla classe successiva”.

All’inizio di luglio ha tenuto banco, nelle discussioni sui social, il caso di una studentessa di Trento la quale, nonostante le 5 insufficienze, ha fatto ricorso al Tar perché non ammessa all’esame di Stato (o “maturità” come si tende a dire ancor oggi). Riammessa dal tribunale amministrativo, la ragazza ha affrontato senza successo le prove suppletive ed è stata bocciata dopo l’orale.

Anche in passato si sono verificati dei clamorosi insuccessi nell’ambito dei ricorsi al Tar. Per esempio, una sentenza del 2014 non solo dava ragione ai docenti ma costituiva una sorta di schiaffo morale ai genitori i quali, secondo i giudici, avevano manifestato stupore di fronte al giudizio conclusivo emesso nei confronti del loro figliuolo e avevano mancato nel dovere di vigilare costantemente sul loro comportamento e andamento scolastico, al fine di apprestare, in caso di necessità, tempestivi e idonei interventi correttivi o di sostegno.

Ai genitori delusi dalla bocciatura del figlio o della figlia consiglio la lettura di questo post datato giugno 2018.

6) Il voto di condotta

Negli ultimi anni la stampa ha messo in evidenza degli episodi di bullismo verso i compagni e/o aggressione nei confronti degli insegnanti da parte di allievi particolarmente discoli (per usare un eufemismo). Sotto accusa, nella maggior parte dei casi, la scarsa educazione ricevuta in famiglia ma, secondo me, in situazioni come quelle citate giocano un ruolo importante anche il contesto e i modelli che i ragazzi e le ragazze seguono. Il fatto, poi, che attraverso i social episodi così gravi siano diffusi senza scrupoli da giovani e giovanissimi a caccia di like, ha certamente amplificato il problema.

Due sono stati, durante questi mesi, gli episodi messi in risalto dalla stampa e inevitabilmente rimbalzati sui social.

Il primo riguarda il sedicenne che ha ferito in modo grave la sua insegnante di italiano al liceo scientifico Alessandrini di Abbiategrasso ed è stato espulso e bocciato con il 5 in condotta, anche in presenza di buone valutazioni nel profitto. I genitori hanno preannunciato il ricorso al Tar ma finora non è stato reso pubblico alcunché a riguardo. Sta di fatto che con il 5 in condotta è prevista la bocciatura, anche se la media dei voti è buona (DM 5/2009).

Il secondo caso ha visto come protagonisti dei ragazzini che, in una scuola di Rovigo, a ottobre hanno sparato alla loro insegnante con una pistola a pallini e, nonostante ciò, sono stati promossi con il 9 in condotta. L’azione era stata ripresa con un telefonino e postata sui social. Ciò ha indignato il ministro Valditara che ha fatto riconvocare il Consiglio di Classe; in questa nuova riunione i 9 sono stati abbassati, con buona pace di tutti. In realtà, a mio parere, questa azione di forza ha creato un pericoloso precedente.

Al di là di questi singoli episodi, a mio parere la questione del voto di condotta deve essere riaffrontata. Da parte sua Valditara ha preannunciato che chi avrà 6 nel comportamento dovrà recuperare “a settembre” (vedi punto 3) in Educazione Civica. Peccato che questa non sia una materia a se stante (le 33 ore obbligatorie sono distribuite su più insegnamenti e riguardano molti ambiti) e che il 6 costituisca di fatto il voto minimo per la sufficienza. I cosiddetti debiti si danno con voti inferiori al 6, ne consegue che la proposta del ministro sia irricevibile e possa dar adito a numerosi ricorsi al Tar. A meno che non si voglia condonare qualche 5, a seconda della gravità dei fatti e del momento in cui sono accaduti (se nel primo o nel secondo periodo dell’as.), e riconvertirlo in “debito” al posto della bocciatura. La questione mi sembra molto controversa.

La mia riflessione, però, vuole prendere in esame la valutazione della condotta nella scala decimale, al pari delle materie di insegnamento. Abbiamo detto che il 5 corrisponde all’insufficienza e il 6 è il voto minimo per la sufficienza, come è sempre stato. Il voto di condotta fa media come gli altri e dovrebbe avere, quindi, un valore simile agli altri voti presenti in pagella. Ma se da un lato le valutazioni nella diverse discipline raramente arrivano al 10, perché invece i 10 in condotta fioccano come neve a gennaio? E perché si guarda con sospetto chi merita 8 nel comportamento? Un 8 in Latino o Matematica è forse un brutto voto?

Insomma, la discussione è piuttosto lunga quindi invito alla lettura di questo post pubblicato nel 2020.

7) I risultati dei test Invalsi

Non poteva mancare, come argomento del dibattito estivo, quello sui test Invalsi. L’istituto, infatti, dopo la fine delle lezioni ogni anno pubblica i primi risultati facendo una panoramica generale, cui seguirà nei mesi prossimi il feedback destinato alle scuole. I titoli dei quotidiani sono stati più o meno simili: «In italiano e matematica insufficiente uno studente su due». Ciò ha scatenato la protesta degli insegnanti poiché, leggendo il rapporto ufficiale sul sito dell’istituto, risulta chiaro che le cose stanno messe un po’ diversamente rispetto a quanto fatto credere dalla stampa.

Non voglio tediare nessuno entrando nei dettagli, ma invito a leggere questo post scritto nel 2012 in cui mi chiedevo a cosa servano i test se nessuno li sa leggere per poterne trarre un qualche beneficio a favore di studenti e docenti. Me lo chiedo ancora.

8) La presunta demotivazione dei docenti perché pagati poco

Anche questo è per certi aspetti un argomento legato al precedente. Secondo la vox populi i docenti italiani temono i test Invalsi perché gli scarsi risultati sarebbero un chiaro segnale della loro impreparazione e/o della scarsa motivazione dovuta all’esiguo stipendio percepito.

In primo luogo chiarisco che i test non hanno lo scopo di valutare l’abilità dei docenti bensì rilevano la qualità dell’apprendimento. Voi direte: vabbè, se hanno insegnanti scarsi avranno anche risultati scarsi. Ragionamento opinabile perché nella dinamica insegnamento-apprendimento vengono messi in campo fattori di rilevante importanza come per esempio: il numero degli studenti per classe, la presenza di L 104 e/o DSA, la presenza di studenti non italofoni o che comunque non conoscono bene la lingua, il bacino d’utenza in relazione alle condizioni socio-economiche delle famiglie... il discorso è troppo ampio per essere sintetizzato.

In secondo luogo, si deve tener conto del fatto che spesso gli studenti, sapendo che il risultato dei test non ha alcuna rilevanza sul profitto, li eseguono svogliatamente e in fretta, senza prestare la dovuta attenzione alle domande e a volte, convinti di aver capito quanto richiesto, sbagliano semplicemente perché non hanno letto bene le consegne, non perché non sanno leggere o comprendere ciò che leggono. Mi riferisco in particolare alle prove di Italiano ma anche per svolgere bene i test di matematica bisogna prestare attenzione alle richieste.

Quanto allo stipendio degli insegnanti, è chiaro a tutti che è molto modesto e non restituisce dignità non solo agli insegnanti che si impegnano ma anche al titolo di studio richiesto – da anni la laurea è un requisito anche nella scuola primaria – per insegnare. Tutti i ministri che si sono avvicendati in viale Trastevere hanno preso atto che chi insegna guadagna poco, anche in considerazione dei numerosi oneri che questa professione impone. Tutti hanno dichiarato che gli stipendi dovrebbero essere allineati a quelli dei colleghi europei (a me viene da ridere pensando che in Germania, per fare un esempio, i docenti guadagnano più del doppio di noi) ma nessuno ha fatto molto. Contratti scaduti e rinnovati dopo molti anni, arretrati forfettari che non tengono conto realmente dell’importo dovuto, aumenti irrisori. Però gli insegnanti, pur malpagati, non si tirano indietro e fanno il loro dovere, almeno la maggioranza, con dedizione e piena consapevolezza della responsabilità che grava su di loro: l’istruzione e la formazione delle generazioni future.

Altre, non lo stipendio, sono le cause che possono portare se non alla demotivazione quantomeno a un certo scoraggiamento. Lo spiegavo qui all’allora ministra Giannini. Correva l’anno 2014 ma i problemi evidenziati allora sono, a mio parere, rimasti immutati.

Concludo questa carrellata scusandomi per i numerosi link. Spero di aver sollecitato la vostra curiosità spingendovi alla lettura se non di tutti i post almeno di quelli che ritenete più interessanti.

Buona estate a tutti!

[le immagini provengono da questo blog o da marisamoles.wordpress.com. Nel caso provengano da siti non linkati o siano coperte da copyright, prego contattarmi per e-mail]

#DANTE700: LE DONNE NELLA COMMEDIA DANTESCA

PREMESSA

Sta per concludersi l’anno dantesco in ricordo del settecentesimo anniversario della morte del poeta fiorentino. Non si può dire che questo evento sia passato inosservato. Mai come quest’anno sono stati pubblicati volumi di vario genere sulla vita e sulle opere dell’Alighieri. Nel mio piccolo voglio condividere con i lettori e le lettrici un mio “studio” sulle presenze femminili nella Commedia. Di seguito trovate la presentazione mentre i capitoli che compongono lo studio saranno pubblicati nella sezione “Pagine” di questo blog (sulla barra laterale, alla voce “Letteratura italiana”, sezione dedicata a Dante Alighieri).

BUONA LETTURA!

    

Tomba di Dante – Ravenna

Non tutte le donne nominate nella Commedia occupano uno spazio considerevole: alcune sono protagoniste altre solo comparse, ad alcune il poeta dà voce mentre di altre riporta solo i nomi. Sono poche numericamente (42 a fronte di circa 500 uomini, fra personaggi che interagiscono con Dante o solamente citati nell’opera) ma alcune hanno una storia che merita di essere raccontata. Non solo, possiamo dire che certe protagoniste, come Francesca da Rimini, Pia de’ Tolomei e Piccarda Donati, devono la loro fortuna imperitura proprio ai versi danteschi. Talvolta si tratta di storie miste a leggende che ancora oggi sopravvivono nelle tradizioni popolari, come il “Salto della Contessa”: una rievocazione storico-medievale che si tiene a Gavorrano in Maremma, ispirata alla tragica vicenda della senese Pia, alla quale la cantautrice Gianna Nannini ha dedicato un musical.

     Che dire di Paolo e Francesca, condannati all’abbraccio eterno nel cerchio dei lussuriosi? La loro storia è documentata, non è certo una leggenda anche se ha ispirato i cantastorie successivi. Un esempio è “La baronessa di Carini” che ha come protagonista Laura Lanza, costretta a sposare un uomo che non ama e punita con la morte assieme all’amante Ludovico Vernagallo. All’amor non si comanda o, come dice Dante attraverso Francesca, Amor ch’a nullo amato amar perdona

     Ci sono storie di donne che, pur sottratte con la forza al convento e costrette al matrimonio, sono rimaste sempre fedeli nel cuore a colui che avevano scelto come sposo: Gesù Cristo. È la storia di Piccarda Donati che, sottratta alla dolce chiostra, non serba rancore nei confronti di chi le ha usato violenza perché nella beatitudine ha ritrovato il vero Amore. Simile l’esperienza di Costanza d’Altavilla che viene rivissuta attraverso le parole di Piccarda.

     Dante è fiorentino e in più parti del poema fa riferimento alla sua città, perlopiù con un tono di rimprovero. Di certo non ha mai perdonato i suoi concittadini per l’esilio subito e continua a sperare in un ritorno per meriti poetici. Come sappiamo, a Firenze non metterà più piede. La città è dipinta come corrotta, abitata da gente senza scrupoli e, a causa della continua lotta tra fazioni, non riesce a trovar pace. Inevitabilmente questo “luogo di corruzione” è abitato da donne altrettanto disdicevoli. Nella, moglie di Forese Donati, è una delle poche a mantenere dignità e decoro. Come può evitare il poeta di fare il confronto con le fiorentine dei tempi passati? Ecco che l’elogio di Cacciaguida, nel XV canto del Paradiso, rende merito alle donne modeste, felici e fortunate di una Firenze ancora racchiusa entro le antiche mura.

     C’è anche chi, pur avendo una storia da raccontare, è solo un’ombra silenziosa, assieme ad altre, nel cerchio dei lussuriosi: è la regina cartaginese Didone di cui Dante ricorda solo la colpa di non essere rimasta fedele al marito Sicheo e di essersi uccisa per amore (di Enea, naturalmente). Forse l’infelix Dido avrebbe meritato una “particina” nel poema dantesco e poi, come Virgilio ci insegna, alla fine era stata perdonata da Sicheo… la condanna di Dante, invece, è senza appello. Nella ricostruzione della sua storia, vediamo come la lussuria di Didone sia in un certo senso incolpevole: in fondo la regina fu vittima di un complotto tra dee – Venere e Giunone – che la spingono tra le braccia dell’eroe troiano. Avrebbe forse meritato un posto nel Limbo tra gli Spiriti Magni. O forse avrebbe potuto ottenere un’altra collocazione se l’autore della Commedia avesse inventato un luogo dove premiare gli afflitti e sfortunati amanti.

     Molte donne nominate nel poema appartengono ai miti classici (le Arpie e le Furie, per esempio), altre non hanno identificazione certa. È il caso di Matelda che il pellegrino incontra nell’Eden, prima di riunirsi finalmente a Beatrice. Presente nei canti finali del Purgatorio, a partire dal XXVIII, ha il compito di condurre le anime a purificarsi nei fiumi Lete ed Eunoé. Calata in un paesaggio rigoglioso paragonato a quello in cui vivevano gli uomini dell’età dell’oro, rappresenta la perfetta felicità che Dio aveva riservato al genere umano nel paradiso perduto a causa del peccato originale. Sebbene Matelda non sia identificabile con nessuna donna storicamente esistita (vengono fatte varie ipotesi ma nessuna è prevalente), come personaggio ha un forte significato allegorico: ella rimanda alla vita contemplativa e alla giustizia, a lei è riservato il compito di “condurre” Dante da Beatrice di cui precede l’entrata in scena che avviene nel XXX canto del Purgatorio.

     Si può dire che Beatrice sia la vera protagonista della vita e dell’opera di Dante Alighieri? Certamente sì, perché senza di lei non sarebbe stata nemmeno scritta la Commedia. Non importa se stiamo parlando di un personaggio letterario, al di là dell’identificazione con la Bice Portinari vicina di casa del poeta. Quello che conta è il ruolo che la donna ebbe nell’evoluzione poetica di Dante e per questo è necessario partire dalla Vita Nuova che ripercorre la storia d’amore e di poesia indispensabili per comprendere la genesi della Commedia e il passaggio dall’amor alla caritas che il poeta compie nei suoi versi, distinguendosi da tutti i poeti precedenti. Se alla fine dell’opera giovanile l’autore non avesse espresso la volontà di trattare della donna amata in modo più degno, sperando di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna, non sarebbe probabilmente mai nato il capolavoro dantesco. Infatti, alla fine rivolge una preghiera a Dio affinché la sua anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.

    Non solo la sua anima ma anche il suo corpo giungerà al cospetto della benedetta Beatrice. L’accoglienza non sarà delle migliori ma, dopo aver fatto comprendere al poeta i propri errori (il famoso traviamento), la donna beata sarà per Dante una guida sicura attraverso i cieli, con il suo sguardo e con il sorriso lo aiuterà a superare i limiti umani per comprendere i misteri di Dio. Alla fine, ripreso il suo posto nella Candida Rosa, rivolgerà al poeta l’ultimo sorriso affidandolo a San Bernardo per la parte conclusiva del viaggio. Ormai, grazie alla salus conquistata per mezzo di Beatrice, Dante è pronto alla contemplazione de l’amor che move il sole e le altre stelle.

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

CAPITOLO 3: DIDONE

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 5: MATELDA

CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA

CAPITOLO 7: BEATRICE

SCUOLA: IL #GREENPASS DELLA DISCORDIA

Com’è noto, dal primo settembre i docenti – e il personale ATA – potranno recarsi a scuola solo previa esibizione del famigerato #greenpass. Uno strumento legittimo se ne consideriamo l’utilizzo ai fini ricreativi (per recarsi al cinema, teatro, musei…) o commerciali (per poter consumare al chiuso nei bar e ristoranti) ma altamente discriminatorio nel momento in cui il green pass viene richiesto per recarsi sul luogo di lavoro e soltanto a scuola, per giunta. Analoga richiesta, infatti, non riguarda gli impiegati degli enti amministrativi locali, chi lavora in ambito commerciale o ha un impiego in aziende private. Non riguarda nemmeno i parlamentari che si ritrovano a centinaia in un luogo chiuso dove stazionano a volte per ore. Dirò di più: pare che la percentuale degli onorevoli e senatori della Repubblica italiana vaccinati siano circa il 25% del totale.

In Italia, allo stato attuale, l’obbligo vaccinale interessa solo il personale sanitario. Nonostante ciò, c’è ancora una percentuale di medici, infermieri e OOSS non vaccinata e solo di recente (rispetto al decreto che risale ad aprile) si è iniziato a prendere provvedimenti per chi ancora non ha assolto all’obbligo imposto.

A scuola, invece, di fatto nessuno è obbligato a vaccinarsi per poter svolgere le proprie mansioni. Eh sì, perché il #greenpass non impone l’obbligo alla vaccinazione. Infatti, l’alternativa è fare un tampone ogni 3 giorni e, in caso di negatività, chiunque può mettere piede all’interno dell’edificio scolastico per lavorare. Quindi, chi non sottostà alle regole, dopo 5 giorni di assenza – non perché non voglia andare al lavoro ma perché non può – sarà sospeso dal servizio senza stipendio fino a quando non si metterà in regola.

Certo, a rigor di logica tutto parrebbe perfetto. C’è una “legge” (in realtà un decreto, pur essendo in vigore dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, deve essere convertito in Legge dal Parlamento entro 60 giorni), se non la si rispetta l’infrazione deve essere sanzionata. Se io, per esempio, mi reco in un locale al chiuso senza il certificato e nessuno mi controlla, posso essere sanzionata da parte delle Forze dell’Ordine esattamente come il gestore del locale. Posso, tuttavia, scegliere di non “fare la furba” e rinunciare al caffè con le amiche o al pranzo con i parenti.

Però il caso del personale scolastico è diverso: io docente non posso scegliere se recarmi a scuola oppure no, devo presentarmi al lavoro altrimenti vengo sospesa dal servizio ecc. Dunque, io posso pagare la multa una volta perché non ho seguito le regole recandomi al bar o al ristorante sprovvista del #greenpass, però nel momento in cui voglio svolgere il mio lavoro, ciò mi viene impedito fino al momento della regolarizzazione (o mi vaccino oppure faccio un tampone ogni 3 giorni).

Altra questione. Se il “sacrificio” dei docenti è una questione morale e civica, perché il #greenpass non si estende a tutti i lavoratori in ogni ambito? La commessa che sta 8 ore all’interno del supermercato e viene a contatto con centinaia di clienti può non essere vaccina. La stessa cosa vale per il cameriere che serve le consumazioni al bar o lavora al ristorante dove io, come cliente, devo esibire il certificato. Idem per l’operaio che lavora in fabbrica o l’impiegato che si relaziona con il pubblico. Mi si dirà: un docente è a contatto con molti studenti, in un’aula spesso sovraffollata, è responsabile della loro salute, è un obbligo morale quello di vaccinarsi per dare un buon esempio. Teoricamente il ragionamento non fa una piega però…

L’obbligo del #greenpass per il personale della scuola e non per gli studenti è un’assurdità, visto che stiamo parlando di una percentuale minima, circa il 10%, rispetto al totale degli studenti (il 90% rimanente). Verrebbe da pensare che l’obbligo per il personale scolastico sia rivolto ad arginare i contagi non per salvaguardare la salute dei ragazzi ma per evitare ricoveri in TI e in altri reparti ospedalieri, data anche l’età piuttosto elevata del personale docente. Quindi la sicurezza degli studenti non c’entra proprio nulla.

Perché, dunque, per scongiurare la #DAD (questo è il problema… la scuola in presenza a tutti i costi) non si impone anche ai discenti che possono essere vaccinati l’obbligo del #greenpass? E’ vero che i più giovani rischiano di meno se si ammalano di Covid-19, la maggior parte è asintomatica, non ha bisogno di cure e non rischia di occupare le TI e i reparti covid. Ma è anche vero che proprio gli asintomatici sono i più pericolosi a livello di diffusione del contagio. Quindi, sul totale delle persone presenti a scuola, il 10% dei docenti vaccinato (poi sappiamo che la vaccinazione non dà immunità perché ci possono essere positivi anche tra i vaccinati) dovrebbe essere responsabile della salute del 90% di studenti, per la maggior parte non vaccinata? Se parliamo di senso civico, perché non dare una bella lezione agli adolescenti (più che altro alle famiglie) istituendo l’obbligo del #greenpass anche per loro? Certo, in questi giorni c’è un appello rivolto ai più giovani affinché si vaccinino, ma è un appello, nulla di più.

A luglio il generale Figliuolo aveva dichiarato di voler attendere il 20 agosto per fare il quadro della situazione circa la vaccinazione del personale della scuola, facendo appello, nel frattempo, a quella esigua percentuale che non aveva aderito alla campagna di vaccinazione. Pur considerando delle differenze tra le varie regioni e la difficoltà nel reperire i dati dal momento che l’iniziale canale preferenziale è stato poi sostituito dalle fasce d’età, si parlava del 20% circa di persone che non aveva ancora fatto la prima dose del vaccino. Perché mai, dunque, il 6 agosto si è deciso di istituire l’obbligo del green pass per entrare a scuola dal 1. settembre? La famosa immunità di gregge non ha più valore?

La proposta di Figliuolo mi sembrava saggia. Andare con i piedi di piombo, in certe situazioni, è consigliabile. Sì, perché a volte i conti si fanno senza l’oste…

Poniamo che quella piccola percentuale di docenti e ATA ancora non vaccinata alla data del 6 agosto si sia fatta persuadere. Immagino che tutti abbiano almeno tentato di prenotarsi entro breve tempo ma non in tutti i luoghi si riesce a ottenere un appuntamento da un giorno all’altro. A volte si aspettano due-tre settimane, specialmente ora che, con la faccenda del green pass necessario per le vacanze, i centri sono stracolmi. Un docente, dunque, deve essere particolarmente fortunato a ricevere la prima dose entro il 16 agosto per poter ottenere il #greenpass in tempo per la ripresa dell’anno scolastico. Infatti, la certificazione verde si ottiene a partire dal 14° giorno successivo all’inoculazione del vaccino.

Altro paradosso: proprio per sensibilizzare i più giovani che frequentano le scuole (12-17 anni pare essere la fascia meno protetta), in questi giorni si sta proponendo di permettere ai ragazzi di accedere agli hub anche senza prenotazione. Quindi, i docenti che devono vaccinarsi (sempre che non vogliano fare un tampone ogni 3 giorni) devono pregare Dio, la Madonna e tutti i Santi per ottenere un appuntamento in tempo utile. Gli studenti per i quali non vige l’obbligo, acquisiscono tale diritto anche senza prenotazione. Loro che non rischiano una sanzione se non provvisti di #greenpass e che non hanno necessità di recarsi a scuola il 1. settembre.

Non appare strano che in questi giorni si siano levate le proteste non solo da parte dei sindacati (tutti contrari all’introduzione della certificazione) ma anche dei Dirigenti Scolastici. Infatti, qualora non facciano gli opportuni controlli, rispondono in prima persona e possono essere sanzionati con una multa fino a 1000 euro.

Nonostante l’Associazione nazionale presidi abbia fin da subito caldeggiato l’obbligo vaccinale per il personale (attenzione: obbligo non green pass), ora si assiste a una levata di scudi contro il decreto che fa gravare sui singoli istituti l’onere del controllo, più adatto ai funzionari di polizia che ai dirigenti scolastici. Senza contare che mancano i fondi per assumere personale deputato a tale incarico (il DS non esegue in prima persona il controllo ma delega… mi pare ovvio) e la richiesta è di almeno 8000 impiegati di segreteria in più negli istituti di ogni ordine e grado. In compenso, sono stati stanziati 358 milioni di € per coprire con le supplenze i posti “lasciati liberi” dal personale non in regola.

A proposito di supplenti, anche loro potranno prendere servizio solo se in possesso di certificato. Certamente quelli “storici” si saranno premuniti ma i più giovani, magari appena laureati che sperano di poter fare qualche mese di supplenza con la MAD, come faranno? Forse ci hanno già pensato perché frequentatori più assidui di bar e ristoranti, fra brunch e apericena.

Infine, last but not least, tutta questa storia del #greenpass obbligatorio a me pare sinceramente un elemento distrattivo rispetto a quelle che sono le reali esigenze per una scuola in presenza sicura e duratura. Dopo due anni di pandemia, ancora nulla si è fatto per eliminare le classi-pollaio, per aumentare gli spazi e ristrutturare tanti edifici scolastici italiani che si trovano ai limiti della fatiscenza, per aumentare gli organici (le assunzioni straordinarie del personale Covid, comunque insufficienti, sono destinate a coprire solo il periodo fino al 31 dicembre, con la fine presunta dello stato di emergenza), dotare le aule dei sistemi di ventilazione e purificazione dell’aria indispensabili per poter affrontare le stagioni più fredde. Sembra che gel, mascherine (ma solo quando il distanziamento non è possibile…) e finestre aperte per 10 minuti ogni ora siano tutto ciò che basta per avere un ambiente sanificato all’interno degli edifici scolastici. Perché tanto c’è la vaccinazione

Dice bene Mario Rusconi, responsabile dell’Anp per il Lazio: «Il Green Pass deve essere esteso a tutte le persone adulte che frequentano la scuola: genitori, fornitori, esperti, collaboratori.»

Abbiamo tempo fino al 6 ottobre per chiarirci le idee. Nel frattempo il Parlamento dovrà decidere quali correttivi introdurre al decreto prima della conversione in Legge. Ciò non toglie che il primo settembre è dietro l’angolo e sulla ripresa della scuola la confusione regna sovrana. Quest’anno, se possibile, ancora di più.

[fonti: Tecnica della scuola; Repubblica.it; huffingtonpost.it; le immagini presenti sono contrassegnate di libero utilizzo, Licenza Creative Commons]

PERCHÉ LA “LEZIONE” DI DANTE È ANCORA COSÌ ATTUALE?

In occasione della celebrazione del primo #Dantedì, una riflessione sull’attualità della “lezione” che Dante ci trasmette da più di 700 anni mi pare doverosa.

Il poema dantesco, capolavoro non solo dell’autore Dante Alighieri ma anche della letteratura italiana delle origini, croce e delizia per generazioni e generazioni di studenti liceali e no, costituisce ancor oggi un punto fermo per comprendere quanto quel mondo medievale etichettato da sempre come “oscuro” abbia invece trovato la luce proprio grazie alla Commedia (l’aggettivo “divina” affibbiato da Boccaccio e comparso per la prima volta nell’edizione a stampa cinquecentesca dell’opera, appare agli studiosi assai limitativo rispetto alla complessità dell’opera) che continua a insegnarci, in un certo senso, come l’uom s’etterna. Grazie agli insegnamenti di Brunetto Latini, che Dante incontra nell’Inferno tra i sodomiti, la lezione impartita all’auctor, della quale l’agens si fregia con malcelato orgoglio, travalica i secoli e ci ricorda che noi siamo oggi quello che il passato ci ha aiutato a diventare. La lettura del classici, infatti, ha un involontario intento didascalico a lungo termine che noi, uomini e donne del XXI secolo, abbiamo ancora l’obbligo di cogliere. E ciascuno di noi può lasciare un’orma più o meno vasta da tramandare ai posteri.

Come dobbiamo leggere oggi la Commedia?

Il poema dantesco, come tutti sanno, descrive il viaggio di un peccatore, perdutosi nella selva oscura, che va alla ricerca del Bene e per farlo deve compiere un percorso completo, tra i dannati, i penitenti e le anime beate, con lo scopo primario di comprendere l’origine del Male per non commetterlo più e salvare la propria anima.

Al di là del contesto storico (nel Medioevo la vita terrena era considerata un banco di prova per conquistarsi un posto nell’oltretomba con tanto di premi o punizioni dettati dai comportamenti assunti in vita) e della specifica esperienza di Dante agens, mi chiedo: quante volte noi, uomini e donne moderni, ci sentiamo intrappolati nella selva oscura, smarriti e incapaci di trovare la via d’uscita – un po’ come succede nella casa degli specchi dei luna park – e soprattutto, indifesi, imploriamo l’arrivo di un Virgilio che ci soccorra per non perderci del tutto?

Mai come in questo tempo oscuro di pandemia sentiamo la necessità di una guida sicura, di coesione, solidarietà (come insegna anche Leopardi con l’esempio della ginestra… altro classico che ancora ci parla, basta ascoltarlo), invochiamo una comunione d’intenti che non in una città partita, come la Firenze di Dante, ma in uno Stato incapace di rappresentare l’ancora di salvezza di cui abbiamo bisogno è un obiettivo difficile da raggiungere.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donne di province, ma bordello! (Purgatorio, VI, vv. 76-78)

Quante volte, negli ultimi tempi, sono stati rispolverati questi versi danteschi per descrivere la situazione attuale? Che cosa diversifica il poeta fiorentino da noi?

Dante amava la sua città ma anche la politica. Ne coglieva il senso genuino, quello che etimologicamente rimanda alla polis greca, la città-stato, e ai polìtai, i cittadini. Fare politica, ai tempi dell’antica Grecia, era sinonimo di operare per il bene della comunità, pur con tutti i limiti di una democrazia non perfetta che conosciamo.

Dante soffriva per la situazione in cui versava l’Italia, anche se in fondo al suo cuore gli interessava che la pace fosse riportata a Firenze. Certo, la sua posizione di Guelfo bianco contrastava con quella degli avversari, i Neri. In politica è sempre stato così: ognuno vuol aver ragione e si è poco disposti a dar ragione agli altri, anche quando c’è di mezzo il bene comune.

Negli ultimi tempi, affrontando la pandemia, abbiamo compreso quanto questa unità di intenti sia difficile a livello politico. Eppure il bene comune è di fronte agli occhi di tutti: uscire al più presto dal pericolo costante del Covid19 che continua a fare strage. Il numero dei morti ormai non fa più paura: è come se ci fossimo abituati a guardare da lontano, arroccandoci nelle nostre certezze, qualcosa che non ci riguarda. Almeno finché la potenza del virus non bussi alla nostra porta ed entri nelle nostre case senza alcun invito. La nostra è una battaglia diversa da quella combattuta da Dante, feditore a cavallo, a Campladino. Non abbiamo lance da scagliare per aggredire o difenderci, se non la fiducia cieca nella scienza che, tuttavia, ci disorienta con le continue e diverse prese di posizione. Anche l’Alighieri, dopo la battaglia di Lastrassigna, nel 1304, in cui i Bianchi subiscono la sconfitta definitiva, deluso decide di separarsi dai suoi compagni e di far parte per se stesso. Così anche noi ci troviamo senza guida, delusi e impotenti nell’affrontare il nemico invisibile.

Per tutta la vita, l’Alighieri rincorre un ideale: quello dell’impero universale. Confidava nell’opera dell’imperatore Arrigo VII che avrebbe potuto ripristinare la pace a Firenze, ma non fu in grado di compiere la missione che Dante gli attribuiva poiché morì a Buonconvento presso Siena nel 1313.

Ancora nel VI canto del Purgatorio, non a caso un canto politico come tutti i sesti canti della Commedia, l’autore si scaglia contro l’impero che, decentrando gli interessi nella parte continentale, aveva lasciato l’Italia in balia di se stessa. In particolare se la prende con Alberto d’Asburgo:

O Alberto tedesco ch’abbandoni 
costei ch’è fatta indomita e selvaggia, 
e dovresti inforcar li suoi arcioni, 
                               99

Costei ch’è fatta indomita e selvaggia è la bestia indomabile in cui si è trasformata l’Italia ormai negletta, mentre dovrebbe essere lui a domarla. Ma non c’è alcuna speranza che tale situazione si risollevi in quanto la colpa primaria è da attribuire al contrasto tra impero e papato, che come ben sappiamo caratterizza tutto il Medioevo, soprattutto a causa dell’ingerenza del Papa negli affari politici. Dante lo sa bene dal momento che, quand’era priore inviato a Roma come ambasciatore, fu trattenuto da Bonifacio VIII che, nel frattempo, portò a compimento il disegno di riportare i Guelfi neri al potere nella città di Dante, grazie all’intervento di Carlo di Valois. Da quel dì il poeta, colpito dal bando d’esilio successivamente tramutato in condanna a morte, non fece più ritorno nella città natale.

Mi chiedo: l’Italia non è forse tuttora ostaggio della politica comunitaria? Quando sentiamo parlare di MES o Recovery Fund non ci sembrano una spada di Damocle che dobbiamo sopportare sulle nostre teste, senza che ci sia una guida politica sicura, nel nostro Paese e al di fuori dei confini nazionali, che operi per il bene della comunità tutta? Certamente la UE non è l’impero ma, senza polemica e in modo apolitico, possiamo dire che al posto dell’Alberto tedesco abbiamo l’Angela tedesca?

Nel III trattato della Monarchia Dante riprende la “teoria dei due soli” per sottolineare l’importanza che l’Impero e il Papato non dovessero essere antagonisti ma accompagnare gli uomini come due guide necessarie alla pace e alla felicità: non doveva il Papa arrogarsi il diritto di avere il potere temporale oltreché quello spirituale ma doveva mettersi al servizio del suo popolo, accompagnare il cammino degli esseri umani sulla terra come guida spirituale. Da parte sua, il Principe Romano [l’imperatore] deve tendere con tutte le sue forze a questo scopo, cioè a far sì che in questa aiuola umana si possa vivere nella libertà e nella pace

E in questa aiuola umana, che ci appare sempre più spoglia specialmente di valori e buone azioni comuni, non abbiamo forse bisogno di due guide? Al di là della Fede, che non siamo obbligati ad avere, non è forse utile anche ascoltare le parole del Pontefice il quale, stando all’etimologia del termine, cerca di “costruire ponti” e abbattere muri e confini? Nessuno è obbligato, s’intende, a condividere quanto il Papa, per dovere, esprime a livello dottrinale, ma stando anche alle parole di Francesco, “Nessuno si salva da solo”, forse qualche insegnamento laico potremmo anche ottenerlo. E proprio oggi, Papa Bergoglio riconosce nella figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, quella di chi può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. (LINK)

Non dimentichiamo che l’ostilità del nostro autore nei confronti di Bonifacio VIII (e indirettamente anche verso Celestino V, colui che fece per viltade il gran rifiuto [cfr. Inferno, III, v. 60] perché aveva reso possibile l’elezione del papa nemico) è anche una questione politica. Tant’è che l’Alighieri fu costretto all’esilio.

Siamo anche noi un po’ esuli, allo sbando, quando diventiamo oggetto di derisione, quando non troviamo comprensione in chi ci dovrebbe ascoltare e invece si gira dall’altra parte, quando ci sentiamo diversi e incapaci di tramettere al prossimo non solo la possibilità di trovare un elemento di unione ma anche di far capire quanto le peculiarità di ciascuno possano diventare ricchezza da condividere. E siamo esuli ogni volta che sentiamo stretti i confini del nostro bel Paese (per dirla con Dante) e ci allontaniamo forse con la speranza di tornare ma anche con la consapevolezza di cercar fortuna in altri luoghi, su altre spiagge, un po’ come anime del purgatorio che attendono l’angelo nocchiero sulle rive del Tevere. Perché a volte lasciare le proprie cose e sperimentare come sa di sale lo pane altrui sembra quasi una penitenza da scontare per poter vedere, grazie agli sforzi del nostro ingegno e sopportando le privazioni affettive, finalmente riconosciuto il nostro valore.

Potrei portare ancora numerosi esempi e so che quanto detto può non essere condiviso da tutti. Mi fermo qui perché la “lezione” più grande e magnifica che Dante, dopo sette secoli, ci trasmette ancora è l’amore per la conoscenza. Ognuno tragga il proprio insegnamento dalle cose che sa. Perché la conoscenza è la luce che rischiara il mondo che abbiamo davanti, grazie anche al contributo delle menti illuminate che ci hanno preceduto.

DAD O NON DAD? QUESTO È IL PROBLEMA


Il dubbio amletico è legittimo. Lo scorso marzo, quando ci siamo trovati tutti, noi docenti e gli studenti, catapultati in una realtà sconosciuta, eravamo molto scettici, oltre al fatto che il Covid-19 rappresentava un nemico sconosciuto e ciò ci spaventava proprio per l’impossibilità di trovare in breve una cura che avrebbe potuto ridurre il numero delle vittime.

Dopo tanti mesi e varie vicissitudini, conosciamo meglio sia la Dad sia il Coronavirus -specialmente la sua pericolosità – e sappiamo bene che la scuola in presenza rappresenta un pericolo che, fin dall’inizio dell’anno scolastico, è stato sottovalutato.

Le scuole sono sicure, ci avevano detto. I ragazzi sono supercontrollati, le regole da rispettare sono rigide, i docenti ormai trasformati in gendarmi austriaci stanno molto attenti a farle rispettare. Certamente, ma le aule, con il distanziamento farsa delle “rime buccali”, sono davvero sicure? E fuori da quelle quattro mura iperprotette si può dire che le regole siano rispettate in modo così rigido e controllato? E sui mezzi di trasporto che ogni giorno muovono masse di studenti, dai piccoli centri e dalle periferie alla città, davvero la distanza di sicurezza è rispettata, con la capienza dei mezzi all’80%?. Questi sono tutti i dubbi legittimi.

Era il 4 novembre, l’ultimo giorno di lezione in presenza, quando arrivò il verdetto: troppi rischi, almeno gli studenti delle scuole superiori, quelli che maggiormente si muovono sui mezzi pubblici, devono stare a casa. Didattica a distanza al 100%, dopo poco più di un mese di ripresa in presenza.

E’ chiaro che siamo di fronte al fallimento di una ripresa sicura che non era affatto sicura, di una presa di posizione rigida del ministro Lucia Azzolina che a gran voce per tutta l’estate ha ripetuto che la scuola deve riaprire. Già questo la dice lunga sul fatto che se un ministro della Repubblica si esprime in questi termini, quando MAI le scuole sono state chiuse, il minimo che ci possiamo aspettare è il fallimento.

Fallimento per chi? Certamente non per la scuola che ha portato avanti, grazie all’impegno dei docenti e degli studenti (mi riferisco sempre alle scuole superiori), l’istruzione e l’educazione dei ragazzi e delle ragazze, senza risparmiarsi e mettendo in campo un patrimonio di conoscenze accumulato durante il lockdown della primavera scorsa. Perché, sapete, la Didattica a distanza non è facile, soprattutto non semplice è trovare il modus operandi che permetta ad essa di essere veramente efficace.

Ora, però, il problema si ripresenta. Tornare in aula, dopo le vacanze di Natale con il 75% delle presenze in istituto, è decisamente un azzardo. Anche perché, a quanto ci è dato sapere, i mezzi pubblici potranno trasportare il 50% dei passeggeri. I conti non tornano. Allora bisogna trovare un modo per potenziare i trasporti, aumentare il numero di corse e mettere su strada altri mezzi, anche stipulando convenzioni con i privati attualmente fermi data la sospensione dei viaggi di istruzione (le gite, come tutti dicono). E invece no, meglio prevedere ingressi scaglionati (dalle 8 alle 10, ho letto) costringendo gli studenti alla permanenza a scuola fino al pomeriggio inoltrato con il rischio di non avere i mezzi per tornare a casa e dover attendere la corsa serale, magari fino alle 19. Perché non pare che ci sia un’apertura delle aziende dei trasporti in questo senso. Certo, il MI, con la solita tattica dello scaricabarile, ha demandato ai Prefetti l’onere di sbrogliare la matassa. Poi non si sa se questi poveretti ne verranno a capo, specialmente nelle grandi città.

Il problema dell’aerazione delle aule, assente fino alla fine di ottobre grazie alla temperatura mite che permetteva l’apertura delle finestre quasi per tutta la mattinata, si presenterà, eccome. Il fatto che le aule siano piene, visto che con il metro di distanza tra le “rime buccali” è possibile contenere in esse 25-26 allievi, pur obbligando gli studenti a indossare sempre la mascherina, costituisce un rischio non indifferente per la trasmissione del contagio. Gli esperti sono ormai concordi su questo. Senza un sistema di depurazione dell’aria questo rischio non potrà essere, se non annullato, nemmeno arginato.

Che dire, infine, del sistema dei tracciamenti, andato definitivamente in tilt prima dell’istituzione della DAD, e la difficoltà di somministrare in breve tempo i test? Siamo sicuri che entro il 7 gennaio si sarà fatto qualcosa per superare tale ostacolo? Beato chi ne è convinto, io non lo sono per nulla. Si dovrebbe quantomeno reintrodurre la figura del medico scolastico, presente almeno un paio d’ore al giorno in ogni scuola, per tenere sotto controllo la situazione sanitaria e somministrare i test. Pensate che il governo sia disposto a stanziare dei fondi ad hoc? Anche a tale riguardo non ho grandi certezze.

Detto ciò, chi ancora protesta contro la Dad e ritiene che non sia “scuola vera” – e su questo per certi versi concordo, le differenze ci sono -, sostenendo che gli studenti perdono solo tempo e si intristiscono perché relegati per molte ore al giorno davanti al pc e confinati entro le quattro mura domestiche, non ha capito che tenere lontani dall’aula gli allievi è un’esigenza sanitaria non un divertimento degli insegnanti che, al contrario, ritengono la Dad l’unico modo per tutelare loro e le loro famiglie. Perché ogni studente a casa ha dei genitori più o meno 50enni, non immuni per età come abbiamo visto, e si relaziona con i nonni 70enni, evidentemente soggetti a rischio. Infatti, la diffusione dei contagi nelle scuole è più pericolosa per le relazioni parentali che per gli studenti i quali spesso sono asintomatici e per questo più pericolosi, semplicemente perché non sanno di essere contagiati dal Covid-19.

Un’altra differenza tra la scorsa primavera e oggi riguarda l’obbligo della Dad che lo scorso a.s. è arrivato solo ad aprile mentre per quest’anno è stata prevista fin dall’estate scorsa (Decreto Ministeriale 7 agosto 2020, allegato A). Anzi, il ministro Azzolina si è inventata la DDI (Didattica digitale integrata), stabilendo che, nell’impossibilità di fare lezione in presenza si attivasse in automatico la Didattica a Distanza, in caso di sospensione delle lezioni in aula al 100%, o la DDI che prevede una quota del monte ore in presenza e una quota a distanza o in alternativa che una parte degli studenti segua le lezioni in aula e la restante da remoto con collegamento in videoconferenza.

Pare davvero strano che la scorsa settimana il ministro abbia ipotizzato un prolungamento dell’a.s. fino a tutto giugno o addirittura a luglio per compensare il “tempo perso”. Questa proposta è in piena contraddizione con il suo stesso decreto: non c’è nessun tempo perso dal momento che la Dad continua, certamente con varie modalità a seconda delle scuole, ed è un obbligo per docenti e studenti. Si può senz’altro ammettere che in alcune scuole funzioni e in altre no oppure sia meno efficace, ma la DDI è stata istituita e normata, attraverso l’integrazione del CCNL, proprio per costringere tutti a lavorare, per permettere che la scuola non si fermi, che i programmi vadano avanti e che si possa valutare la preparazione degli studenti e l’acquisizione delle loro competenze nelle diverse discipline. La Dad, inoltre, permette di valutare anche le competenze chiave europee (anch’esse obbligatorie nell’ambito della formazione degli studenti), comprese quelle digitali.

Eppure c’è qualcuno che, ignorando tutto questo, continua a dire a gran voce che bisogna “riaprire le scuole”, come se il nostro compito si fosse interrotto da marzo a giugno e nuovamente dai primi di novembre ad oggi. Nossignori, la scuola non è mai stata chiusa, nemmeno per i laboratori, che si svolgono in presenza, né per gli studenti fragili (i cosiddetti BES) né per chi non ha dispositivi (che sono stati comunque dati in comodato d’uso grazie ai finanziamenti ad hoc elargiti dal MI) o chi abita in zone non coperte da connessione efficace (DPCM 3 novembre 2020, art. 1, art. 9 s). Nessuno è stato lasciato indietro, almeno ciò non dovrebbe succedere. Se veramente la Dad è ancora off limit per qualcuno, non è certo colpa degli insegnanti perché la responsabilità è tutta delle scuole che, a mio parere, dovrebbero essere tenute sotto controllo dallo stesso ministero.

Quindi, cari signori e signore, non sono gli insegnanti a voler continuare la Dad perché più comoda. Più comoda perché siamo a casa? Non credo. Perché lavoriamo di meno? No, anzi, si lavora molto di più, stando incollati davanti al monitor anche per 12 ore al giorno (a volte di più), sabato e domenica compresi, con tutte le problematiche a livello fisico che ne conseguono. Correggiamo i compiti assegnati uno per uno, in un certo senso individualizzando la didattica cosa che non sempre è possibile fare nella scuola in presenza. Un indubbio vantaggio per gli studenti.

Certo, non mi illudo che tutti i docenti lavorino così ma ricordiamoci che chi fa poco lo fa sia in Dad sia in presenza. Ugualmente non si può ignorare il fatto che tra gli stessi studenti troveremo sempre chi si impegna a prescindere e chi non lo fa nemmeno se inchiodato al banco. Questi problemi con l’emergenza sanitaria non hanno nulla a che fare.

Se a marzo tutti eravamo consapevoli che la scuola in presenza sia tutt’altra cosa, appellandoci alla mancanza di contatti sociali, di emozioni difficili da trasmettere attraverso un monitor, ora chi si appella a tutto ciò che comunque non nego, fa sola retorica, dimenticando che là fuori c’è un virus su cui ancora si sa poco, per il quale non è stata trovata una cura, in attesa di un vaccino che non sarà disponibile per tutti, almeno nell’immediato.

Quindi, facciamo meno retorica e cerchiamo di far funzionare al meglio una didattica che, seppur nuova, ci ha permesso di sperimentare al fine di ottenere per gli studenti una preparazione adeguata agli obiettivi. Costa fatica, certo, ma è l’unico strumento che abbiamo per far sì che la scuola vada avanti e che il diritto allo studio sia garantito. Non illudiamoci che con il 7 gennaio la Dad diventi un lontano (o vicino) ricordo. Non sarà così, purtroppo.

[immagine da questo sito]

DISTANZE RAVVICINATE (BUCCACCIA MIA, STATTI ZITTA)

Da settimane, negli edifici scolastici si è fatto grande uso del metro per misurare le aule a disposizione e capire quanti allievi, nelle classi sempre troppo numerose, possano contenere. Tutti gli altri, gli esclusi, a casa. Logicamente con la necessaria turnazione, tranne casi particolari: BES (allievi con bisogni educativi speciali) e quelli sfortunati che magari abitano in paradisi terrestri, ma non hanno una connessione stabile.

Un metro tra banco e banco, si era detto. Erano anche state diffuse piantine con simulazioni adattabili ai vari contesti. In una di queste la cattedra stava al posto del portaombrelli (secondo la posizione che l’oggetto ha nelle aule del mio liceo) ma, vabbé, ci si adatta. Negli anni docenti e studenti hanno sviluppato uno spirito di adattamento unico, credetemi.

Poi arriva la fine di giugno, le vacanze (o meglio ferie) bussano alla porta, in ogni scuola è pronto un piano, più di uno per i fortunati dal “multiforme ingegno” tanto da fare invidia ad Odisseo, e una prospettiva di rientrare a settembre si fa strada tra la nebbia dell’incertezza che ha caratterizzato il nostro tempo da marzo in poi. Pur con disagi che richiedono pazienza infinita, intendiamoci.

Con la tempestività che da qualche anno caratterizza gli inquilini di viale Trastevere, arriva una buona notizia : la distanza di sicurezza non è più di un metro tra banco e banco ma tra le “rime buccali”.

OK, va tutto bene. Poteva andare peggio.

I più si saranno chiesti cosa caspita siano queste “rime buccali”. Insomma, la scolarità avanzata del popolo italiano ha fatto transitare chiunque, per tempi più o meno lunghi, nelle aule scolastiche. Un banco è un banco, lo sanno tutti. Ma ‘ste “rime buccali”?

Credo sia stata l’espressione più cercata su Google negli ultimi giorni.

Che “bucca” abbia qualche nesso etimologico con “bocca” si può facilmente immaginare. E le “rime”? Gli studenti forse conoscono le rime baciate che, in qualche modo, “si baciano” quindi hanno un contatto come le labbra in un bacio: i versi a rima baciata, infatti, sono quelli in cui un verso della composizione è in rima con quello immediatamente successivo.

In poesia la parola “rima” indica, semplificando al massimo, l’identità di suono. Le “rime buccali, tuttavia, non c’entrano nulla con i versi poetici anche se l’espressione è in stretta relazione con la bocca. Nel linguaggio anatomico “rima” indica “una fessura lineare tra due parti omologhe adiacenti”. Se accompagniamo questo termine con l’aggettivo “buccale”, ecco svelato l’arcano: le rime buccali sono in realtà, molto semplicemente, le labbra.

Non vorrei trasformare questo post in una lezione di storia della lingua, però non posso esimermi dal fare un’ultima puntualizzazione.

In latino la parola colta per “bocca” era os, oris, termine che in italiano ha dato vita ad altre parole che sono facilmente collegabili con la “bocca”. Pensiamo all’esame orale, contrapposto allo scritto, all’aggettivo orosolubile, cavo orale

Bucca esisteva in latino ma indicava in modo più preciso la “guancia”. Poi, con la diffusione del latino volgare, cioè l’idioma usato dal popolo (vulgus), bucca sostituisce la parola colta os, oris, non solo nell’italiano ma nella maggior parte delle lingue romanze (o neolatine): basti pensare al francese bouche o allo spagnolo boca.

Ora, tornando alle “rime buccali” e alle disposizioni del Ministero dell’Istruzione, avrei ancora tanto da dire ma sicuramente non userei parole colte. Quindi, per non essere volgare, taccio. Anzi, ispirandomi a un personaggio simpatico che i giovani non conoscono ma i più attempati come me ricorderanno bene, il pupazzo tanto simpatico quanto impertinente Provolino, cui diede vita qualche decennio fa Raffaele Pisu, mi limiterò a dire:

BUCCACCIA MIA STATTI ZITTA!

Segnalo questo articolo molto interessante: Rime buccali e altra terminologia per la scuola

RIPRESA SCUOLA A SETTEMBRE: LE LINEE GUIDA DELLA DISCORDIA

Il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina è riuscita in un’impresa mai tentata prima: scontentare tutti. Regioni, Dirigenti Scolastici, docenti, famiglie, studenti: tutti contro le linee guida proposte per la ripresa delle lezioni a settembre.

Lo scontento generale è da record mondiale: mai prima d’ora un’impresa tanto eroica era stata raggiunta. Nemmeno l’ex ministro Mariastella Gelmini credo fosse arrivata a tanto.

Senza contare che è riuscita anche ad aggiudicarsi un altro record mondiale: la tempestività con la quale, nell’incertezza generale sulla ripresa delle lezioni a settembre, nelle scuole di ogni ordine e grado, ha imposto come obbligatoria e soggetta a valutazione una nuova, si fa per dire, materia: l’Educazione civica.

Ora, non voglio dilungarmi su quest’ultimo argomento, dirò solo che Cittadinanza e Costituzione è entrata nelle scuole italiane nel lontano 2008 e costituisce materia d’esame per i candidati che affrontano l’ESC (Esame di Stato Conclusivo, l’ex “maturità” per intenderci). Quindi, pur non essendo una disciplina a parte, l’ed. civica già si fa da più di un decennio, con uno sforzo collettivo dei docenti all’interno dei Consigli di Classe.

Tornando alla ripresa delle lezioni a settembre, se nessuno condivide le linee guida che si fa? Siamo quasi alla fine di giugno, dal 1. luglio inizia il periodo di ferie che si concluderà, almeno teoricamente (considerando che ciascuno può scegliere nell’arco dei due mesi estivi il periodo che gli spetta) alla fine di agosto. Stando all’O.M. 11 del 16 maggio 2020 dal 1. settembre dovrebbero iniziare i recuperi per i PAI e i PiA (i due acronimi che probabilmente sostituiranno i tormentoni estivi nelle menti di tutti i docenti italiani, o quasi). L’uso del condizionale è d’obbligo perché nemmeno su questo ci sono certezze. L’interpretazione è varia, aspettiamo una circolare di chiarimenti. Abbia pazienza, signora ministro, i dirigenti e i docenti sono un po’ lenti di comprendonio… o magari, se ogni volta deve chiarire qualcosa, forse è Lei (o i Suoi collaboratori) che non si sa spiegare.

Nelle ultime ore, tuttavia, si è diffusa una notizia confortante (almeno teoricamente, poi passare alla pratica è assai più difficile): il MI si è dichiarato disposto a redigere delle nuove linee guida venendo incontro in parte alle richieste fatte a gran voce da tutte le componenti scolastiche e dalla Regioni.

Vediamo di cosa si tratta.

Il Ministro ha chiesto più risorse per il personale, quindi gli organici saranno rimpinguati con l’assunzione di più docenti e personale ATA. Va da sé che, se l’intento è, come pare, di far riprendere le lezioni totalmente in presenza ma se il CTS insiste sull’obbligo del distanziamento, dovremmo avere il doppio dei docenti e il doppio delle aule. Cosa concretamente impossibile.

Per quanto riguarda le assunzioni straordinarie, si tratta di personale a tempo determinato il cui numero verrà valutato in seguito a un monitoraggio che evidenzi le singole criticità per assegnare “ove necessario, ulteriori incrementi di organico, aggiuntivi, di personale scolastico per le istituzioni scolastiche”. Quindi, nessun aumento strutturale dell’organico, un piano di emergenza un po’ come quello messo in atto negli ospedali qualche mese fa per venire incontro alla carenza di personale e far fronte all’emergenza Covid19.

La novità dell’ultime ore è che nelle aule il distanziamento non sarà di un metro tra banco e banco ma tra le «rime buccali», cioè tra le teste dei ragazzi. Un po’ di spazio in questo modo si guadagna tuttavia è chiaro che le aule non potranno comunque essere interamente occupate da classi di 28-30 allievi.

Per facilitare la logistica il MI ha predisposto un «cruscotto informatico», cioè un software sul quale è possibile fare le simulazioni del layout delle classi e capire quali sono quelle che si possono usare e quelle inutilizzabili.

La Didattica a Distanza non scomparirà del tutto ma potrà interessare soltanto gli istituti superiori. La DAD potrà essere utilizzata solo “in via complementare” alla didattica in presenza ma potrà tornare ad essere usata nel caso peggiori la situazione sanitaria e si debbano sospendere le lezioni in presenza.

In barba all’autonomia delle Regioni che avevano giù predisposto i calendari per l’a.s. 2020/21, con inizio delle lezioni differenziato, il MI ha stabilito che la scuola ripartirà per tutti il 14 settembre.

Rimane a carico di ogni istituzione scolastica l’organizzazione seguendo le linee guida:

– riconfigurare il gruppo classe in più gruppi di apprendimento;
– articolare gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso;
– organizzare una frequenza scolastica in turni differenziati, anche variando l’applicazione delle soluzioni in relazione alle fasce di età degli alunni e degli studenti nei diversi gradi scolastici;
– per la secondaria di II grado, permettere una fruizione per gli studenti, opportunamente pianificata, di attività didattica in presenza e didattica digitale integrata, ove le opportunità tecnologiche, l’età e le competenze degli studenti lo consentano;
– aggregare le discipline in aree e ambiti disciplinari, ove non già previsto;
– estendere il tempo scuola settimanale anche al sabato.

Queste in sintesi le proposte ma qualche Presidente di Regione ha già annunciato che non firmerà.

Cosa ci aspetterà dunque tra poco più di due mesi?

Ancora non è chiaro e citando il libro del maestro Marcello D’Orta, noi speriamo che ce la caviamo.

#COVID19: COME AVVERRÀ LA RIAPERTURA DELLE SCUOLE A SETTEMBRE?


Se dovessi rispondere in modo onesto alla domanda posta dal titolo potrei dire: non lo sappiamo. E potrei chiudere qui il post, il più breve nella storia di questo blog.

Visto che da settimane leggo proteste provenienti da ogni dove (genitori e no) riguardo al fatto che sono riprese varie attività (bar, ristoranti, spiagge, palestre… oltre a tutte le attività commerciali) ma la scuola è rimasta chiusa, inesorabilmente fino al termine previsto dai calendari regionali, sento l’esigenza di chiarire alcuni fatti, anche di natura legale, che non permettono di equiparare la scuola, pubblica o privata che sia, a qualsiasi attività economica.

La scuola non interessa nessuno, tanto non produce nulla in termini economici.

Questa è la prima affermazione cui vorrei controbattere. La scuola, in realtà, produce qualcosa che non può essere monetizzato: la cultura, l’istruzione, l’educazione di bambini e ragazzi su cui l’istituzione ha delle grosse responsabilità. Spero siano passati i tempi in cui quel politico che non voglio nemmeno nominare disse che con la cultura non si mangia. Certo, se la consideriamo in senso stretto è vero, ma la cultura permette a chiunque di potersi preparare e formare per il mestiere o la professione che da adulto svolgerà. La scuola non è un fast food, un mangia e fuggi, ha bisogno dei suoi tempi. La scuola e l’università sono luoghi in cui si semina e si raccoglie, ma soprattutto luoghi in cui si prepara quel buon raccolto per cui ciascuno, con impegno e dedizione, ha lavorato.
Quindi, se la scuola è rimasta chiusa non è perché non produce o perché a nessuno interessa il suo buon funzionamento. La sospensione delle attività didattiche in presenza (questo è il modo corretto di interpretare la “chiusura delle scuole” di ogni ordine e grado a causa del Coronavirus) è stata una decisione dolorosa ma quanto mai necessaria. La tutela della salute degli studenti e di tutto il personale scolastico è un dovere, sancito dalla Costituzione. L’articolo 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Cos’è la scuola se non una collettività?

Sì, ma la Costituzione deve garantire anche il diritto allo studio.

Vero, tant’è che, sebbene la DAD sia partita in sordina, grazie alla buona volontà di migliaia di scuole che si sono subito attivate soprattutto per non perdere il contatto con gli studenti, per non lasciarli soli e per non dare l’idea che la sospensione delle lezioni potesse essere considerata vacanza, poi con il D.P.C.M. del 4 marzo 2020 è diventata attività obbligatoria. Scelta discutibile, è vero, considerando che non c’era stata la dovuta formazione dei docenti, la DAD non è prevista dal CCNL, non era accessibile a tutti (sto parlando anche dei docenti che non sono obbligati per contratto ad avere pc, webcam, connessione efficiente a casa propria), senza parlare dei problemi di privacy che il Garante ha pensato di liquidare al più presto con l’obbligo da parte delle famiglie di firmare la liberatoria.
Tutto ciò deve far pensare che la scuola non si è mai fermata. Ciò è confermato dal fatto che l’O.M. 11 del 16 maggio 2020 chiarisce che le attività svolte in DAD dovevano essere regolarmente valutate, pur con l’obbligo di promuovere tutti gli studenti. Cos’altro sarebbe stato possibile fare? Annullare un anno scolastico, danneggiando chi si è sempre impegnato e ha continuato a farlo con senso di responsabilità? Se davvero si fosse optato per l’annullamento dell’a.s. 2019/20, allora si sarebbe violato l’articolo 34 della Costituzione che garantisce il diritto allo studio.

Il Covid19 ormai non è più un problema, a settembre si può tornare in classe anche senza rispettare distanziamento e protocolli di sicurezza.

Questa è un’affermazione sbagliata e quantomai arrogante. Gli italiani, sempre pronti a esprimersi sul campionato di calcio, criticando le scelte di allenatori e arbitri, all’improvviso sono diventati esperti virologi.
Anche se i contagi sono in diminuzione, le terapie intensive fortunatamente si stanno svuotando e, nonostante la ripresa di molte attività, non si è vista una nuova esplosione come ventilato dagli stessi esperti, il virus c’è e non sappiamo quale potrà essere l’evoluzione nei prossimi mesi. Ciò non significa che dobbiamo vivere nel terrore, ci mancherebbe. Ma sottovalutare un nemico invisibile come il Covid19 è da irresponsabili.
Nel mondo la pandemia non si è affatto fermata (vedi Brasile, in generale l’America Latina, l’India, il recente nuovo focolaio in Germania) e, anche se certi esperti (purtroppo sono in grande disaccordo quindi non si sa davvero a chi credere) affermano che il virus si sia attenuato per motivi climatici, come l’innalzamento delle temperature, non sappiamo cosa succederà in autunno. Riaprire le scuole senza restrizioni, cosa comunque sconsigliata dallo stesso CTS, potrebbe portare, entro qualche settimana, a una nuova chiusura che metterebbe in seria difficoltà non solo la scuola stessa (la DAD, tanto vituperata, dovrebbe essere nuovamente ripresa) ma anche le famiglie che, di punto in bianco, si troverebbero nuovamente in emergenza con i figli a casa. E si sa, la scuola fa comodo come babysitting…

Oltre a ciò, non si può sottovalutare la responsabilità dei Dirigenti Scolastici che devono garantire la tutela della salute del personale docente e non docente e, soprattutto, degli studenti, valutando i rischi e mettendo in atto adeguate misure di protezione per evitare la diffusione del Coronavirus nelle classi. Quindi, la questione ha un carattere legale affatto trascurabile.

Hanno riaperto bar, ristoranti, palestre, teatri, cinema… solo la scuola non riapre.

Ed eccoci all’obiezione che personalmente odio di più. In primo luogo, perché sembra che siano i docenti a non voler riprendere le lezioni regolari. Non c’è nulla di più falso, anche perché la DAD è costata talmente tanta fatica che tutti noi vorremmo ritornare in aula, davanti ai nostri 26-28-30 allievi, se non di più, e abbandonare le lezioni a distanza che ci hanno visti impegnati per tre mesi davanti al pc, a volte 12 ore al giorno, 7 giorni su 7.
In secondo luogo perché chi si esprime in quei termini, non capisce che la scuola è un servizio che viene offerto ai cittadini e comprende ben 10 anni di frequenza obbligatoria. Quindi, è un servizio che lo Stato deve garantire come diritto allo studio e nello stesso tempo è un dovere per i bambini e i ragazzi fino al compimento del 16° anno di età.
Non mi risulta che bar, ristoranti, palestre, teatri e cinema, solo per fare alcuni esempi, prestino un servizio statale per di più obbligatorio nei confronti di minorenni. Insomma, se uno vuole farsi un aperitivo, mangiare una pizza, tenersi in forma, godersi uno spettacolo teatrale o cinematografico può farlo come libera scelta, nessuno lo obbliga. La scuola, invece, è obbligatoria.
Non solo, nei bar, ristoranti ecc. non si entra in massa, tutti nello stesso momento, tant’è vero che in quasi tutti i casi (forse ad esclusione dei bar) è necessaria una prenotazione, proprio per evitare la folla di persone che si riversa in quei luoghi nello stesso momento.
A scuola, quando suona la campanella, di solito la lezione inizia per tutti e ci sono scuole che hanno più di 1000 iscritti, qualcuna anche più di 2000. Chi obietta mi deve spiegare come si può far entrare in sicurezza una tale massa di persone, senza creare assembramenti.
Mettiamo pure che si risolva il problema con l’entrata scaglionata (che già di per sé comporta una dilatazione dell’orario scolastico con classi che iniziano e finiscono la mattinata in orari diversi, con ripercussioni evidenti anche sull’orario dei docenti), una volta che 28-30 allievi fanno ingresso in aula, come si fa a garantire il distanziamento previsto dai protocolli del CTS?

Mascherine no, plexiglas no, metà classe no… tutti questi no, che paiono alquanto imperativi, non sono accettabili.

Partendo dalla considerazione che le classi intere non possono fare ingresso a scuola come se nulla fosse successo, dividere le classi a metà appare la soluzione più logica. Non servirebbero né mascherine né divisori in plexiglas, basterebbe la distanza giusta a prevenire i contagi. Naturalmente con tutta una serie di precauzioni: consumare la merenda al banco perché la “libera circolazione” degli studenti nelle aree comuni imporrebbe l’uso della mascherina (come avviene nei luoghi chiusi anche adesso) e mangiare con addosso la mascherina sarebbe impresa ardua, la sanificazione dei servizi ogni volta che vengono usati, l’obbligo di arieggiare spesso le aule (come la mettiamo con finestre che spesso stanno su per miracolo?), di passare l’igienizzante su cattedra, sedia, pc di classe, cancellino… ogni volta che un docente finisce la lezione, oltre al fatto che evidentemente le entrate e le uscite debbano essere scaglionate. Tutto ciò comporterebbe un aumento di personale ausiliario che pare il MI abbia già previsto. Fortunatamente, aggiungo, visto che in un primo tempo sembrava che la pulizia fosse un atto dovuto per ciascun docente.

Metà classe significa il doppio dei docenti? Nossignori, di assumere personale docente, se non per il turn over, non se ne parla.

A parte il fatto che se io ho seguito per 4 anni un gruppo classe, non mi andrebbe di lasciarne metà nelle mani di un altro insegnante, né credo che ciò farebbe piacere ai ragazzi. Che faccio? Li scelgo uno ad uno, mi prendo i migliori? Oppure i più deboli che hanno bisogno di una guida sicura, da parte di chi li conosce già da tempo? Non è difficile capire che la soluzione non sarebbe ideale.

Metà classe significa che ci daranno il doppio delle aule?

Su questo vorrei glissare perché mi viene da ridere. I Dirigenti Scolastici da tempo invocano più spazi, proprio in previsione di un ritorno in aula non regolare. Purtroppo, però, lo Stato non può intervenire direttamente e delega Comuni, UTI, enti locali dai quali provengono, almeno per quanto ne sappia, le proposte più variegate e stravaganti. Potete andare a fare lezione in qualche teatro, cinema, stadio, padiglione della Fiera… Ora, non voglio sembrare schizzinosa o irriconoscente nei confronti di tanta buona volontà, ma tali proposte comportano dei problemi almeno per due motivi: logistici e pratici. Innanzitutto, bisogna vedere se gli enti proprietari sono disposti a una riconversione semi-permanente degli spazi messi a disposizione. In secondo luogo, quanto costerebbe tutto ciò? A chi spetterebbero gli oneri? A queste domande non ho una riposta, purtroppo. È tutto molto complicato.

Molte delle soluzioni proposte non tengono in alcun conto il problema logistico. Avere una succursale, sebbene provvisoria, a 8-10 km dalla sede centrale comporterebbe non solo delle difficoltà nella gestione dell’orario dei docenti e del loro trasferimento da una sede all’altra (insomma, non siamo mica obbligati ad avere un’automobile…) ma sarebbe complicato spostarsi anche per gli stessi studenti, specialmente i pendolari che nemmeno conoscono bene la città in cui ha sede la scuola. Senza contare che, almeno per l’utenza, sarebbe indispensabile la collaborazione da parte delle aziende dei trasporti che, a quanto ne sappia, non sono nemmeno tanto disponibili a ritoccare gli orari, tant’è che molti studenti hanno dei permessi permanenti di entrata posticipata e uscita anticipata proprio a causa dei mezzi di trasporto. Ovviamente sto parlando della realtà in cui vivo, non so quali siano le problematiche delle altre città, specie le più grandi.

Fate quello che volete ma basta con la Didattica a distanza!

Ecco l’ultima fastidiosa obiezione che giocoforza ho dovuto lasciare alla fine, dopo aver tentato di spiegare per quali motivi la ripresa a settembre sarà un vero rompicapo.
Riprendiamo in considerazione il fatto che le classi saranno quasi inevitabilmente divise a metà. Di ciò dobbiamo ringraziare i governi del passato che, a suon di tagli, hanno creato le cosiddette classi-pollaio e accorpato scuole per risparmiare sugli stipendi di dirigenti e docenti. Più allievi per classe significa meno docenti e quindi meno stipendi da pagare; accorpare le scuole significa diminuire il numero di dirigenti. Un bel risparmio.
Mai come in questo periodo, a causa del Covid19, ci si è resi conto di quanto sia stato deleterio operare tagli indiscriminati su Sanità e Scuola (a questo proposito vi invito alla lettura di un interessante editoriale di Guido Tonelli, pubblicato tempo fa sul Corriere della Sera). Oggi ne stiamo pagando le conseguenze e la soluzione, se per la Sanità in parte è stata trovata con l’assunzione straordinaria di personale medico e paramedico, sembra che per la Scuola non sia sentita come necessità impellente: in fondo, non salviamo vite

Quindi, se metà classe starà in aula, l’altra metà (con la dovuta turnazione) dovrà seguire le lezioni a distanza. Qualunque sia il modello di didattica mista che ogni scuola sceglierà, la DAD non potrà scomparire, almeno non dalle scuole secondarie di secondo grado. Le linee guida divulgate ieri dal Ministro dell’Istruzione “salvano”, almeno questo è l’intento, solo i bambini delle primarie. Per il resto, dovremo arrangiarci ed è necessario che i genitori si mettano il cuore in pace.

L’atteggiamento assunto dal Ministero, che viene letto come “arrangiatevi, fate quel che potete”, non è del tutto illogico. Lo Stato non conosce le varie realtà scolastiche e, anche per ciò che riguarda l’aspetto sanitario, le regioni possono avere situazioni diverse, quindi proporre un modello uguale per tutte le scuole del territorio nazionale sarebbe assurdo. Diciamo che la proposta di soluzioni diverse avrebbe potuto essere argomento di discussione fin da subito, almeno dal momento in cui era chiaro che non saremmo tornati a scuola entro giugno. La latitanza del Governo c’è stata, inutile negarlo. Ora possiamo solo attendere gli eventi, facendo tesoro dell’esperienza e sperando che agli errori del passato ora si possa porre rimedio guardando al futuro.

Sarà una lunga estate e per nulla tranquilla, temo.

[immagine da questo sito]