CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

Anselm Feuerbach, Paolo and Francesca

     Giunto nel secondo cerchio dell’inferno, dopo l’incontro con Minosse, Dante descrive il luogo in cui sono puniti i lussuriosi come un loco d’ogne luce muto, / che mugghia come fa mar per tempesta, / se da contrari venti è combattuto (Inferno, V, vv. 28-30). Ricorrendo alla figura retorica della sinestesia (d’ogne luce muto) il poeta rappresenta la caratteristica dell’abisso infernale: un posto in cui l’assenza della luce si ricollega al peccato, esattamente come la selva oscura in cui si smarrisce all’inizio del viaggio ultraterreno. Non è però un luogo silenzioso: il rumore del vento impetuoso che trascina di qua e di là le anime dei lussuriosi è accompagnato da le strida, il compianto, il lamento dei dannati che bestemmian quivi la virtù divina (vv. 35-36). E non potrebbe essere diversamente: chi non teme Dio in vita, dopo la punizione eterna non può far altro che maledire il suo nome. Eppure, come vedremo, qualche bagliore di umanità e soprattutto di umiltà nel riconoscere il proprio errore rimane nell’anima con cui il poeta si intratterrà nel V canto dell’Inferno. Infatti, lo spirito si stupisce dell’attenzione che Dante presta alla sua condizione e gli rivolge parole affettuose rammaricandosi del fatto che il re de l’universo non sia suo amico altrimenti pregherebbe per la sua pace.

     Stiamo parlando di Francesca da Rimini la quale, assieme a Paolo Malaspina, muta presenza al suo fianco, è la protagonista della parte finale del canto in questione. Dalle parole della donna traspaiono sentimenti contrari e allo stesso tempo complementari: si legge la dolcezza nella rievocazione dei momenti di smarrimento di fronte a un amore impetuoso cui lei si abbandona incapace di porvi un freno, ma anche il peso doloroso dell’epilogo di un’unione impossibile. Paolo, a fianco a lei come in vita così in morte, è l’ombra silenziosa che esprime con le sue lacrime i medesimi sentimenti.

     Dopo aver sentito Viriglio nominare alcune delle anime dannate, fra le quali enumera donne antiche e cavalieri, Dante rimane turbato e quasi smarrito. Fin da subito è colpito da una particolarità: tra coloro che scontano in quel cerchio il peccato commesso in vita, poiché la ragion sommettono al talento (v. 39), nota un uomo e una donna accoppiati e sospinti dal vento tanto da apparire leggeri nonostante il peso della loro colpa. Basta una sua invocazione, un richiamo forte e affettuoso: «O anime affannate, /venite a noi parlar, s’altri nol niega!» (vv. 80-81) per far sì che esse Quali colombe dal disio chiamate (v. 82) si avvicinino a lui desiderose di parlare e ascoltare.

     Francesca si presenta facendo riferimento alla città in cui nacque attraverso una perifrasi:

Siede la terra dove nata fui 
su la marina dove ’l Po discende 
per aver pace co’ seguaci sui
.                                   (Inferno, V, vv. 97-99)

     Il matrimonio fra la giovane ravennate, figlia di Guido da Polenta, e il signore di Rimini, Gianciotto Malatesta, fu uno dei tanti che allora si combinavano tra famiglie nobili, la via diplomatica ideale per sanare dissidi e creare alleanze. Nel caso di Francesca, pare che le nozze fossero lo strumento per sancire l’alleanza tra le due famiglie oppure un atto di riconoscenza da parte di Guido Da Polenta nei confronti dei fratelli Malatesta che l’avrebbero aiutato nella guerra contro la famiglia rivale dei Traversari per il dominio sulla città. Le nozze sarebbero state celebrate, forse per procura, verso il 1275 quando la giovane aveva solo quindici anni.

     Non sappiamo a quali fonti Dante abbia attinto per descrivere in versi la vicenda dei due amanti sfortunati. Pare comunque che attorno al delitto, forse avvenuto nel 1283, quando l’autore della Commedia era appena diciottenne, ci fosse grande curiosità anche a Firenze dove, l’anno prima, Paolo era stato Capitano del popolo. Secondo quanto tramandato da Boccaccio, Francesca sarebbe stata vittima di un inganno crudele: convinta di sposare Paolo, nobiluomo avvenente ed elegante, si sarebbe trovata davanti il fratello, lo sgraziato e zoppo Gianciotto. Questo porterebbe a ipotizzare il matrimonio per procura e Gianciotto avrebbe giocato d’astuzia, messo in guardia da un amico il quale lo avrebbe avvertito che difficilmente la bella e giovanissima Francesca avrebbe accettato di sposare un uomo di aspetto sgradevole e deforme come lui. Probabilmente si tratta di una leggenda in quanto Paolo risulta sposato già nel 1269 con una figlia del conte di Ghiaggiolo, Orabile Beatrice, da cui aveva avuto due figli: Uberto e Margherita. Inoltre, la giovane non poteva ignorare che lo sposo fosse proprio Gianciotto, con cui suo padre, Guido Da Polenta, aveva concordato il matrimonio diplomatico, anche ipotizzando che al momento delle nozze si fosse trovata davanti Paolo come mediatore nel matrimonio per procura.

     Un amore, quello dei due cognati, nato dalla convivenza forzata nello stesso castello e forse favorito dal fatto che il marito della giovane si recava spesso fuori città. Nelle terzine, certamente tra le più note dell’intero poema, dedicate alla narrazione dell’amore infelice, la donna sembra voler giustificare la passione dalla quale fu travolta respingendo una propria precisa responsabilità individuale che attribuisce, invece, ad Amore:

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende 
prese costui de la bella persona 
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.                

Amor, ch’a nullo amato amar perdona, 
mi prese del costui piacer sì forte, 
che, come vedi, ancor non m’abbandona.                 

Amor condusse noi ad una morte: 
Caina attende chi a vita ci spense
».                          (ibidem, vv. 100-107)

In questo passo ritroviamo la perfetta sintesi della poesia amorosa, partendo dalla personificazione di Amore già presente nella lirica cortese provenzale. Nella prima terzina viene espresso il concetto tipicamente stilnovistico dell’indissolubile relazione tra l’amore e l’animo nobile (cor gentile) che, nell’ambiente comunale in cui si diffonde tale poetica, rappresenta l’unica nobiltà che conta sostituendosi a quella di schiatta. La bella persona rimanda alla bellezza della donna che colpisce l’uomo e suscita in lui un sentimento che dagli occhi passa al cuore, come già teorizzato dai poeti provenzali e ripreso da Giacomo da Lentini, esponente della Scuola Siciliana e inventore del sonetto. Nella seconda terzina ritroviamo un altro concetto legato alla poesia cortese in lingua d’Oc e già teorizzato da Andrea Cappellano nel suo trattato De Amore: chi ama non può che essere riamato. L’amore, dunque, non può essere un sentimento unilaterale. E ancora la bellezza (piacer), questa volta di Paolo, fa il suo gioco: impossibile non amare quell’uomo che, nelle vesti di spirito dannato, è ancora unito a lei per l’eternità, nell’amore e nella colpa. Una passione irrefrenabile destinata a oltrepassare i confini della vita terrena, rappresentata dall’autore mettendo in luce il potere dell’amore, senza tuttavia dimenticare che se il sentimento è malriposto, può portare alla dannazione eterna.

«Quando leggemmo il disiato riso 
esser basciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso,                          

la bocca mi basciò tutto tremante. 
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 
quel giorno più non vi leggemmo avante
»                            (ibidem, vv. 133-138)

     Una passione alla quale i due smettono di opporre resistenza mentre stanno leggendo per diletto le avventure di Lancillotto e Ginevra, anch’essi colpevoli di aver intrecciato una relazione extraconiugale, essendo lei la legittima sposa del re Artù. Anche il riferimento ai romanzi cavallereschi, in particolare quelli del ciclo arturiano, non è casuale poiché si riallaccia alla tradizione cortese in lingua d’Oil molto nota al tempo di Dante, anche se nel romanzo è Ginevra a prendere l’iniziativa, spinta dai suggerimenti del siniscalco Galehaut. Nell’innamoramento la lettura non ha, tuttavia, un’importanza decisiva: “galeotto” (quindi il vero responsabile) non fu il libro in sé quanto piuttosto la bellezza dei due amanti e forse il desiderio d’amore di Francesca, mai davvero appagato da un matrimonio che ad altri poteva apparire una gabbia dorata ma che per lei rappresentava solo una prigione asettica, priva di sentimenti genuini come accadeva nei matrimoni combinati.

     In quel giorno più non vi leggemmo avante si racchiude tutto il senso, e la condanna che ne consegue, del loro amore. Ma dove si consumò realmente questa relazione clandestina? Si pensa che lo scenario del delitto sia stato il castello di Gradara che allora apparteneva ai Malatesta, signori di Rimini e di Pesaro, come attestano alcuni documenti trecenteschi. Essi lo ampliarono, trasformandolo da fortilizio militare a luogo di soggiorno. 

     Secondo la leggenda, Francesca e Paolo si incontravano di nascosto in questa dimora. Nella rocca di Gradara è ancora presente un ambiente identificato come la camera di Francesca in cui sarebbero avvenuti gli incontri clandestini con il cognato. Si narra che un giorno di settembre del 1289 Paolo fosse giunto a far visita all’amata e che qualcuno (forse Malatestino, il fratello minore anch’egli attratto dalla giovane, a quanto si legge nell’opera Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio) avesse avvisato Gianciotto il quale ogni mattina si recava a Pesaro per svolgere il suo incarico di Podestà.  L’uomo, quindi, avrebbe fatto improvviso rientro al castello sorprendendo i due amanti nella camera della moglie fedifraga. In questa stanza si può notare ancora oggi una botola attraverso la quale si racconta, in modo forse fantasioso, che Paolo avesse tentato di fuggire all’arrivo del fratello. Durante la fuga un lembo dell’abito del giovane si sarebbe impigliato in un chiodo; Francesca, allora, avrebbe cercato di salvare l’amante facendogli scudo con il corpo, ma ella fu trafitta dalla spada del marito ed entrambi furono uccisi senza alcuna pietà.

     Francesca, rivolgendosi a Dante, fa un solo accenno al marito dicendo: Caina attende chi a vita ci spense (v. 107). Già condannato dall’Alighieri alla punizione eterna riservata ai traditori dei parenti (Gianciotto, nonostante fosse stato tradito, post mortem veste i panni del traditore perché non solo uccise la moglie adultera ma anche il fratello, sangue del suo sangue), tuttavia dal punto di vista legale non pare che l’uxoricida sia mai stato punito. Non c’è traccia, infatti, nei documenti papali di un’eventuale assoluzione per il duplice omicidio, il quale avrebbe dovuto costituire un “impedimento proibitivo” per un matrimonio successivo. Gianciotto effettivamente si risposò con Zambrasina del fu Tebaldello Zambrasi da Faenza, dalla quale ebbe cinque figli: Malatestino, Guido, Ramberto, Margherita e Rengarduccia. Non vi sono riscontri di tale assassinio neppure nelle relazioni dei rettori della Santa Sede e negli atti pontifici da Niccolò III a Bonifacio VIII, vale a dire tra il 1277 e il 1294. Non esiste nemmeno alcun documento di archivio sulla relazione adulterina di Paolo e Francesca.

     È evidente che la fama dei due amanti infelici sia legata proprio alle pagine dantesche. Il primo a far diventare leggenda l’amore di Paolo e Francesca fu Andrea Lancia, autore di un “Ottimo Commento” alla Commedia datato 1333. È possibile che proprio tale opera esegetica sia stata la fonte ispiratrice di Boccaccio per il commento al canto V dell’Inferno.  Si deve allo stesso Lancia la creazione degli stereotipi di Gianciotto (vero nome Johannes Zoctus, ossia “Giovanni lo zoppo”) come militare coraggioso, ma crudele e rozzo; di Paolo, come uomo bellissimo, educato e colto; di Francesca, come donna bellissima che cede alla passione perché presa del costui piacer sì forte.

     Gianciotto morì nel 1304, quattro anni dopo l’anno in cui tradizionalmente si colloca il viaggio dantesco nell’Oltretomba. Se a quel tempo fosse già morto, probabilmente il poeta fiorentino l’avrebbe volentieri collocato nella zona più profonda dell’inferno. Caina attende chi a vita ci spense, preannuncia Francesca con una sicurezza tale da tradire il pensiero di Dante: come Caino uccise il fratello Abele, Gianciotto ammazzò Paolo, cieco di rabbia per l’insana passione del fratello nei confronti della moglie.

     Dante non può fare a meno di collocare nel cerchio dei lussuriosi le anime peccatrici di Paolo e Francesca ma si commuove fino alle lacrime ascoltando la loro storia. Anche se «Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria» (vv. 121-123), le parole di Francesca rimangono scolpite nel cuore di chiunque legga il V canto dell’Inferno. Rimini è il luogo in cui Francesca ha trovato l’amore e la morte. Amore e morte formano spesso un tragico binomio inscindibile. Oggi li chiamano femminicidi. Il tradimento spesso ne è il motore.

     Francesca e Paolo non sono certamente i primi amanti colti sul fatto né saranno gli ultimi. Basti pensare, solo per fare un esempio del passato, all’“amaro caso” di Laura Lanza, la baronessa di Carini, sottomessa al volere e agli affari del padre e costretta a sposare un uomo che non amava, Vincenzo La Grua-Talamanca. Questo matrimonio di convenienza fu forse il motivo che spinse la nobildonna tra le braccia di Ludovico Vernagallo, cugino del marito. Amor condusse anche Laura e Ludovico ad una morte: tra le mura del castello di Carini la relazione segreta, durata circa due anni, fu stroncata da un duplice omicidio avvenuto il 4 dicembre 1563. Fu il padre di Laura a uccidere la figlia adultera e il suo amante, pare alla presenza del marito tradito. Una versione a metà fra storia e leggenda: si dice, infatti, che in realtà Cesare Lanza fu costretto a commettere l’omicidio a causa di un debito non estinto con Vernagallo; la baronessa sarebbe quindi rimasta coinvolta per occultare le vere ragioni. L’assassino si rifugiò in Spagna dove ottenne l’indulgenza del re Filippo II: sebbene, per legge, il diritto di vendicarsi dell’adultera fosse riconosciuto al marito e non al padre, la presenza del barone sul luogo del delitto sarebbe stata interpretata come la sua stessa volontà di difendere l’onore equiparando il consorte all’omicida. 

     Quello avvenuto a Carini nel XVI secolo, seppur privo di veridicità storica, fu un efferato assassinio tramandato dai cantastorie siciliani. Quanto a Francesca e Paolo, possiamo equiparare il V canto dell’Inferno all’opera dei cantastorie e pare che la vicenda dei due sfortunati amanti abbia avuto un grande successo nell’immediato. In fondo, anche attraverso un misto tra storia e leggenda, l’opera di Dante, specialmente l’Inferno, rappresentava allora un po’ quello che oggi è il ruolo delle riviste di gossip. E la storia degli amanti di Ravenna non è leggenda.


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Gli altri capitoli dello studio

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

CAPITOLO 3: DIDONE

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 5: MATELDA

CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA

CAPITOLO 7: BEATRICE