CARDUCCI: DA “PIANTO ANTICO” A “FUNERE MERSIT ACERBO”, IL RICORDO DEL FIGLIOLETTO DANTE

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol piú ti rallegra
né ti risveglia amor.

 

Una delle poesie più belle e commoventi di Giosue Carducci è senz’altro Pianto antico. Una lirica triste in cui ricorda la morte del figlioletto Dante, avvenuta il 9 novembre 1870, a soli tre anni, per quello che il poeta stesso, in una lettera al fratello Valfredo, definisce un versamento al cervello. Così descrive minuziosamente la malattia del figlio che ne ha causato la morte:

 

“Il mio povero bambino mi è morto; morto di un versamento al cervello. Gli presero alcune febbri violente, con assopimento; si sveglia a un tratto la sera del passato giovedì (sono otto giorni), comincia a gittare orribili grida, spasmodiche, a tre a tre, come a colpi di martello, per mezz’ora: poi di nuovo, assopimento, rotto soltanto dalle smanie della febbre, da qualche lamento, poi da convulsioni e paralisi, poi dalla morte, ieri, mercoledì, a ore due. Ed era bello e tanto buono! Così sviluppato di corpo e d’intelligenza! Così robusto, e grande e grosso! Così amoroso! Povero il mio bambino! Povero il mio caro Dante! E avevo riposto su quel capo tutte le mie speranze, tutto il mio avvenire! E mi ero avviticchiato a lui con quanto amore mi restava nell’anima! Oh che strappo del cuore e della vita! È inutile parlare di consolazione: il tempo potrà rammarginare un po’ la ferita; ma guarirla, non mai. Quando si è avuto un figliuoletto come quello per tre anni e si è posta in lui tutta la vita, non ci si consola così facilmente. Io per me sento che quest’altro pezzo di esistenza mi sarà molto tristo. A febbraio la mia povera mamma; ora il mio bambino; il principio e la fine della vita e degli affetti. La sua povera mamma è stata 14 giorni con la morte su gli occhi: figurati. Ora lo veste e gli fa la ghirlanda per mandarlo nella fossa accanto alla sua nonna. Povero il mio bambino! Pare, a sentir certuni, che la morte di un bambinetto sia miseria leggera e facilmente comportabile. Non è vero, non è vero.” (lettera di G. Carducci al fratello Valfredo, 10 novembre 1870).

 

Nella lettera si può notare la disperazione di Carducci che, nello stesso anno, ha perduto anche la madre (A febbraio la mia povera mamma; ora il mio bambino; il principio e la fine della vita e degli affetti). Interessante notare che le due figure più importanti dell’esistenza vengono definite il principio e la fine della vita e degli affetti. Nel piccolo Dante il padre aveva riposto tutte le speranze future. Nel verbo avviticchiare (E mi ero avviticchiato a lui con quanto amore mi restava nell’anima!) ritroviamo lo stesso concetto espresso in Pianto antico quando, riferendosi al bimbo, lo definisce fior de la mia pianta: quello che è il fiore per una pianta è il figlio per il padre.

Il poeta è cosciente che quello che ad altri può apparire una miseria leggera e facilmente comportabile (sopportabile) è un dolore destinato a non abbandonarlo mai: E’ inutile parlare di consolazione: il tempo potrà rammarginare un po’ la ferita; ma guarirla, non mai.

 

Più o meno gli stessi concetti sono ripresi anche nella lettera che lo scrittore scrisse all’amico Giuseppe Chiarini:

 

Povero il mio bambino, e povero me: come vuol essere tristo quest’altro pezzo di vita che io mi ero avvezzato come tutta data a lui e da lui rasserenata e confortata. Mi pareva che dovessimo camminare insieme; io a insegnarli la strada, lui a sorreggermi, finché io mi riposassi ed ei seguitasse più puro e meno triste di me. Lo volevo crescere libero, forte, modesto, e l’indole sua mi prometteva certo che sarebbe. Avrebbe, a un mio mancare, sostenuto la madre sua e le sorelle: si sarebbe ricordato di me, e avrebbe mantenuto onorato il mio nome. E ora tutto quello che è stato è stato, e non è più vero nulla. Ora sono solo di nuovo con tre donne [la moglie e le due figliolette Bice e Laura, nate rispettivamente nel 1859 e nel 1863], che, se muoio, andranno ad accattare. Ad accattare le donne che portano il mio nome, ad accattare da questa canaglia sociale? Prima morte. È inutile che tu provi a consolarmi. I primi giorni [la lettera è del 14 novembre] ho pianto e ruggito in silenzio meco stesso. Ora mi sono messo a studiare. Il tempo rammarginerà un poco la cicatrice; ma sanarla, non mai. Consolazione non ce n’è più per me. Quando s’ha un’anima come la mia, un bambino come il mio, e si perde quel bambino in quel modo, non ci si consola, no, no. Ora poi odio anche la natura. No: io odio tutto quel che è male, e la morte dei figliuoli è un male. E penso a te e al tuo figliuolo che si chiama come il mio. Guardaci, caro amico, e non ti minacci né pur da lontano l’ombra di quel che è avvenuto a me. Credi, è uno strappo al cuore. Pare, a sentir certuni, che la morte di un bambinetto di tre anni debba esser una miseria comportabile. Non è mica vero: vanno via tre pezzi della vita. Ma basta, basta, basta. Lo dico sempre, basta, e il mio pensiero torna sempre costì. Avanti. Avevo cominciato a volere scrivere con pace e rassegnazione. Ma che!

 

Nelle due lettere, che non hanno nessuna velleità artistica, si comprende bene che lo sfogo è quello di un uomo disperato che condivide con molti, per altro senza la benché minima parvenza di consolazione, un pianto antico come la storia stessa dell’Uomo. Proprio questo concetto ci riporta al titolo della lirica presa in esame.

 

Ritornando alla poesia Pianto antico, il titolo scelto rimanda a quel dolore universale che non ha età, dal momento che nella storia dell’Uomo il lutto che un genitore deve subire per la perdita del figlio è “antico”, appunto, e sempre uguale. In origine la lirica non aveva titolo. Carducci lo coniò nel 1879, in una lettera all’amico Giuseppe Chiarini, uno dei suoi costanti punti di riferimento.

Nella prima pubblicazione Carducci aveva premesso a questa lirica un distico del poeta greco Mosco che piange il maestro Bione: le piante…rinascono e rivivono un altr’anno…or tu sotterra, in tenebroso loco, sempre muto starai… (trad. Leopardi).

La poesia autobiografica intreccia la rievocazione dei momenti felici e lo strazio del presente. All’iniziale ricordo del figlioletto che allungava la piccola mano verso l’albero di melograno piantato nel giardino di casa si sostituisce, nella seconda parte della lirica, la desolata constatazione che la scomparsa di Dante ha reso la vita di Carducci “arida” come una pianta colpita da un fulmine. Il piccolo, che rappresentava la luce per il poeta, ora si trova al buio e al freddo, senza più il calore consolatorio dell’amore paterno.

 

Non è un caso che Pianto antico, poesia composta nel 1871, sei mesi dopo la morte del figlio di Carducci, sia stata anticipata dalla stesura di Funere mersit acerbo, scritta solo un mese dopo il lutto.

Il titolo il poeta riprende un verso tratto dal VI libro dell’Eneide di Virgilio e significa “in morte acerba sommerse”; è il passo nel quale Enea, appena disceso nel regno dell’oltretomba, è colpito dalle voci e dai pianti dei bambini morti.

Nel sonetto a rime alternate Carducci raccoglie il commosso ricordo del fratello Dante, morto suicida nel 1857, cui chiede di accogliere il bimbo, smarrito e impaurito, al suo arrivo nell’Oltretomba.

 

O tu che dormi là su la fiorita
collina tósca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?

È il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

Ahi no! giocava per le pinte aiole,
e arriso pur di visïon leggiadre
l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole

vostre rive lo spinse. Oh, giú ne l’adre
sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre.

 

Il fratello di Carducci è sepolto nel piccolo cimitero di Santa Maria a Monte in Valdarno, accanto al padre. Il poeta gli chiede se ha udito il pianto del suo bambino e gli spiega che nel fiore della vita era stato costretto a raggiungere “le fredde e sole vostre rive”. La speranza del poeta è che il fratello possa accoglierlo e consolarlo mentre cerca con lo sguardo il dolce sole (da notare la rima equivoca tra il verso 11 e 13) e invoca il nome della madre.

 

Impossibile, leggendo questo sonetto carducciano, non ricordare un epigramma di Marziale (poeta latino del I secolo d.C.) in cui rievoca la morte di una piccola schiava a lui particolarmente cara. L’antico poeta raccomanda ai propri genitori, morti da tempo, di accogliere la piccola Erotion nell’aldilà, di confortarla e di permetterle di continuare i suoi giochi, poiché se il regno dei morti è fonte di paura per tutti, lo è in modo particolare per una bimba di nemmeno sei anni.

 

Hanc tibi, Fronto pater, genitrix Flaccilla, puellam

oscula commendo deliciasque meas,

parvola ne nigras horrescat Erotion umbras

Oraque Tartarei prodigiosa canis.

Impletura fuit sextae modo frigoria brumae,

vixisset totidem ni minus ill ies.

Inter tam veteres ludat  lasciva patronos

et nomen blaeso  garriat ore meum.

Mollia non rigidus caespes tegat ossa, nec illi

terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.

 

O padre Frontone e madre Flacilla,

vi affido questa bimba, mio amore e mia gioia,

affinché la piccolina Erotion non sia spaventata dalle nere ombre

e dalla bocca mostruosa del cane tartareo.

Avrebbe compiuto soltanto sei anni

se ella fosse vissuta altrettanti giorni.

Tra i vecchi patroni ella giochi spensierata

e gridi il mio nome con la bocca balbettante.

Una pesante zolla non ricopra le tenere ossa e per lei

tu terra, non essere pesante: ella non lo fu per te.

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