CAPITOLO 3: DIDONE

Enea e Didone, dipinto nell’ex Palazzo vecchio Majorana di Scordia, da questo sito

Nello stesso cerchio in cui Dante incontra Francesca e Paolo, trova il suo luogo di dannazione eterna un’anima silenziosa cui il poeta accenna appena in due versi: colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo; (vv. 61-62). L’autore sa bene che il lettore non ha bisogno di un nome per identificarla. Infatti soltanto al v. 85, nella similitudine con la quale descrive le anime degli amanti che si staccano dal gruppo per parlare con lui, viene svelata la sua identità: cotali uscir de la schiera ov’è Dido. Gli unici riferimenti alla donna sono in relazione all’offesa fatta al marito morto (ruppe fede al cener di Sicheo) e all’atto, ancor più grave, del suicidio (colei che s’ancise amorosa). Eppure costei sconta la pena della lussuria assieme ad altri personaggi femminili e maschili che appartengono alla storia antica oppure alla mitologia: Semiramide, Cleopatra, Elena, Achille, Paride e Tristano. Tutti degni di un nome, lei no, almeno fino al verso 85. Sembra che Dante non riesca a perdonare la colpa commessa da Didone – l’essersi abbandonata alla passione sfrenata senza tener conto del “patto” (il foedus amoroso di catulliana memoria) stretto con il marito defunto – che tra l’altro la donna punisce con le sue stesse mani suicidandosi (ma non è punita dall’Alighieri nel cerchio dei suicidi, trasformati in arbusti che trasudano lacrime e sangue). L’unico aggettivo che l’autore utilizza per definire Didone è amorosa: l’amore l’ha travolta in vita, senza che lei opponesse resistenza, e qui sta la sua colpa più grave. Eppure Virgilio, lo stesso poeta che lo accompagna e gli sta accanto, nel IV libro dell’Eneide aveva associato alla regina cartaginese diversi aggettivi: furens, furibonda, infelix, misera, trepida, incensa, per citarne alcuni.

     Pur appartenendo a campi semantici diversi, conducono allo stesso tragico epilogo che ben conosciamo: l’amore che rende folli, annullando ogni capacità razionale, (come insegna anche la poetessa Saffo, ripresa da Catullo nel suo carme Ille mi par esse deo videtur), lo stato d’animo che caratterizza l’abbandono da parte dell’amante, la passione che brucia e non lascia scampo. Solo quest’ultima è la condizione che qui viene sanzionata.

     Dante, che conosceva bene l’Eneide e che aveva scelto come guida nei primi due regni ultramondani il suo autore, avrebbe potuto spendere per Didone qualche parola in più. Il fatto di essere un personaggio legato a un mito pagano non è di per sé una giustificazione. Nell’oltretomba cristiano il poeta spesso fa convivere personaggi reali e leggendari (uno per tutti, l’Ulisse del XXVI canto dell’Inferno). Non sembra, quindi, far distinzione tra i pagani e i cristiani, accomunandoli a un unico destino. È vero che Dio è all’origine del mondo e che i pagani semplicemente ne ignoravano l’esistenza, però è anche vero che Dante riserva ad alcuni personaggi pagani un luogo esclusivo: il Limbo.

     Dal Limbo giunge Virgilio in soccorso a Dante il cui cammino è ostacolato dalle tre fiere. Egli, come altri illustri pagani che non hanno colpa d’essere nati prima dell’avvento del Cristianesimo, trascorre la sua eternità in questo luogo in cui non c’è punizione se non quella del vano desiderio di vedere Dio. Qui alcuni Spiriti Magni abitano un castello e tra questi Dante riconosce Enea:

Colà diritto, sovra’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.
I’vidi Eletra con molti compagni,
tra’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con gli occhi grifagni.
                                   (Inferno, IV, 118-123)

Certamente l’Alighieri si sente in obbligo di omaggiare il suo Vate Virgilio. Il pius Enea, facendo parte del disegno provvidenziale che lo vede progenitore dei Romani, non poteva trovarsi in altro luogo. Ma perché, allora, Didone è annoverata tra i lussuriosi?

     Tutti conoscono l’infelice storia della regina di Cartagine, fuggita dalla sua città, Tiro, perché perseguitata dal fratello Pigmalione che già le aveva ucciso il marito Sicheo. Virgilio dedica alla storia d’amore tra Enea e Didone il IV libro dell’Eneide, raccontando come, dopo aver rotto gli indugi che all’inizio l’avevano convinta a rinunciare all’amore per l’eroe troiano a causa del giuramento fatto sulle ceneri del marito, aveva ceduto al sentimento che la rende furens, per poi essere abbandonata da Enea, obbligato dagli dei a riprendere il mare alla volta del Lazio. La sua missione non avrebbe potuto attendere e non c’è amore terreno, vero o presunto, che tenga.

     Distrutta dal dolore e sentendosi tradita da quell’uomo che aveva ospitato nel suo palazzo, riservandogli ogni onore, compresa la condivisione del talamo nuziale, Didone si uccide, trafiggendosi con la spada di Enea, giurando vendetta contro i Troiani e il popolo che da essi discenderà. Nel discorso che precede la morte, citando l’ultor che in qualche modo avrebbe pareggiato i conti, la donna sembra preannunciare le guerre puniche e la figura di Annibale che, seppur alla fine sarà sconfitto, darà del filo da torcere ai Romani.

     La colpa di Enea viene perdonata da Dante, quella di Didone no. Eppure anche la donna era stata vittima di un progetto divino: Venere, madre di Enea, e Giunone, sua acerrima nemica dai tempi in cui Paride l’aveva esclusa dall’assegnazione della mela d’oro, avevano preso accordi superando l’annosa ostilità, per far sì che Enea si fermasse a Cartagine. Così era avvenuto il “provvidenziale” incontro tra i due che sfocia nel connubio in una grotta durante la tempesta che li coglie mentre partecipano a una battuta di caccia. Da tale unione entrambe le dee avrebbero ottenuto la giusta soddisfazione: Venere non sarebbe stata in pena per il figlio in balia delle tempeste durante il lungo viaggio verso il Lazio; Giunone avrebbe impedito che Enea portasse a termine la sua missione, anche se non aveva fatto i conti con la volontà di Zeus che, infatti, ordinerà al troiano di riprendere il viaggio.

     In che cosa differiscono le vicende di Enea e Didone? L’eroe troiano, nel momento in cui approda sulla costa libica, è vedovo. O almeno così si deduce dal suo stesso racconto compreso nel II libro dell’Eneide. Infatti, appena uscito dalla città in fiamme e dopo aver messo in salvo il suo popolo, Enea si rende conto che della moglie Creusa non c’è traccia. Tornato indietro sui suoi passi e raggiunto il palazzo ormai occupato dai nemici, non riesce a trovarla finché a un tratto gli appare il suo fantasma che lo fa rabbrividire. Mentre cerca di parlare la voce gli muore in gola, quindi è Creusa a prendere la parola:

«O mio dolce consorte,

A che sì folle affanno? Agli Dei piace

Che così segua. A te quinci non lece

Di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta

Ch’io sia teco a provar gli affanni tuoi;

Chè soffrir lunghi essigli, arar gran mari

Ti converrà pria ch’al tuo seggio arrivi,

Che fia poi ne l’Esperia, ove il tirreno

Tebro con placid’onde opimi campi

Di bellicosa gente impingua e riga.

Ivi riposo e regno e regia moglie

Ti si prepara. Or de la tua diletta

Creusa, signor mio, più non ti doglia: […]»              (Eneide, II, vv. 1256-1268, traduzione di Annibal Caro)

È la moglie stessa a rivelargli la missione da compiere, la fondazione di un nuovo regno e una nuova moglie che il destino ha in serbo per lui. Creusa deve farsi da parte perché così è deciso dagli dei. Ma questa regia moglie potrà mai essere Didone? Certo, lei è una regina ma il Fato non le ha riservato quel ruolo a fianco di Enea. Sarà Lavinia, attraverso un matrimonio diplomatico, la legittima nuova sposa del troiano, colei che indirettamente costringerà l’eroe a sostenere una guerra contro Turno, essendo già promessa sposa del re dei Rutuli, e infine sugellerà l’unione tra i Troiani superstiti e i Latini. Questo è il progetto divino cui pone fede il poeta latino per celebrare l’origine divina dell’impero di Augusto. Per una regina che rappresenta un popolo nemico dei futuri Romani, quello cartaginese, non può esserci spazio al fianco del pius Enea.

     Appare chiaro, dunque, che un patto con le ceneri di Creusa Enea non l’avesse mai stretto. L’amore, se mai amore fu, per Didone rappresenta una parentesi, un po’ come le avventure che Ulisse si concede prima con Circe e poi con Calipso, nulla di più. Nel momento in cui decide di abbandonare Didone, Enea non ha nessuna colpa da scontare. La regina invece sì. Lo ammette lei stessa, durante il colloquio con la sorella Anna che all’inizio la spinge a sciogliere le riserve e a lasciarsi andare all’amore per quell’uomo che rappresenta anche un’opportunità per il regno, mentre lei ancora è legata al ricordo del marito defunto: si non pertaesum thalami taedaeque fuisset, / huic uni forsan potui succumbere culpae. (Aen., IV, vv. 18, 19: “se non avessi ormai in odio le stanze e le torce nuziali / forse a quest’unica colpa avrei potuto soccombere.” [traduzione di Alessandro Fo]). E lo stesso senso di colpa viene rimarcato in seguito, dopo il connubio avvenuto nella grotta: neque enim specie famave movetur  / nec iam furtivum Dido meditatur amorem: / coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam. (ibidem, vv. 170-172: “Didone non si preoccupa di apparenze o di fama, ormai non medita un amore furtivo; lo chiama connubio; vela con questo nome la colpa”. [traduzione di Luca Canali]).

     Quindi, per la donna quel connubio che lo stesso Enea negherà nel duro confronto prima della partenza da Cartagine, serve in realtà a nascondere la sua colpa. Ciò sembrerebbe dar ragione a Dante nel momento in cui sceglie per la regina il cerchio dei lussuriosi: lei non è altro che una dei peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento.

     Osserva Andrea Marcolongo (La lezione di Enea, Laterza, Bari, 2020): «Se il lettore si stesse chiedendo: “E allora, se Enea è tanto innocente, perché alla fine Didone si suicida?”, bisogna riconoscere subito che la domanda è formulata nel modo sbagliato. Si tratta dello stesso interrogativo che, nei secoli, si sono posti tutti i lettori dell’Eneide – eccetto forse Dante, che non esitò a collocare la regina di Cartagine dritta all’inferno insieme a Paolo e Francesca. Di certo, una domanda simile non ha mai turbato Virgilio, scrivendo. Il quale, riferendosi alla tragica fine di Didone, usa un termine nitido e molto forte: culpa (Aen, IV, 172).»

     Ma siamo sicuri che l’infelix Dido si sia macchiata di questa grave colpa? Secondo Marcolongo, la traduzione più adatta al termine latino culpa sarebbe “responsabilità”. In questo senso, si renderebbe maggiore giustizia alle pene di Didone senza relegarla nell’infantile casellina della fanciulla abbandonata dal principe azzurro dove è stata rinchiusa fino ad ora. L’interpretazione che per secoli è stata tramandata di una Didone abbandonata che punisce se stessa per la culpa di non aver onorato il patto con il defunto marito e di aver ceduto alla passione sfrenata per il troiano, la stessa interpretazione racchiusa nei versi danteschi, potrebbe essere non del tutto corretta. Didone è innanzitutto una donna tradita da se stessa, arrabbiata non con Enea che la lascia in preda alla disperazione ma con la sua debolezza. È una donna che per amore ha rinunciato al pudor, all’onorabilità di cui andava fiera, una regina che da sola aveva condotto in salvo il suo popolo, sfidato l’ostilità dei vicini e posto le fondamenta per una città che avrebbe brillato per secoli. Solo per aver dato mostra di così grandi doti, simili a quelle di un uomo, avrebbe potuto meritarsi un posto nel Limbo tra gli Spiriti Magni.

     Didone non ha scelta: il suicidio non è una punizione per l’amante ingrato, cui riserva ormai solo il nome di ospite, è il risarcimento, diciamo così, per tutto ciò che ha perso non a causa di Enea ma per una sua precisa responsabilità. Nel libro VI dell’Eneide troviamo la conferma di ciò. Quando, in occasione della discesa agli Inferi, l’uomo tenta di riscattarsi, di giustificare il suo comportamento e di esprimere il proprio rammarico non appena vede la fenicia Didone con la ferita ancor fresca / s’aggirava nel bosco, l’accoglienza che lo spirito della regina riserva all’eroe è tutt’altro che calorosa. Non c’è più niente che possa scalfirla, quell’uomo di fronte a lei non conta più nulla perché nulla ha da rimproverarsi, dal momento che nell’oltretomba finalmente si è ricongiunta con Sicheo:

[…] si rifugiò sdegnata

nel bosco ombroso, dove il primo marito Sicheo

condivide i suoi affanni e ricambia il suo amore.                             (Aen., VI, vv. 472-474)

Così nella traduzione di Cesare Vivaldi. Tuttavia, nel testo latino si legge che la donna si allontana dal luogo in cui si trova Enea con un atteggiamento da inimica (tradotto con “sdegnata”). Non solo non c’è più spazio nel suo cuore per colui che le ha provocato tanta sofferenza, ma ormai, anche solo con l’aspetto se non con le parole, dichiara apertamente l’ostilità nei suoi confronti. Non a caso, l’aggettivo inimica ha il prefisso negativo che identifica l’antonimo di amica con cui ha in comune la stessa radice di amor. Nell’oltretomba i sentimenti di Didone sono cambiati perché finalmente ha ripreso il suo posto a fianco del primo amore da cui evidentemente è stata perdonata

     Virgilio colloca l’infelice regina (infelix Dido è il vocativo con cui inizia il discorso di Enea) nel luogo in cui si trovano le donne morte a causa di un amore infelice (durus amor), che vagano per i Campi del Pianto (campi lugentes). Viene spontaneo interrogarci sul motivo per cui anche Sicheo si trovi fra i sofferenti d’amore e come mai sia l’unico uomo citato in quel luogo, senza contare che Didone non dovrebbe più partecipare della stessa dolorosa condizione delle altre anime, poiché il marito aequat amorem, corrisponde i suoi sentimenti. Forse è solo un modo per lasciar intendere che la sofferenza della donna, i suoi sensi di colpa e l’autocondanna abitano ancora in lei a causa della “recente ferita”[17], pur essendo lei riuscita a ottenere l’unica ricompensa che possa assolverla definitivamente: l’amore di Sicheo.

     Dante sa tutto questo perché conosce l’Eneide. È evidente che la lussuria di Didone non può reggere il confronto con quella di Enea: quest’ultimo è un eroe che ha compiuto un’impresa memorabile, l’altra è solo una donna innamorata che, anche se vittima di un complotto tra dee, cedendo all’amore per l’ospite straniero ruppe fede al cener di Sicheo. Ma, come abbiamo visto, nel VI libro dell’Eneide Virgilio stesso immagina la regina cartaginese finalmente ricongiunta al marito nell’oltretomba. Insomma, Sicheo l’ha perdonata, Dante no.

     La condanna della regina cartaginese per Dante è senza appello. La donna non è degna di un ruolo da protagonista ma la sua presenza è disseminata in varie parti del poema così come gli echi abbastanza espliciti dell’Eneide di Virgilio. Partiamo da un esempio, tratto dallo stesso V canto dell’Inferno in cui l’autore della Commedia colloca le anime dei lussuriosi. Nella famosa similitudine con la quale vengono descritte le anime sconvolte dal vento incessante, si legge:

E come li stornei ne portan l’ali

nel freddo tempo, a schiera larga e piena,

così quel fiato li spiriti mali […]                                (vv. 40-42)

Versi nei quali è individuabile il calco del verso 311 del VI canto dell’Eneide: “quem multae glomerantur aves, ubi frigida annus” /”o quanti uccelli affluiscono, se il rigore della stagione…” .

     Nel poema latino, al I canto, così viene descritta la regina nell’atto di accogliere nel suo grembo il piccolo Ascanio, ignara che sotto le sembianze del fanciullo si nasconda il dio d’Amore:

Ille ubi complexu Aeneae colloque pependit             

et magnum falsi implevit genitoris amorem,

reginam petit haec oculis, haec pectore toto

haeret et interdum gremio fovet, inscia Dido,

insidat quantus miserae deus;                                   

Ella con gli occhi,

col pensier tutto lo contempla e mira:

lo palpa, e ‘l bacia, e ‘n grembo lo si reca.

Misera! che non sa quanto gran dio

s’annidi in seno.                                                                     (vv. 715-719, traduzione di Annibal Caro)

dove in haec pectore toto haeret si riconosce l’espressione “ratto s’apprende” usata da Francesca nella famosa terzina in cui descrive l’amore provato per Paolo. Da notare anche quel Dido finale del verso virgiliano che riprende il v. 85 dello stesso V canto dantesco.

     E ancora la sfortunata amante ravennate, rivolgendosi a Dante dirà: Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria; e ciò sa’l tuo dottore (vv. 121-123), ricalcando il virgiliano Infandum, regina, iubes renovare dolorem (Aen, II, 3) “tu mi costringi, o regina, a rinnovare un indicibile dolore”. Impossibile poi non notare il riferimento all’autore dell’Eneide (tuo dottore) che dovrebbe conoscere molto bene questa miseria. Perché mai? Non sappiamo quasi nulla della vita privata del poeta augusteo quindi dobbiamo credere che in quel verso l’Alighieri si riferisse all’opera di Virgilio e in particolare allo sfortunato amore che legò Didone a Enea.

     Un’altra eco virgiliana è visibile nel XXX canto del Purgatorio, quando l’autore descrive il suo stato d’animo non appena incontra Beatrice. Al momento non la riconosce, non gli è possibile poiché la donna gli appare velata, ma c’è un indizio infallibile che gli dà la conferma che quell’anima non può che essere il suo amore più grande: conosco i segni de l’antica fiamma (v. 48). È inevitabile accostare questo verso all’espressione usata da Didone: Adgnosco veteris vestigia flammae (“riconosco i segni dell’antica fiamma”, Aen, IV, 23) quando, rivolta alla sorella Anna, confessa di provare nei confronti di Enea gli stessi sentimenti già provati per il marito Sicheo.

     Anche nel Paradiso è presente un accenno a Didone. Ci troviamo, non a caso, tra le pacificate anime amanti che illuminano il cielo di Venere protagoniste dell’VIII canto:

Solea creder lo mondo in suo periclo

che la bella Ciprigna il folle amore

raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

per che non pur a lei faceano onore

di sacrificio e di votivo grido

le genti antiche ne l’antico errore;

Ma Dïone onoravano e Cupido,

quella per madre sua, questo per figlio,

e dicean ch’el sedette in grembo a Dido.                              (Paradiso, VIII, vv. 7-9).

Dante spiega che nel mondo pagano si credeva che la dea Venere diffondesse dal terzo pianeta la tendenza all’amore sensuale, quindi gli antichi rendevano onore non solo alla dea ma anche a Dione e Cupido, rispettivamente madre e figlio di Venere. Al verso 9, non solo nel finale ma anche in rima con Cupido del v. 7, troviamo proprio un riferimento a Didone (Dido) e allo stesso passaggio dell’Eneide di cui si è parlato a proposito dell’abbraccio tra la regina e il dio Cupido che aveva le ingannevoli sembianze del figlio di Enea, Iulo.

     Il riferimento alla regina cartaginese proprio nel cielo di Venere, che possiamo considerare la versione positiva del secondo cerchio dell’Inferno, forse non è casuale. Forse tra le faville che ruotano attorno a Dante nel cielo di Venere, danzando e cantando, manca quella di Didone. Noi, indecisi se accordare la nostra preferenza al destino che il poeta toscano affida alla regina oppure alla destinazione scelta da Virgilio per la sua anima, lasciamo l’ultima parola al poeta mantovano che così descrive gli ultimi istanti di vita della donna:

ipsa mola manibusque piis altaria iuxta

unum exuta pedem vinclis, in veste recincta,

testatur moritura deos et conscia fati

sidera; tum, si quod non aequo foedere amantis             

curae numen habet iustumque memorque, precatur.                        (Aen, IV, 517-521)

Solo accinta a morir, per testimoni
chiama li Dei. Protestasi a le stelle
del suo fato consorti: e s’alcun nume
mira a gli afflitti e sfortunati amanti,
questo prega e scongiura che ragione
e ricordo ne tenga, e ne gli caglia.                                                    (traduzione di Annibal Caro)

     Se l’autore del divino poema avesse inventato un luogo dove premiare gli afflitti e sfortunati amanti, può darsi che là avremmo incontrato la regina di Cartagine.


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Gli altri capitoli dello studio

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 5: MATELDA

CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA

CAPITOLO 7: BEATRICE