CAPITOLO 6: PICCARDA DONATI E COSTANZA D’ALTAVILLA

Piccarda Donati, che Dante colloca nel cielo della Luna dove incontra gli spiriti mancanti ai voti (III canto del Paradiso), apparteneva a una delle famiglie più nobili e rinomate di Firenze con cui anche il nostro fiorentino illustre era imparentato avendo sposato Gemma, figlia di Manetto Donati. La cosa certa è che l’Alighieri fosse in contatto stretto anche con il ramo dei Donati di cui faceva parte Piccarda, essendo uno dei fratelli, Forese, intimo amico del poeta e ciò è testimoniato dalla famosa Tenzone, costituita da sei sonetti, tre per ciascuno, una sorta di botta e risposta scherzosa tra i due. Forese era cugino di Gemma e fratello di Piccarda e di Corso Donati, acerrimo nemico del poeta.

     Piccarda aveva scelto la via del chiostro, indossando la veste delle Clarisse, ma Uomini poi, a mal più ch’a bene usi la rapirono costringendola a sposare Rossellino della Tosa, uomo violento appartenente alla fazione dei Guelfi Neri di cui Corso Donati era il massimo esponente. Il matrimonio combinato aveva, dunque, lo scopo di portare a entrambe le famiglie dei vantaggi politici. Nonostante l’anima beata si esprima parlando al plurale (uomini) è ben poco probabile che volesse far riferimento anche al fratello Forese, oltre a Corso la cui responsabilità nel rapimento è più che certa. Egli, molto probabilmente, aveva organizzato una sortita nel monastero in cui era rinchiusa la sorella, assoldando dei poco di buono che rese complici della violenza ai danni della sfortunata.

     Di tutt’altra pasta doveva essere Forese il quale, nell’incontro con Dante all’interno della sesta cornice del Purgatorio, rassicura l’amico sulla giusta punizione riservata a Corso:

«Or va», diss’el; «che quei che più n’ha colpa,
vegg’io a coda d’una bestia tratto 
inver’ la valle ove mai non si scolpa.                             

La bestia ad ogne passo va più ratto, 
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote, 
e lascia il corpo vilmente disfatto.                                  

Non hanno molto a volger quelle ruote», 
e drizzò li ochi al ciel, «che ti fia chiaro 
ciò che ‘l mio dir più dichiarar non puote
.                       (Purgatorio, XXIV, vv. 82-90)

In questo passo l’anima penitente profetizza la morte del fratello, quei che più n’ha colpa, riferendosi alla situazione politica a Firenze tra il 1300 e il 1308. Corso, chiamato il “barone” per la prepotenza del suo comportamento, non solo era odiato dai Guelfi Bianchi ma fu spesso inviso agli stessi compagni all’interno della fazione dei Neri. Sappiamo che venne mandato al confino nel 1300 quando tentò di ristabilire l’ordine a Firenze dopo gli scontri di Calendimaggio; egli, tuttavia, si recò a Roma confidando nell’appoggio di Papa Bonifacio VIII che ammiccava al partito dei Neri e che fu responsabile, trattenendolo nella città sede papale, anche dell’esilio di Dante. Infatti, approfittando della situazione, il Papa mandò come paciere a Firenze Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV, favorendo il ritorno dei Neri al comando e decretando, di conseguenza, l’esilio dei Bianchi, per ben due volte in pochi anni (1304 e 1308). Corso Donati fu poi accusato di tradimento e nel 1308 venne costretto a fuggire dalla città; raggiunto da armigeri catalani al servizio della Signoria, che avevano il compito di riportarlo a Firenze, secondo quanto riferito da G. Villani (Cronica, VIII, 96), si sarebbe lasciato cadere da cavallo, rimanendo ucciso da un colpo di lancia sferrato da uno degli armigeri.

     Nelle parole di Forese si legge chiaramente la profezia (post eventum) della morte di Corso. I versi vegg’io a coda d’una bestia tratto / inver’ la valle ove mai non si scolpa esplicitano il destino riservato al Donati, responsabile del rapimento di Piccarda: egli sarà trascinato all’inferno legato alla coda di una bestia. Forse l’autore della Commedia qui riprende alcune leggende popolari come quella in cui si illustra la morte del re degli Ostrogoti Teodorico che sarebbe stato trascinato all’inferno da un diabolico cavallo nero.  Il riferimento potrebbe, però, anche riallacciarsi alla punizione riservata ai traditori che venivano trascinati per la città legati alla coda di un cavallo.

     Tornando alla protagonista del III canto del Paradiso, attraverso le parole di antichi cronisti e commentatori danteschi si è diffusa la “leggenda” secondo la quale Piccarda, in seguito al rapimento dalla dolce chiostra, si fosse ammalata di lebbra morendo prima che il matrimonio con Rossellino potesse essere consumato. Ciò, tuttavia, sarebbe smentito dalle stesse parole della donna che, rivolgendosi a Dante, osserva: Iddio si sa qual poi mia vita fusi (v. 108).

     Colpisce soprattutto la “reticenza” nelle parole di Piccarda la quale non vuole parlare di ciò che le accade successivamente al rapimento perché solo Dio ne conosce i particolari e questa è per lei l’unica cosa che conta. Si riferisce alla morte, che in breve l’avrebbe colta, oppure alla sofferenza dettata dalla violenza subita? Non lo sappiamo. Ciò che si evince dalle parole dell’anima è che, una volta raggiunto il Paradiso ed essendo beatificata, nulla della vita terrena ha più importanza. Come anche Catone, custode dell’Antipurgatorio, fa capire chiaramente a Virgilio che non ha alcun senso implorare la sua compiacenza ricordandogli l’amore nutrito per la moglie Marzia:

«Marzia piacque tanto a li occhi miei 
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora, 
«che quante grazie volse da me, fei.          

Or che di là dal mal fiume dimora, 
più muover non mi può, per quella legge 
che fatta fu quando me n’usci’ fora
.                             (Purgatorio, I. vv. 85-90)

A maggior ragione, per un’anima salva per sempre, come quella della Donati, la vita terrena non ha più significato rispetto a quella eterna di cui può godere nell’abbraccio di Dio.

     Piccarda, nello scambio con il poeta, si sofferma maggiormente sulla sua condizione di vergine sorella.

I’ fui nel mondo vergine sorella;

e se la mente tua ben sé riguarda,

non mi ti celerà l’esser più bella, 

ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,

che, posta qui con questi altri beati,

beata sono in la spera più tarda.                               (Paradiso, III, vv. 46-51)

Così si presenta a Dante. Nonostante l’anima sia talmente luminosa da perdere qualsiasi parvenza di corporeità, il poeta la riconosce dal nome e forse ricorda ciò che anche Forese gli aveva preannunciato riguardo alla sorella:

«Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda;

[…]                         

«La mia sorella, che tra bella e buona

non so qual fosse più, triunfa lieta

ne l’alto Olimpo già di sua corona».                         (Purgatorio, XXIV, vv. 10-15)

L’anima beata riassume in poche parole la sua vita prima della violenza subita:

«Perfetta vita e alto merto inciela

donna più sù», mi disse, «a la cui norma

nel vostro mondo giù si veste e vela,  

perché fino al morir si vegghi e dorma

con quello sposo ch’ogne voto accetta

che caritate a suo piacer conforma.      

Dal mondo, per seguirla, giovinetta

fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi

e promisi la via de la sua setta.»                               (Paradiso, III, vv. 97-105)

La donna più su cui si riferisce è Santa Chiara che aveva fondato nel 1212 l’Ordine delle Clarisse, nello stesso periodo in cui San Francesco fondò il proprio, e che ora splende della sua gloria eterna in un cielo superiore. Da notare il verbo inciela, neologismo dantesco, attraverso il quale Dante auctor esplicita la sorte dei beati: se è vero che ciascuno di loro partecipa della visione di Dio nell’Empireo all’interno della Candida Rosa, è anche vero che ogni anima viene collocata nei diversi cieli, partendo dalla Luna e arrivando a quello delle Stelle fisse in cui il pellegrino riesce a vedere Maria, l’arcangelo Gabriele, Cristo e San Pietro, e infine al Primo Mobile che è il cielo da cui ha origine il movimento di tutti gli altri. Un espediente narrativo, certamente, ma che ha anche una spiegazione teologica ed è Piccarda a fornirla: la condizione delle anime beate, seppur allocate in cieli diversi nell’escalation fino al Primo Mobile, è di perfetta beatitudine in quanto nessuno potrebbe desiderare alcunché, dal momento che la volontà di Dio non può essere messa in discussione:

«Frate, la nostra volontà quieta

virtù di carità, che fa volerne

sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. 

Se disiassimo esser più superne,

foran discordi li nostri disiri

dal voler di colui che qui ne cerne;»                         (Paradiso, III, vv. 70-75)

L’epiteto tipicamente francescano frate può dimostrare che l’anima avesse conosciuto Dante e l’avesse frequentato nella breve vita terrena. O forse, leggendo nella mente di Dio, Ella sa che il poeta si salverà e potrà accedere al Paradiso un’altra volta, dopo la morte, traendo i giusti insegnamenti dal viaggio compiuto nell’Aldilà.

     Parca di particolari sulla sua vita, Piccarda prima di congedare l’Alighieri attira la sua attenzione su un’altra anima beata che sta alla sua destra e che ha condiviso in vita la medesima sorte. Si tratta di Costanza d’Altavilla madre di Federico II, l’ultimo imperatore degno di portare questo titolo, come l’autore afferma nel Convivio (IV, III, 6), se escludiamo Arrigo VII su cui ripone ogni speranza, che in seguito alla morte dell’imperatore risulterà vana, di rientrare a Firenze dall’esilio.

     Piccarda spiega che anche quest’altro splendor aveva scelto la vita monastica ma vi era stata strappata con la forza affinché del secondo vento di Soave generasse l’terzo e l’ultima possanza. Dal breve passo illustrativo che troviamo nel III canto del Paradiso (vv. 115-120) Dante sembra seguire quella che probabilmente era una leggenda diffusa ai suoi tempi.

     Secondo Giovanni Villani, Costanza avrebbe preso i voti in gioventù ma poi per lei si sarebbe combinato il matrimonio con Enrico di Svevia (il secondo vento di Soave, ossia una potenza effimera e di breve durata, figlio del primo vento Federico I detto il Barbarossa). Lo storico racconta che Papa Celestino III avrebbe sciolto i voti di Costanza perché potesse sposarsi. La donna avrebbe partorito il figlio Federico a quarant’anni, età particolarmente avanzata a quel tempo per le primipare, e alla morte del consorte, sarebbe riuscita a nominarlo re di Sicilia anche se, essendo ancora piccolo, avrebbe avuto come tutore Papa Innocenzo III. 

     Verità o leggenda, la cosa certa è che Piccarda e Costanza condividono lo stesso destino: strappate contro la loro volontà dal convento, non riuscirono mai a dimenticare lo sposo che avevano scelto, Cristo, e dal vel del cor, quindi dai voti che avevano pronunciato, non si separarono mai nel profondo del loro cuore. Un destino pieno di dolore di cui, però, non rimane traccia nelle parole di Piccarda perché l’eterna beatitudine rappresenta la giusta ricompensa del sacrificio e un equo risarcimento per la violenza subita in vita.


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Gli altri capitoli di questo studio

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: LE FIORENTINE

CAPITOLO 2: FRANCESCA DA RIMINI

CAPITOLO 3: DIDONE

CAPITOLO 4: PIA DE’ TOLOMEI

CAPITOLO 5: MATELDA

CAPITOLO 7: BEATRICE