MILANO: PER IL PRESIDE DEL “BERCHET” UMILIANTI I VOTI SOTTO IL QUATTRO

Da quando la figura del preside, diventato Dirigente Scolastico anche se tutti continuano a chiamarlo come prima, è stata rivoluzionata (si fa per dire) ed equiparata a quella di un qualsiasi dirigente d’azienda, sembra che progressivamente si sia allontanata dalla didattica. Da tempo ormai il dirigente è più o meno un burocrate, gravato dal peso di una tale responsabilità, civile e penale, che quasi quasi ci chiediamo chi glielo faccia fare.

Ma a quanto sembra, da questo ruolo apparentemente così lontano dai problemi dei giovani che frequentano le scuole pubbliche italiane ogni tanto qualcuno si discosta per rivestire i panni del “vecchio” preside, quello che andava di classe in classe a sincerarsi che ogni cosa andasse come doveva andare, che mandava a chiamare gli allievi discoli e faceva le prediche e che quando convocava in presidenza qualche docente erano guai seri. Prendiamo, ad esempio, il dirigente del liceo “Berchet” di Milano: il professor (ché il titolo nessuno gliel’ha tolto) Innocente Pessina, nell’ultima seduta del Collegio dei Docenti, ha espresso il suo desiderio che non si arrivi agli scrutini finali appioppando agli studenti non proprio bravi voti inferiori al quattro, perché, dice, i due e i tre creano troppa frustrazione nei ragazzi.

Non serve una fervidissima immaginazione per capire lo stato d’animo degli astanti: smarrimento ed incredulità. Poi si riprendono dallo choc e, a quanto pare, promettono di pensarci. La discussione riprenderà dopo le vacanze pasquali.

Qualcuno dei docenti presenti riferisce le parole dette da Pessina: «Ho visto troppi ragazzi andare in crisi per una raffica di due. Alcuni smettono di mangiare, altri abbandonano la scuola distrutti. Sì, sono diversi da come eravamo noi. Cerchiamo di capirli». Ovviamente un’apologia del genere, considerato anche il fatto che i giovani d’oggi sono superprotetti, specie dalle famiglie, genera molte perplessità. Tutti noi abbiamo preso un due nella nostra carriera scolastica (anch’io, una sola volta, in chimica e ricordo come fosse ieri un quattro in quinta elementare perché non avevo studiato il cuore … insomma, le scienze non sono mai state il mio forte!) e siamo sopravvissuti. Che gli adolescenti di oggi non sappiano incassare colpi come questi mi sembra davvero una cosa improbabile. Il fatto è che gli allievi non devono essere lasciati soli davanti all’insuccesso scolastico. Ma la scuola, così com’è concepita da noi in Italia, non può far fronte a questo problema. Noi docenti non abbiamo la possibilità di seguire il singolo e di dargli gli strumenti per superare le difficoltà. Questa è la realtà. Ci piace poco ma è questa.

Altro problema su cui anche i docenti del Berchet si sono fermati a riflettere: le famiglie. «I ragazzi non vogliono soluzioni edulcorate. Il problema sono gli adulti e la loro incapacità di giustificare un giudizio severo», dichiara una professoressa. Quindi, i due e i tre farebbero più male ai genitori che ai figli. Concordo.

Afferma il preside Pessina: educare è meglio che punire. Concordo anche su questo ma non vedo che cosa ci sia di punitivo in un voto inferiore al quattro e, di contro, cosa ci sia di educativo in un voto superiore. Anzi, credo proprio che educativo sia valutare lo studente per quello che fa, come lo fa, anche sulla base della propria preparazione e delle proprie capacità. Mi spiego: qualora un allievo dimostri di essersi impegnato, di aver sfruttato le proprie capacità, di aver superato le lacune già evidenziate nella preparazione di base e di aver, soprattutto, manifestato la voglia di farcela, l’interesse per lo studio e la partecipazione alle lezioni, con l’intento di migliorarsi, merita un sei anche se la media matematica (e chi la guarda?) è più vicina al cinque che al sei. Nel caso menzionato, l’azione educativa è un successo, indipendentemente dal fatto che quel ragazzo abbia ottenuto in qualche compito anche delle insufficienze gravi. Insomma: la pagella non è una fedina penale in cui è stabilita la condanna definitiva del reo.

Gli studenti, in ogni caso, sembrano più ragionevoli dei genitori. Un ex berchettiano, Alessandro Generali, fino allo scorso giugno rappresentante nel consiglio di istituto, a proposito della querelle sul voto, commenta: «Dare quattro al posto di due a chi ha presentato un compito praticamente inclassificabile non risolve il problema della preparazione dello studente. Al contrario, lo illude semplicemente di essere in una condizione diversa da quella in cui realmente si trova». Va bene, ma stavamo parlando di scrutini finali. Un due in un compito ci può stare, ma chi arriva allo scrutinio di giugno con una valutazione inferiore al quattro evidentemente non ha lavorato abbastanza per migliorarsi. Se, invece, si accettasse la proposta di Pessina e si alzassero automaticamente i due e i tre, allora chi un quattro se l’è “sudato”, meritato, senza strafare ma lavorando almeno un po’, finirebbe per essere svantaggiato. Va bene che appioppare due o tre materie a settembre (ovviamente sto parlando delle scuole superiori dove si può sospendere il giudizio a giugno) con valutazioni eccessivamente basse significa rendere improbabile un recupero totale durante i mesi estivi, ma con dei quattro o dei cinque il discorso è diverso. Purché siano valutazioni “oneste” e non gonfiate solo perché si è stabilito di essere più clementi.

C’è un’altra obiezione da fare: la scala numerica dei voti va dallo 0 al 10. Ora, è alquanto improbabile che qualcuno infierisca e assegni a qualche elaborato lo zero o l’uno, quindi diciamo che il due è il voto minimo. Il dieci, anche se i nuovi criteri di valutazione dell’Esame di Stato consiglierebbero di utilizzare tutta la gamma dei voti per permettere ai più bravi di aspirare al 100/100, è di fatto una rarità. Il sei, come tutti sanno, costituisce la sufficienza. Va da sé che, nel caso in cui abolissimo i due e i tre, la distanza tra il quattro (regalato) e il sei sarebbe ridottissima. A rigor di logica dovremmo alzare la sufficienza almeno al sette. Cosa, tra l’altro, non così strana come potrebbe sembrare. Mi spiego: in certe prove semi-strutturate, laddove gli standard sono proprio minimi (ovvero, la prova è piuttosto facile) io fisso il livello di sufficienza al 70% del punteggio. La cosa importante, secondo me, è la trasparenza: i ragazzi devono sapere come valutiamo una prova, quali sono le conoscenze, le capacità e le abilità che andiamo a valutare e perché la valutazione dei singoli quesiti (specie nelle domande aperte, dove non è possibile prevedere un modello standard per la risposta) non è sufficiente. Questa, secondo me, è un’azione educativa. La trasparenza è fondamentale nel patto formativo che si stringe tra studenti e docenti.

In conclusione: non appoggerei, fossi una docente del “Berchet”, la proposta del dirigente, a meno che non si ridiscutesse la questione docimologica alzando il livello di sufficienza. Nel qual caso, si dovrebbe evitare di presentare allo scrutinio gli allievi con i voti inferiori al quattro solo perché nelle singole prove le valutazioni farebbero riferimento a parametri diversi rispetto a quelli standard.

Essere buonisti non significa educare meglio. Dello stesso parere è anche un altro ex berchettiano, Stefano Castoldi: «E’ vero, prendere 3 può demoralizzare e abbattere lo studente (ma suvvia chi non ne ha preso almeno uno!), ma un voto molto basso è quel segnale che i professori vogliono dare agli studenti per spronarli a mettersi d’impegno, accettando la sfida dello studio duro che richiede il liceo, oppure a prendere la sacrosanta decisione di cambiare studi, se quelli liceali risultano palesemente inadatti allo studente stesso».

Parole sante!

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Pubblicato il 7 aprile 2012, in docenti, Esame di Stato, famiglia, studenti, Valutazione studenti con tag , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 14 commenti.

  1. Gli insegnanti dovrebbero ricordarsi che sono pagati per insegnare, non per appiccicare etichette ai ragazzi lasciandoli come sono.
    Il giorno in cui sentirò dire che qualcuno riesce ad insegnare a un ragazzo come si fa un tema o un prof di matematica a far amare la materia ai ragazzi, anche la questione del voto la prenderò in considerazione.
    Quanto all’idea che chi non riesce bene al liceo deve cambiare scuola, magari fare una scuola tecnica, mi pare rozza e classista. L’idea sarebbe che i tecnici possono essere anche ignoranti e cretini.
    Non ho parole!

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    • @ wolfdo

      Non ho ben capito se l’ “attacco” era rivolto a me, visto che ho condiviso le osservazioni dell’ex studente citato per ultimo. Non so nemmeno dove insegni tu; magari ti sei sentito “offeso” se insegni in un tecnico o un professionale, partendo dal presupposto che in quelle scuole siano tutti “ignoranti e cretini”. In questo caso le cose sono un po’ diverse e spero mi scuserai se la mia replica al tuo commento non può essere sbrigativa.

      Io ho insegnato in tutti i gradi di scuole: ho iniziato dalle “medie” (solo due anni e pochi mesi e più di ventotto anni fa), poi ho insegnato ai tecnici (industriale e per il commercio) e nei professionali (per il commercio e istituto d’arte). Dal 1993 insegno al liceo scientifico. Fatta questa premessa, posso dire quanto segue:

      1. Dagli anni Ottanta ad ora la preparazione che i ragazzi hanno alla fine della scuola media è di gran lunga più scadente. Immagino quali siano i problemi: classi numerose, tanti stranieri, spesso non in grado di comprendere l’Italiano, ragazzi con difficoltà più o meno certificate che non è possibile seguire come si dovrebbe e spesso gli insegnanti si vedono costretti ad abbassare i livelli, a scapito degli alunni più bravi che vengono sopravvalutati e poi devono fare i conti con delle valutazioni a volte molto lontane dai “bei voti” che ottenevano con poco sforzo alle medie. Spero che questo discorso non sia considerato “discriminante” perché questa non è assolutamente la mia intenzione. Non esprimo giudizi, faccio ipotesi, supportate anche dalle amicizie con insegnanti in servizio alla scuola media e dai colloqui con i genitori.

      2. Il liceo molte volte non viene scelto dai ragazzi ma imposto dalle famiglie che non prendono nemmeno in considerazione la possibilità che i propri figli frequentino scuole tecniche o professionali. Ciò succede anche di fronte a valutazioni tutt’altro che buone e in presenza di chiari ed inequivocabili consigli di orientamento formulati dai docenti della scuola media frequentata. La conseguenza di una forzatura è abbastanza immaginabile: i ragazzi si sentono ben presto inappropriati, spesso non vogliono deludere le famiglie ma, pur vedendo le difficoltà, non riescono a farvi fronte né chiedono aiuto (ad esempio, rivolgendosi agli sportelli didattici o d’ascolto oppure frequentando i corsi di recupero, sforzandosi di impegnarsi seriamente per colmare le lacune). Altre volte capita che la non volontà di riuscire negli studi sia una sorta di “vendetta” nei confronti delle famiglie che hanno costretto i figli ad iscriversi al liceo. In questo caso non c’è nulla che noi insegnanti possiamo fare se non parlare con i genitori e metterli di fronte alla dura realtà dei fatti. La maggior parte delle volte, però, ogni tentativo è inutile spesso porta all’abbandono degli studi.

      3. Il liceo, rispetto agli istituti tecnici e professionali, ha un piano di studi piuttosto “snello”: poche ore che presuppongono, però, molto più impegno domestico. Talvolta il liceo viene scelto dai ragazzi proprio per la prospettiva di trascorrere meno tempo in classe ma senza la volontà di studiare tre-quattro ore a casa, come consigliato dagli insegnanti. In questi casi, basterebbe far capire a questi studenti che i risultati non possono arrivare senza l’impegno domestico e che, nel caso non siano disposti al “sacrificio” di passare molte ore sui libri, forse optando per una scuola tecnica o professionale i risultati si rivelerebbero migliori con poco sforzo. Ciò non significa che gli “ignoranti e i cretini” non possano frequentare il liceo ma solo che è inconfutabile il fatto che il liceo sia più impegnativo delle altre scuole.

      Io non ho mai appioppato etichette, anzi, non dico mai, tout court, che un allievo non è adatto per il liceo. Spesso litigo, per modo di dire, con i colleghi perché sono convinta che ci voglia molto tempo per poter esprimere dei giudizi e che non basti guardare il voto con cui gli studenti sono usciti dalla scuola media (cosa che, ad esempio, io non faccio MAI!). Negli anni ho visto arrivare in quinta ragazzi e ragazze su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Le cose possono cambiare nel tempo e credo che la maggiore responsabilità in tal senso sia proprio nostra. Però ci sono situazioni tali che costringono ad ammettere che un dato allievo non sia adatto per il liceo e che probabilmente in un’altra scuola potrebbe trovarsi meglio ed ottenere risultati migliori, con un conseguente innalzamento dell’autostima.

      Un altro giudizio che non esprimo mai è: questo/a non ha voglia di fare nulla, vada a zappare. Prima di tutto, quando mi accorgo che effettivamente non c’è questa gran voglia di “spendersi”, mi chiedo in che modo posso aiutare quella persona e, soprattutto, in che modo posso convincerla a farsi aiutare. Questa è la cosa più difficile e lo dico anche per l’esperienza decennale maturata come operatrice del CIC.

      Spero di aver chiarito la mia posizione, perché non voglio passare per una che dà giudizi affrettati e pensa che solo il “fior fiore” degli studenti debba frequentare un liceo. Diciamo che questi ultimi hanno la strada già spianata, per gli altri bisogna faticare un po’ però senza la loro collaborazione noi, pur con la nostra buona volontà, possiamo fare ben poco.

      P.S. Io insegno a fare i temi … qualche volta, però, con scarso successo. Diciamo che i ragazzi di oggi, tranne rare eccezioni, sono poco portati per la scrittura, abituati come sono alla comunicazione via web e cellulare che non è il massimo a livello di cura formale. 😦

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      • Scusami se sono stato un po’ brusco, ma è un argomento che spesso m’indigna. In anni lontani ormai si riteneva che la scuola potesse essere un fattore di superamento dello svantaggio sociale. Così poi non è stato e secondo me la responsabilità è in gran parte di insegnanti pigri e subalterni a una logica di classe. Se gli istituti tecnici vengono giudicati più “semplici” è perché gli insegnati si accontentano di meno, pensando che i licei preparano la classe dirigente e gli itis la forza lavoro esecutiva. Ritengo che il primo dovere sarebbe quello di formare dei cittadini, e su questo non ci dovrebbero essere differenze. In secondo luogo i tecnici sono la struttura portante dell’economia (vedi Germania) e sottovalutare questo aspetto è criminale. Io faccio lezioni private di matematica e prepara ragazzi fino all’università. Quella della maggior preparazione degli studenti dei licei è una balla :-). Mi è capitato un anno di preparare mezza classe di un ultimo anno del classico e ti posso assicurare che erano analfabeti in tutte le materie e così ne sono usciti. Mi rendo conto che l’insegnante singolo non ha grandi strumenti per intervenire in una realtà fatiscente, ma almeno si richiederebbe chiarezza di idee. Vabbè…mica ce l’ho con te. Ho colto l’occasione per uno sfogo. Con stima.

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      • @WOLFDO: ecco, appunto. Mi manda il sangue alla testa che dal liceo classico escano degli analfabeti. Chi non vuole studiare, o non ha la testa per farlo, faccia un’altra cosa che non dobbiamo essere tutti dottori.

        Che poi magari qualcuno pieno di talento deve lasciare gli studi dopo la scuola dell’obbligo e andare a zappare la terra, mentre chi non sarebbe in grado di fare altro va ad ingrossare le fila dei dirigenti e dei governanti.

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      • Tutto chiarito, non ti preoccupare. E grazie per la stima. 😉

        In tanti anni ho capito una cosa: al liceo magari ce la possono fare tutti ma quelli che valgono veramente sono pochi. Poi, però, non è detto che proseguendo con gli studi non si migliori. L’altro giorno in aula insegnanti una collega, parlando di ospedali, ha detto: “Pensate a quando incontreremo dei medici che sono stati nostri allievi … se saranno quelli bravi, bene, altrimenti via, a gambe levate!”. Be’, io una cosa così non l’ho nemmeno mai pensata. Che vuol dire? con il tempo si cambia e quando si sceglie una facoltà con convinzione magari ci si impegna molto di più e con maggior gratificazioni. Io all’università mi sono impegnata tre volte tanto, anche se al liceo ero brava.

        Insomma, come per tutte le cose non bisogna farsi influenzare dai pregiudizi.

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  2. Va tutto bene, ma mi son sempre chiesto perchè i 2 o i 3 siano molto più “facili” degli 8 e 9 e, soprattutto perché la media tra 10 e 0, tra 9 e 1, tra 8 e 2 etc. non faccia 6 ma 5.

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    • Mah, io la media matematica non la faccio quasi mai. Insomma, se uno prende un 2 e poi un 8 mi ha dimostrato di essersi impegnato per migliorare, viceversa non posso far altro che constatare un calo nell’impegno. In ogni caso difficilmente si arriva allo scrutinio con due voti. In latino, ad esempio, ne hanno minimo cinque ma molti, quelli più in difficoltà, anche sette o otto. Di fronte a un così ampio numero di valutazioni assegnare un voto obiettivo è molto più facile, considerando anche tutti gli altri parametri, naturalmente.

      Comunque ,lo 0 e l’1 credo non li metta nessuno.

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  3. Condivido pienamente. Anche perchè i ragazzi sono i giudici più severi e certamente non capirebbero perchè si dia un 4 a chi presenta un compito in bianco o zeppo di errori o non apre bocca o dice un mucchio di sciocchezze ad un’interrogazione; e ci andrebbe di mezzo anche la credibilità dell’insegnante. Secondo me, è però importante che si chiarisca che non si valuta la persona dell’alunno,ma solo una sua prestazione scolastica, e non avere verso di lui un atteggiamento sprezzante,ma fargli capire che il docente è dispiaciuto di avergli dovuto dare quel voto,che è disponibile ad aiutarlo, e che il ragazzo impegnandosi potrà migliorare.Inoltre a lui e ai suoi genitori va detto che in sede di valutazione finale si terrà conto anche del livello di partenza e dei progressi fatti.Penso che tutto ciò sia più proficuo ed educativo che ignorare le lacune “gonfiando i voti”

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    • Credo che sia scontato che non si valuti la persona. Io ho avuto come allievi dei “mezzi somari” (detto affettuosamente 🙂 ) con pregi rari dal punto di vista umano. E’ capitato anche il caso contrario, purtroppo. 😦

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      • Hai ragione. Io sono stata fortunata perché nella mia carriera non ho mai avuto colleghi che facevano favoritismi solo perché un dato pargolo apparteneva alla “Udine che conta”. Sembra di no ma anche qui ci sono personaggi importanti e anch’io ho avuto come studenti figli politici, giornalisti, scienziati, calciatori …

        Ho fatto otto anni di scuola in classe con il figlio del sindaco. Nessun docente ha mai avuto un occhio di riguardo per lui e, se l’avessero avuto, non gli avrebbe fatto piacere. Sopportava a malapena essere portato a scuola dall’auto blu del padre, con tanto di autista. Ricordo che, appena fu abbastanza grande, si ribellò e pretese di essere accompagnato dalla madre con una Cinquecento scassatissima. 🙂

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  4. Che non si valuti la persona è scontato per te,ma purtroppo non lo è per altri docenti, che non trattano allo stesso modo tutti gli allievi. Condivido quanto dici circa il fatto che ai licei spesso approdano ragazzi che farebbero bene ad andare ad altre scuole, non perchè siano cretini o neppure tanto perchè abbiano una preparazione carente,ma perchè non hanno attitudine e interesse per quel tipo di studi.Ciascuno riesce meglio se segue le proprie inclinazioni:conosco ottimi ingegneri provenienti dal tecnico,architetti dall’istituto d’arte.Forse le scelte dei genitori sarebbero diverse se tutti gli istituti di durata quinquennale fossero chiamati licei(commerciale,tecnologico…)e vi fosse la serietà di studi che vi era un tempo.

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  5. Non vorrei sembrare forcaiola (anche se per certi versi lo sono), ma ne ho piene le tasche di questo fatto che non si possa “mortificare” il bambino/ragazzo, che bisogna dirgli sempre che tutto va bene, non è così che si prepara alla vita, e soprattutto non mi sta bene un ingegnere che progetta case che crollano o un chirurgo che ammazza i pazienti perché sono degli incompetenti arrivati alla laurea senza che la scuola li mortificasse mai.

    Però, per non essere fraintesa, vorrei chiarire alcuni punti: non credo che ci siano professioni più o meno meritevoli, non è vero che “un laureato vale più di un cantante”, mentre è invece importante seguire le proprie inclinazioni. Gli istituti professionali non sono istituti di serie B rispetto al liceo, ma sono certo strutture diverse che si propongono intenti diversi: insomma, se una persona che si esprimeva contro il costringere i figli a studiare diceva “meglio un ottimo falegname che un pessimo medico”, diciamo pure che è anche vero il contrario, che uno potrebbe essere un ottimo medico ma un pessimo falegname, se il suo talento è per la scienza e non per la manualità.

    Tornando a bomba, più che fossilizzarci sul voto, dovremmo tenere presente che è importante che il ragazzo segua un corso di studi che sente suo (magari anche grazie a insegnanti che trasmettono amore per la materia) e che sia chiaro, sia all’insegnante che al genitore che allo studente, che il voto indica il livello di preparazione dello studente in una materia, non il valore della persona, come già è stato ampiamente detto qui, ma che forse poi all’interno delle famiglie e della scuola diventa un po’ meno chiaro.

    Ancora, in classe di mia figlia c’è un insegnante che dà anche uno e due, ma non mortifica mai gli studenti, e un altro che ha il sei politico incorporato, ma non avete idea di quanto invece umili i ragazzi: mortificare una persona non dipende dal voto, ma dal messaggio che gli si trasmette.

    Infine, perché non bisogna dire che chi non è in grado di sostenere i ritmi del liceo se ne deve andare altrove? Sì che se ne devono andare altrove, e non necessariamente a un istituto tecnico o professionale: anche a casa o al lavoro se la scuola dell’obbligo l’hanno finita!

    A me ‘sto “siamo tutti uguali” e “tutti devono avere tutto indipendentemente da capacità e impegno”, che di fatto ha portato la nostra nazione al collasso, m’ha proprio stancato (e ho detto “a me mi”, apposta, di proposito, tanto abbiamo disquisito a lungo anche su questo, sgrunt!)

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    • Concordo. L’importante è che non si scoraggino gli allievi più deboli fin dall’inizio. Con il tempo ho assistito a dei veri e propri miracoli.

      Comunque pare che finalmente le famiglie abbiano capito che il liceo non è l’unica scuola superiore: quest’anno le iscrizioni ai licei, specie scientifico e classico, sono crollate mentre sono aumentate quelle al linguistico e negli istituti tecnici e professionali.

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  6. Cara Marisa, concordo con te su tutta la linea. Ciò che constato negli ultimi anni è un livello più alto di fragilità negli adolescenti, dovuto all’incapacità di sostenere la frustrazione e posticipare un desiderio, anche perché crescono senza sentirsi dire “no”. I “no” invece
    aiutano a crescere, come racconta un ottimo libro della psicoterapeuta infantile Asha Phillips. Ricordo un mio studente che mi disse: “Noi ragazzi mettiamo alla prova gli adulti con continue richieste aspettandoci dei no, che spesso e a sorpresa non arrivano.”
    Sui voti aggiungo solo che la scala numerica andrebbe usata nella sua totalità, anche se un tre è già un forte richiamo in merito ad un’insufficienza molto grave. Penso sia però importante accompagnare quel tre con un’analisi su quanto non si è raggiunto e su possibili aggiustamenti futuri. Ma ciò che ritengo fondamentale è esplicitare che quella carenza riguarda un tratto di materia, non raccontando assolutamente nulla della persona nel suo insieme.
    Un’ultima parola sulla latitanza delle famiglie. Possibile che a 17 anni su 50 studenti solo uno abbia letto e sappia la storia di Pinocchio? Quanti sottocodici metaforici di riferimento si perderanno questi ragazzi? Difficile parlare poi di prototipi umani quali “il gatto e la volpe”, protagonisti di “canzonette” e di tante storie italiane…
    Un abbraccio, Ester.

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